“Il violinista sul tetto” di Norman Jewison

(USA, 1971)

Il 22 settembre del 1964 va in scena a Broadway la prima de “Il violinista sul tetto”, musical scritto da Jerry Bock, Sheldon Harnick e Joseph Stein. Gli autori si ispirano ai protagonisti del libro “Tevye il lattivendolo ed altre storie” di Sholem Aleichem (1859-1916) che narra le vicissitudini degli abitanti di uno shetl, una una piccola comunità ebraica, nell’Europa dell’est agli inizi del Novecento.

Il titolo si ispira a un personaggio ricorrente nel quadri di Marc Chagall e simboleggia le grandi difficoltà che nel corso dei secoli le comunità ebraiche hanno dovuto affrontare per poter sopravvivere, come se avessero dovuto suonare il violino rimanendo in piedi su un tetto, col rischio costante di cadere e rompersi l’osso del collo.

Nel cast ci sono attrici e attori veri pilastri del teatro statunitense dell’epoca come Zero Mostel, che interpreta il protagonista Tevye, e Bea Arthur che veste quelli di Yente la sensale. Il successo è clamoroso, tanto da far sbarcare il musical poco dopo anche in altri paesi. Nel 1971 Norman Jewison, con la sceneggiatura scritta dallo stesso Joseph Stein, realizza l’adattamento cinematografico.

1905, nell’Ucraina che è parte della Russia zarista, Tevye (Topol) è il modesto lattaio dello shetl – immaginario – di Anatevka che, non senza fatica e sacrifici, mantiene la sua famiglia composta oltre che dalla moglie Golde (Norma Crane) dalle sue cinque figlie di cui le prime tre, Tzeitel (Rosalind Harris) Hodel (Michele Marsh) e Chava (Neva Small) già in età da marito.

Ciò che dona la forza ogni giorno a Tevye di andare avanti è la sua fede granitica ed il continuo dialogo che ha ogni giorno con l’Onnipotente, al quale pone domande e quesiti sulle ingiustizie e i piccoli e grandi problemi che deve affrontare al sorgere di ogni alba, come le razzie e i pestaggi ciclici che i militari russi impongono a tutto lo shetl.

Vista l’indigenza nella quale vivono, Golde si rivolge a Yente (Molly Picon), la sensale del villaggio, per trovare marito a Tzeitel. Yente offre la ragazza al facoltoso Lazar Woolf, l’anziano macellaio di Anatevka, che subito accetta. Dopo che Tevye e Woolf si stringono la mano sancendo l’accordo per il matrimonio, Tzeitel rivela al padre di amare e voler sposare Motel (Leonard Frey), un giovane e povero sarto.

Il lattaio si trova così davanti ad un bivio del tutto inaspettato: sacrificare la vita e la felicità della figlia o rispettare le millenarie tradizioni della sua cultura, su cui si poggia da sempre la sua stessa esistenza, visto che anche lui ha conosciuto Golde solo il giorno del loro matrimonio, organizzato e voluto dalle rispettive famiglie.

Non senza remore Tevye alla fine asseconda il volere della figlia e manda a monte l’accordo con Woolf. Nel frattempo il lattaio ha ospitato nella sua fattoria Perchik (Paul Michael Glaser, che qualche anno dopo impersonerà il detective Dave Starsky nella mitica serie tv “Starsky & Hutch”) un giovane idealista, convinto sostenitore delle teorie di Karl Marx, che tenta in ogni modo di esortare tutti gli sfruttati a ribellarsi.

Il lattaio non si è accorto però della tenera amicizia nata fra il giovane e la sua secondogenita Hodel così, quando Perchik viene arrestato come rivoluzionario dalle truppe dello Zar e deportato in Siberia e la figlia decide di raggiungerlo per sposarlo, tutte le sue convinzioni tornano a vacillare.

