“Luci della ribalta” di Charlie Chaplin

(USA, 1952)

Dopo il flop commerciale dello splendido ma indubbiamente cinico “Monsieur Verdoux”, Charlie Chaplin decide di tornare a raccontare una storia d’amore. La prima idea che gli approda nella mente è che i protagonisti dovranno essere un clown e una ballerina, e poi lentamente il resto della storia si presenta quasi da solo.

Perché il personaggio del clown che prenderà il nome di Calvero, Chaplin lo ispira profondamente a se stesso, a partire dalla sua età (il grande artista inglese, durante le riprese, aveva 63 anni) che mostra senza trucco davanti alla macchina da presa.

La ballerina, invece, è molto più giovane, proprio come la maggior parte della compagne nella vita reale di Chaplin, così come Oona O’Neil, la sua ultima moglie, aveva 33 anni in meno di lui.

Ma se è vero che l’amore non ha età, è vero anche che l’anagrafe non fa sconti a nessuno. E così se esplode un sentimento fra due persone che vivono momenti opposti delle propria esistenza – uno al crepuscolo e l’altra agli albori – il rapporto se pur sincero e limpido, non può ignorare il corso della natura.

E così Chaplin ci racconta l’ultima parte dell’esistenza del grande comico Calvero, caduto in disgrazia a causa del suo alcolismo, ma che riesce a tornare grande e a strappare al pubblico fragorosi e incontenibili applausi anche solo per un’ultima sera, grazie all’amore puro di Thereza (Claire Boom) una giovane e promettente ballerina che lui per caso ha salvato una sera rientrando a casa.

Con toni melodrammatici, ma al tempo stessi coinvolgenti e taglienti, Chaplin ci lascia il suo testamento artistico, fatto di amore e odio incondizionato per il palcoscenico e soprattutto per il pubblico, spesso ignorante cattivo e superficiale, ma senza il quale un vero artista non può vivere.

Memorabile la scena finale con lo sketch eseguito dalla due “vecchie glorie” (…ma ad avercele oggi!) Calvero e il suo partner impersonato dal grande Buster Keaton. Così come la colonna sonora scritta dallo stesso Chaplin e che nel 1972, vent’anni dopo, venne insignita del premio Oscar.

“Luci della ribalta” fu, infatti, l’ultimo film realizzato da Chaplin negli Stati Uniti, visto che mentre era sulla nave per raggiungere Londra e presentare il film, ricevette la notizia che se avesse rimesso piede in America sarebbe stato immediatamente arrestato per le sue “famigerate” attività anti-americane. 

Fra i suoi principali detrattori c’era anche John Edgar Hoover, allora capo dell’F.B.I., che già dagli anni Venti mal sopportava le idee liberali dell’artista inglese. Ad aggravare la sua posizione, secondo Hoover, furono le pellicole “Il grande dittatore” e “Monsieur Verdoux” che non lesinavano critiche nette e profonde al capitalismo e ai suoi seguaci.

Così a Chaplin venne permesso di rientrare negli USA solo nel 1972 – anno della morte dello stesso Hoover – per ritirare l’Oscar. 

Per la chicca: questa pellicola, per noi italiani, possiede una cabala assai particolare, soprattutto in relazione al nostro più grande comico quale è stato Antonio De Curtis, in arte Totò, che non nascose mai di considerare Chaplin (così come Buster Keaton) un grande esempio ispiratore.

Nel 1952, anno d’uscita del film, De Curtis incontrò Franca Faldini, la compagna con la quale passò i suoi ultimi quindici anni di vita. Fra i due c’erano 33 anni di differenza d’età, esattamente come quella fra Calvero e Thereza.

Nonostante sia stato proprio il cinema – e in piccola parte anche la televisione – a permettere alle generazioni successive, come la mia, di conoscere apprezzare e amare l’immensa arte di Totò, lo stesso attore lo considerava un’arte “minore” rispetto al suo grande e unico amore che era il teatro. Sentimento simile è presente in quasi tutti film – soprattutto quelli sonori – di Chaplin che fanno riferimento al teatro come all’arte “suprema”.