Ma la vita non ha certo finito con Tevye: sua figlia Chava gli confessa di voler sposare Frydka (impersonato dall’italiano Ray Lovelock che diventerà uno dei volti più noti del cinema poliziottesco nostrano di quegli anni) un giovane ucraino avulso dalla comunità ebraica. E il capo del comando delle guardie comunica a tutti gli abitanti di Anatevka che entro tre giorni devono vendere i loro averi e lasciare il villaggio come stabilito dall’editto dello Zar…

Girato nelle campagne nei pressi di Belgrado, “Il violinista sul tetto” è uno dei migliori adattamenti di un musical di Broadway del Novecento e rimane una pietra miliare del genere. La storia di Tevye e della sua famiglia ci racconta di come l’integralismo religioso – che in questo caso è quello legato alla religione ebraica ma che vale anche per le altre, per quella cattolica per esempio ce lo ricorda stupendamente Paola Cortellesi nel suo bellissimo “C’è ancora domani” – altro non è che una forma di duro e ferreo patriarcato castrante e limitante, non solo per chi lo subisce ma anche per chi lo impone.

Tevye, che ama e rispetta incondizionatamente il suo Dio, soffre e si lacera comunque nel dover imporre alle sue tanto amate figlie le stesse cose che le “tradizioni” hanno prima imposto a lui. E naturalmente le prime vittime del patriarcato, indipendentemente dal travestimento che questo assume, sono sempre le donne.

Anche se ci racconta una storia di oltre un secolo fa, “Il violista sul tetto” rimane un film, purtroppo, assai attuale, tanto che il violista sul tetto è una metafora che può andare bene anche per le donne, in paesi come il nostro, dove ogni giorno devono portare avanti al meglio la loro esistenza, troppo spesso con vicino un uomo che le può spingere giù dal tetto.

“Il labirinto del fauno” di Guillermo Del Toro

(Messico/Spagna, 2006)

Con questa pellicola viene consacrato definitivamente il genio cinematografico di Guillermo Del Toro. Il cineasta messicano, infatti, scrive e dirige una delle pellicole più visionarie e struggenti del decennio, raccontando la storia di una bambina la cui infinita fantasia non può, purtroppo, sopravvivere in una realtà crudele e ottusa.

Del Toro decide di ambientare la storia della piccola Ofelia (Ivana Baquero) nel 1944, nella Spagna sotto la dittatura franchista. Scelta molto simile a quella che farà dopo nel suo bellissimo “Pinocchio“, ambientandolo nell’Italia sotto la dittatura fascista.

Ofelia e sua madre Carmen (Ariadna Gil) sono costrette a fare un lungo e faticoso viaggio in una delle zone montuose più selvagge della Spagna per raggiungere il capitano Vidal (un bravissimo e cattivissimo Sergi Lòpez) secondo marito della stessa Carmen. Il primo, il padre di Ofelia, era un sarto morto improvvisamente, evento che ha costretto sua madre ad accettare la corte del dispotico e arrogante militare franchista.

Ora che è all’ultimo mese di gravidanza, Vidal vuole a tutti i costi che suo figlio nasca davanti ai suoi occhi e così ha costretto la moglie e la figliastra a seguirlo dove è in missione per stanare e annientare gli ultimi ribelli repubblicani che combattono contro il regime di Franco. Il viaggio e la sistemazione sono molto faticosi e precari, e così Carmen è costretta a muoversi su una sedia a rotelle e passare il resto del tempo a letto.

Il carattere libero della piccola viene mal tollerato dal suo patrigno, che cerca in ogni modo di isolarla e tenersela lontano, affidandola a Mercedes (Maribel Verdù), la governante del casale sperduto nei boschi.

Ad Ofelia non rimane che la sua fantasia per affrontare il triste e duro momento che sta vivendo, e così grazie ad alcune fate del bosco, di notte, incontra il fauno custode del labirinto costruito da tempo immemore non lontano dal casale. La creatura fantastica sostiene che la stessa Ofelia è la principessa del mitico mondo sotterraneo, fuggita molto tempo prima, che suo padre il Re non ha mai smesso di cercare.

Varcando la soglia del mondo fantastico, però, la principessa ha perso memoria del suo vero passato, motivo per il quale Ofelia non ricorda nulla. Per tornare nel mondo a cui davvero appartiene la piccola sarà costretta a superare tre prove. Intanto, però, la cruda realtà, incarnata soprattutto da Vidal, inesorabilmente incombe…

Nonostante l’atmosfera cupa e dolorosa che la pervade, questa pellicola rimane un indimenticabile omaggio a tutti coloro che vogliono sognare. La storia di Ofelia è la storia di molti che tentano di sopravvivere a momenti difficili, come l’adolescenza, cercando di rimanere sempre e comuque fedeli a se stessi e ai proprio sogni.

Non tutti ce la fanno, purtroppo, ma chi riesce a sopravvivere al duro impatto con la realtà magari diventa poi un ottimo scrittore e un grande regista.

Fra i numerosi premi vinti in tutto il mondo, “Il labirinto del fauno” ottiene anche cinque candidature e tre Oscar.

Da vedere.

“Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” di W.D. Richter

(USA, 1984)

Nell’ottobre del 1984 esce nelle sale statunitensi un film di fantascienza destinato a diventare un piccolo cult, che nel corso del tempo viene spesso citato o imitato. Basta pensare che Steven Spielberg ne fa un chiaro riferimento nel suo “Ready Player One” del 2018, quando Parzival sta per incontrare Art3mis e sceglie il look più cool ispirandosi proprio al protagonista di questo film.

I motivi perché questa pellicola, soprattutto negli USA, è considerata una delle più rappresentative degli anni Ottanta sono molti, a partire dal cast che annovera attrici e attori che diventeranno icone cinematografiche non solo di quel decennio come Peter Weller, che impersona proprio Buckaroo Banzai. Ci sono poi Ellen Barkin, John Lightgow, Jeff Goldblum, Clancy Brown e Christopher Lloyd che solo pochi mesi dopo impersonerà il professor Emmett Brown nel mitico “Ritorno al futuro“.

A proposito di “Ritorno al futuro”, proprio nelle sequenze iniziali di “Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione” il protagonista sfida la fisica con la sua autovettura futuristica il cui cuore pulsante è uno strumento molto – ma molto… – simile al flusso catalizzatore della Delorean di Doc Brown…

Tornando al film di W.D. Richter – che poco dopo parteciperà alla stesura dello script di un’altra pietra miliare del cinema degli anni Ottanta, e non solo, come “Grosso guaio a Chinatown” diretto dal maestro John Carpenter nel 1986 – anche la trama, frenetica, affatto lineare e che racchiude svolte narrative tipiche di vari generi apparentemente incompatibili, rappresenta al meglio lo spirito edonistico e glitterato di quegli anni.

Buckaroo Banzai è uno dei migliori neurochirurghi del pianeta, ma ha deciso tralasciare la sua carriera medica per dedicarsi al rock – con la sua band “The Hong Kong Cavaliers” – e alla guida di un veicolo speciale – di sua ideazione – in grado di superare i limiti della fisica conosciuta e portarlo nell’ottava dimensione (…sì, è l’ottava dimensione, forse i distributori italiani credevano che fosse “troppa” e così l’hanno divisa per due).

Per festeggiare la grande impresa Buckaroo si esibisce in un concerto dove incappa in Penny (Ellen Barkin) che sembra essere la sorella gemella della sua ex amata, di cui non ha più notizie.

Intanto, tutto il mondo parla dell’impresa di Buckaroo e la cosa arriva anche alle orecchie del perfido dottor Emilio Lizardo (John Lithgow) scienziato senza scrupoli del regime fascista italiano che dopo il fallimento del suo esperimento – riuscito invece ora a Buckaroo – e la fine della Seconda Guerra Mondiale è stato rinchiuso in un manicomio criminale.

Grazie all’appoggio di alcune creature aliene che possono prendere sembianze umane come John Bigboote (Christopher Lloyd) Lizardo cambia identità e diventa Lord John Whorfin acquistando poteri sovrannaturali. La cosa gli permette di impadronirsi del propulsore grazie al quale Buckaroo è riuscito a visitare l’ottava dimensione. Il suo intento è quello di reclutare le perfide creature che la abitano e conquistare il mondo.