E poi c’è la scena finale, quella della morte di Calvero a causa di un infarto dietro le quinte del teatro dove si è appena esibito. Antonio De Curtis morì per un attacco cardiaco la notte del 15 aprile del 1967, mentre era impegnato a girare lo splendido “Il padre di famiglia” di Nanni Loy, e aveva appena concluso “Che cosa sono le nuvole?” diretto da Pier Paolo Pasolini, in cui interpretava il burattino Jago che viene gettato via nell’immondizia perché rotto e ormai inutilizzabile.

Per la chicca: come assistente alla regia il grande Chaplin sceglie per questa pellicola il giovane sconosciuto ma già talentuoso Robert Aldrich.      

“Film” di Alan Schneider e Samuel Beckett

(USA, 1964)

Scritto da Samuel Beckett e diretto da Alan Schneider (regista teatrale di fama mondiale, fra i più capaci di portare sul palco le opere dei grandi autori contemporanei così come quelle dello stesso Beckett), questo splendido cortometraggio ha come protagonista Buster Keaton.

Il premio Nobel per la Letteratura scrive questa sceneggiatura apparentemente assai semplice ma che in realtà ci mostra tutto il conflitto interiore, e soprattutto spirituale, che Beckett ha raccontato come pochi altri.

O (interpretato da un Buster Keaton eccezionale) cerca in tutti i modi di sfuggire allo sguardo di chiunque possa vederlo. Non importa se sia un essere umano o un pacifico animale, O non vuole essere percepito in alcun modo. Ma è possibile farlo? Davvero possiamo riuscire a sfuggire lo sguardo profondo degli altri…

22 minuti di profonde emozioni, che solo due grandi artisti come Beckett e Keaton possono dare. Emozioni forti e violente, così come il vero cinema e il vero teatro devono donare.

Per quanto riguarda Buster Keaton, questo cortometraggio è l’ennesima prova della sua grande e immortale arte, e di come un grande attore comico possa diventare un grande attore drammatico, mentre sembra molto più raro il contrario.

“Come vinsi la guerra” di Buster Keaton

(USA, 1926)

Questa è una delle pietre miliari del cinema muto, e non solo. Considerato da molti il capolavoro del grande Buster Keaton, “Come vinsi la guerra” (“The General” in originale) girato nel 1926, è ancora oggi pieno di trovate fantastiche e spettacolari.

Qui Keaton – e soprattutto la sua espressione glaciale e distaccata – trova il suo apice. Con inquadrature e sequenze mozziafiato sull’orlo di una locomotiva lanciata a folle corse sui binari (senza controfigure o modellini) Keaton ci spiega – come se fosse la cosa più semplice del mondo – come far ridere facendo acrobazie mortali.

La sceneggiatura del film, scritta dallo stesso Keaton assieme a Clyde Bruckman, Al Boasberg e Charles Smith, si ispira al libro “The Great Locomotive Chase” di William Pittenger, (1840-1904) reduce della guerra di secessione americana, che racconta la storia vera del raid su rotaia a cui partecipò sotto la bandiera dell’esercito confederato.

Johnnie Gray (Keaton) è un giovane ferroviere che ama due cose nella vita: “The General” la locomotiva che pilota e Annabelle Lee (Marion Mack). Allo scoppio della guerra civile il fratello e il padre di Annabelle si arruolano nell’esercito confederato, e Johnnie vorrebbe imitarli, ma il suo lavoro è troppo utile agli Stati del Sud e viene scartato. La cosa suscita grande tristezza e biasimo in Annabelle tanto che non vuole più rivederlo.

La guerra ormai è nel pieno e un manipolo di spie nordiste si infiltra nella cittadina in cui vive Johnnie. Con uno stratagemma i manigoldi riescono a rubare il treno trainato da “The General” nel quale viaggia anche Annabelle. Per Johnnie il doppio affronto è intollerabile e da solo parte all’inseguimento dei suoi due amori rapiti…

La grandezza e la modernità di Buster Keaton, se ce ne fosse bisogno, ce la sottolineano le numerose gag da lui create per questo film e ancora oggi abbondantemente scopiazzate.

Per la chicca: l’edizione italiana che si trova in commercio ha la colonna sonora curata da Stefano Bollani.