Ma Buckaroo è sulle sue tracce insieme ai sui Hong Kong Cavaliers, di cui fanno parte Rawhide (Clancy Brown) e New Jersey (Jeff Goldblum), e all’aiuto di John Parker (Carl Lumbly) un alieno mutaforma proveniente dal pianeta acerrimo nemico di quello da cui arrivano gli alleati di Lord Whorfin…

Scritta da Earl Mac Rauch, questa pellicola incarna come poche lo stile e l’atmosfera di quegli anni e, nonostante alcuni limiti nella sceneggiatura, è davvero un piccolo cult trash. Facendo una citazione pubblicitaria di successo proprio in quel periodo: questo film è “per molti, ma non per tutti” …i nostalgici dal palato fino degli anni Ottanta.

“C’è ancora domani” di Paola Cortellesi

(Italia, 2023)

“La storia siamo noi” canta in maniera sublime Francesco De Gregori, in un’indimenticabile canzone che sembra rappresentare, in poche parole, l’anima dell’esordio dietro alla macchina da presa di Paola Cortellesi, che ci regala una delle migliori pellicole italiane degli ultimi anni.

Insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda (autori, fra le altre cose, della sceneggiatura del film “Come un gatto in tangenziale” diretto da Riccardo Milani) Cortellesi scrive e dirige un film che ci tocca nel profondo, raccontandoci la storia di una donna italiana che, “come tante”, ha vissuto uno dei momenti fondamentali del nostro Paese: il referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 in cui le donne italiane per la prima volta hanno potuto esercitare il loro diritto al voto.

E lo fa attraverso la vita terribile e al tempo stesso “ordinaria” di Delia (la stessa Cortellesi), una donna di mezz’età, semi analfabeta, madre di tre figli, moglie – e quindi di completo possesso, come prevedeva la nostra società di allora… – del dispotico e violento Ivano (un bravissimo Valerio Mastandrea).

L’Italia è appena uscita sconfitta dalla catastrofe sanguinaria della Seconda Guerra Mondiale e dalla dittatura fascista che nei quasi vent’anni precedenti aveva dominato, spesso in maniera ottusa, il nostro Paese. Sul “ventennio” c’è ancora oggi chi sostiene che “…però di cose buone ne sono state fatte” ignorando, più o meno in buona fede, i gravi danni economici, sociali e culturali che la dittatura, instaurata a forza di olio di ricino e manganellate, ha lasciato nel nostro Paese.

Fra questi ci sono quelli – indiscutibili! – legati alla condizione delle donne, che vivevano in totale funzione degli uomini. Non potevano votare né ricoprire ruoli sociali, se non quello della madre devota e remissiva. Madre che quasi sempre aveva il carico totale della gestione della casa e della famiglia, ma che doveva sottostare al marito quando questo, stanco del lavoro quotidiano, tornava a casa esausto.

Delia così si occupa della casa, dei tre figli e dell’arrogante suocero allettato Ottorino (Giorgio Colangeli), nonché di tutti i bisogni e i desideri di Ivano. E quando sbaglia, o il marito decide che lei ha sbagliato …so’ botte, e zitta!.

Mentre i due figli maschi vanno a scuola, Marcella (Romana Maggiora Vergano) la figlia maggiore ormai quasi ventenne, in quanto donna, dopo le elementari è stata mandata dal padre a lavorare per portare i soldi a casa. Se Delia sembra ormai rassegnata alla propria disperata esistenza, quando intravede un orizzonte simile per la figlia decide di opporsi con tutti i – pochi – mezzi che ha a disposizione.

Ma uno di questi è così potente e deflagrante da cambiare per sempre il corso della storia del nostro Paese…

Grazie all’ottima sceneggiatura e al cast superbamente diretto da Cortellesi, “C’è ancora domani” ci ricorda da dove veniamo e come è importante non dimenticare le cose che abbiamo, che sono state tanto dure e difficili da ottenere, ma che rischiamo di perdere molto rapidamente. Basta pensare che c’è chi recentemente, rappresentando ufficialmente le nostre istituzioni, ha dichiarato che le donne in Italia hanno “…purtroppo” il diritto all’aborto.

La piaga sociale del femminicidio, che martoria il nostro Paese quasi con cadenza quotidiana, parte da lontano e si appoggia su costumi e usi che fino a poco tempo fa erano considerati “normali”. E solo nel 1996 – sette anni dopo la caduta del muro di Berlino! – la nostra legislatura ha modificato da “reato contro la morale” a “reato contro la persona” lo stupro.

La battaglia per la completa emancipazione della donna in Italia non è certo conclusa, il subdolo e al tempo stesso feroce patriarcato non intende mollare la presa e fa di tutto per frenarla, ma la strada è segnata e tutto in fondo, come di ricorda Cortellesi, dipende da noi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Shining” di Stanley Kubrick

(UK/USA, 1980)

A volte le rovine di errori o insuccessi nascondono le basi di veri trionfi e opere destinate a cambiare il corso dell’arte. Così, dopo il clamoroso flop al botteghino di “Barry Lyndon” uscito nelle sale nel 1975, Stanley Kubrick aveva assoluto bisogno di realizzare una nuova pellicola di successo per rimanere padrone del proprio lavoro. Il regista, americano di nascita e britannico d’adozione, come per quasi tutti i suoi film, cercava un libro da cui trarre la sceneggiatura e scelse il genere horror che in quel momento stava superando tutti gli altri come adepti e successi in libreria.

Iniziò così, assieme al suo staff, uno studio dei volumi disponibili sul mercato, ma nessuno sembrava soddisfare le sue esigenze. Si dice che proprio in questa occasione abbia preso in considerazione anche la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, che però ritenne irrealizzabile secondo i suoi standard cinematografici.

Ma già dopo aver letto le prime pagine di “Shining”, il nuovo romanzo del giovane autore americano Stephen King pubblicato nel 1977, Kubrick capì di avere fra le mani il soggetto del suo nuovo film. Una volta opzionati i diritti, il grande cineasta iniziò la produzione di quello che sarebbe diventato uno dei suoi successi commerciali più rilevanti, ma sopratutto una pietra miliare della cinematografia planetaria.

Come per ogni sua altra opera cinematografica, Kubrick usava come “spunto” il libro originale per riscrivere la storia a suo modo. Così accadde anche per “Shining”, in cui il regista compie numerosi cambiamenti rispetto al romanzo originale. Le cronache del tempo ci riportano non poche lamentele e critiche stizzite dello stesso King nei confronti di Kubrick reo, secondo lo scrittore, di non rimanere fedele al suo scritto.

Fra quelle più evidenti ci sono le diaboliche siepi vegetali che nel film sono sostituite dal labirinto, così come altri particolari a partire dal numero della camera (217 e non 237 come nel film) o di come l’anima malvagia dell’Overlook Hotel divori quella di Jack Torrance, processo nel romanzo più lento rispetto a quello del film.

Per questo, probabilmente, Kubrick inserisce nel film una sequenza apparentemente inutile. Mentre Hallorann (Scatman Crothers) preoccupato torna all’Overlook Hotel, percorrendo una strada innevata viene rallentato da un grave incidente. Si tratta di un autoarticolato che si è ribaltato e ha travolto un’automobile. Il regista ci da il tempo di notare che la macchina distrutta, il cui conducente evidentemente non ha avuto scampo, è un maggiolino Volkswagen di colore rosso. Proprio come quello del Jack Torrance del romanzo, che non è del colore chiaro di quello del protagonista del film. Kubrick, quindi, ci ricorda risolutamente che stiamo vedendo una sua opera e non una di King, il cui protagonista originale è bello che morto e sepolto sotto a un TIR, invitandoci a farcene definitivamente una ragione.

Un libro e il film tratto da esso, volenti o nolenti, sono due opere nettamente differenti, così come lo sono per forma, tempi e struttura la letteratura e il cinema. Se il romanzo di King è davvero avvincente e al tempo stesso inquietante raccontando in maniera originale e terribile il più grande incubo di uno scrittore: l’impotenza creativa; la pellicola di Kubrick ci trascina inesorabilmente nell’inferno di una mente malata materializzando quell’incubo con scene mozzafiato e terrificanti.

Ogni sequenza è studiata per creare disagio nello spettatore, grazie anche alla tecnica della pubblicità subliminale che in quegli anni venne definitivamente vietata e che il regista studiò a fondo. Kubrick mette finestre dove fisicamente è impossibile che ci siano, crea continue allusioni sessuali spesso spiacevoli e ambigue, o cambia il senso della moquette a seconda dell’inquadratura.

Anche l’uso del sonoro è “diabolico”, basta pensare alla sequenza del piccolo Danny che gira sul triciclo per l’albergo, prima di incontrare le gemelle, sequenza in cui il rumore delle ruote viene ripetutamente interrotto dai tappeti sistemati ad hoc.

Cinematograficamente parlando, poi, c’è il massiccio uso della steadicam a mano, la macchina da presa che invece del carrello viene mossa direttamente dall’operatore che l’ha sistemata sulle spalle. Con una serie di carrucole e leve, nonostante il movimento, la riprese sono perfette senza oscillazioni né sobbalzi. Cosa che permette di girare scene in movimento, come su una scalinata, senza problemi. A inventarla è stato a metà degli anni Settanta l’americano Garrett Brown – che, per esempio, nel 1976 gira la famosa scena in cui Sylvester Stallone corre sulla scalinata in “Rocky” – che Kubrick sceglie come operatore del film.

Grazie a Brown e alla sua steadicam, Kubrick ci fa seguire gli attori in maniera quasi morbosa e ossessiva, cosa che aumenta l’ansia e il disagio di noi spettatori. Naturalmente va ricordato anche il cast artistico con uno stratosferico Jack Nicholson – apprezzato anche da King -, Shelley Duvall, lo stesso Crothers e il piccolo Danny Lloyd. Nella nostra versione deve essere citato anche il grande Giancarlo Giannini che dona superbamente la voce a Nicholson con quel suo “Wendy …sono a casa!” che ancora ci fa venire i brividi.

Nonostante sia stato sempre considerato un regista dispotico e maniacale, poco amato dagli attori che hanno avuto l’onore di lavorare con lui, Stanley Kubrick rimane indiscutibilmente uno dei più grandi registi di tutti i tempi, e questo film, come molti altri da lui firmati, ce lo ricorda perentoriamente visto che a distanza di oltre quarant’anni ancora ci mette i brividi.

Un capolavoro assoluto.

“Irresistibile” di Jon Stewart

(USA, 2020)

Sono appena passate le elezioni presidenziale statunitensi del 2016 e salire alla Casa Bianca, smentendo la maggior parte dei sondaggi, è il repubblicano Donald Trump che ha battuto la democratica Hilary Clinton data da tutti la strafavorita.

Il consulente e stratega della campagna del Partito Democratico Gary Zimmer (Steve Carell) è ovviamente devastato e depresso. Ma nel pieno e vincente stile “americano” e soprattutto di Washington, Zimmer decide subito di ripartire e trovare il mondo di riportare un democratico al 1600 di Pennsylvania Avenue. E per farlo deve inesorabilmente ripartire dalla base.

Così, quando un giovane stagista gli mostra un video postato sulla rete in cui un ex marines parla di tolleranza e unità durante l’assemblea nel piccolo municipio di Deerlaken, un’altrettanto piccola località del Wisconsin, Gary Zimmer è certo di aver ritrovato il bandolo della matassa.

L’uomo nel video è Jack Hastings (Chris Cooper), un ex colonnello che ora assieme alla giovane figlia Diana (Mackenzie Davis) gestisce la sua fattoria. Il Wisconsin è uno stato perlopiù agricolo, e Hastings quindi lo incarna in pieno, ma soprattutto il Wisconsin è uno dei famigerati stati “incerti”, quelli che non hanno storicamente una tradizione democratica o repubblicana, e così spesso diventano un imprevedibile ago della bilancia nelle elezioni presidenziali.

Zimmer parte subito per Deerlaken dove intende convincere Hastings a candidarsi come sindaco democratico contro l’attuale primo cittadino repubblicano. L’ex marines è restio, ma alla fine accetta ad una condizione: che sia direttamente Zimmer ad occuparsi della campagna.

La permanenza del responsabile delle campagne elettorali dei Democratici a Deerlaken non può che attirare l’attenzione di Faith Brewster (Rose Byrne) sua omologa del partito Repubblicano che immediatamente corre a Deerlaken anche lei. In poche ore i due vengono raggiunti dal grande circo mediatico televisivo che pone all’attenzione dell’intero Paese l’elezioni municipali della piccola cittadina rurale. Ma…

Il poliedrico Jon Stewart scrive e dirige questa sfiziosa e caustica commedia ambientata nel dispotico e spietato mondo delle campagne elettorali fatto di sondaggi, proiezioni, studi sociali e attente analisi – molto spesso non autorizzate e illegali – sul web, che troppo spesso si scordano che alla fine gli elettori sono esseri umani, con i loro vizi e le loro debolezze.

E ci ricorda in maniera graffiante come la televisione, che può creare miti e fenomeni nel giro di ventiquattro ore, non solo può disintegrarli in un tempo ancora più breve, ma può essere sapientemente manipolata.

Di quanto la televisione influisca direttamente nella politica poi, noi italiani, ne sappiamo qualcosa…

“Nessuno ti salverà” di Brian Duffield

(USA, 2023)

Brynn (una bravissima Kaitlyn Dever) è una ragazza che vive da sola in una grande casa di campagna, fuori da una delle tante cittadine del midwest americano. Ama cucire e ampliare il piccolo villaggio in miniatura che ha costruito sul tavolo del grande salotto, villaggio che aveva iniziato a creare con sua madre, morta poco tempo prima.

Le sue visite in città sono molto veloci, anche perché nessuno dei suoi concittadini sembra tollerarla troppo. L’unico rapporto che ha con l’esterno è con la sua migliore amica Maude, alla quale scrive delle lettere quotidiane e della quale ha foto sparse in tutta casa. Una notte, però, Brynn viene svegliata da alcuni strani rumori e quando scende in salotto per caprine la causa si accorge che un alieno sta curiosando nel suo salone.

La ragazza prima cerca di fuggire in tutti i modi, ma alla fine è costretta a combattere contro gli alieni, che fra le altre cose hanno anche il potere della telecinesi. Ma oltre agli alieni Brynn deve vedersela contro il suo crudele passato…

Brian Duffield – che ha al suo attivo le sceneggiature di film come “Love and Monster” o “Underwater” – scrive e dirige un vero e proprio gioiellino di sci-fi. Nonostante il genere e l’ambientazione Duffield realizza un film dove non ci sono dialoghi, solo alla fine pochissime parole sussurrate, esercizio di stile davvero molto complicato. Ma non avere dialoghi non vuol dire non aver il sonoro, visto che la comunicazione fra gli alieni è spesso assordante così come lo è sovente la colonna sonora.

Davvero un ottimo esempio di “piccolo” film indipendente destinato a diventare un cult assoluto. Non è un caso, quindi, che il maestro Stephen King, proprio pochi giorno dopo la sua messa in streaming, lo abbia elogiato su Twitter. Nel post il Re lo paragona, giustamente, allo strepitoso episodio “Gli Invasori”, facente parte della seconda stagione della mitica serie televisiva “Ai confini della realtà“, andato in onda negli Stati Uniti il 27 gennaio del 1961.

L’episodio venne scritto da due veri e propri maestri: il grande Rod Serling, creatore della serie, e Richard Matheson, sceneggiatore e scrittore, autore fra le altre cose di uno dei romanzi di fantascienza più famosi e adattati di tutti i tempi: “Io sono leggenda”, pubblicato per la prima volta nel 1954.

Da vedere, e se lo dice il Re…

“Sospesi nel tempo” di Peter Jackson

(USA, 1996)

Agli inizi degli anni Novanta Peter Jackson e la sceneggiatrice Fran Walsh, sua compagna anche nella vita, scrivono il soggetto di un film fantasy/horror che alla fine riescono a sottoporre a Robert Zemeckis. Il regista di “Ritorno al futuro” e “Forrest Gump” ne rimane entusiasta e così parte la produzione della pellicola.

Jackson ottiene che il film venga girato negli esterni in Nuova Zelanda, il suo Paese natale, a patto che l’ambientazione e le scenografie ricordino quelle tipiche del mid-west statunitense, gli impone la produzione. Se allora la scelta del regista poteva sembrare solo il frutto di un legittimo sentimento patriottico, oggi invece è fin troppo chiaro che il regista si stava preparando a realizzare la trilogia de “Il Signore degli Anelli”, che ha anche negli splendidi panorami neozelandesi uno dei suoi punti di forza, oltre alla sceneggiatura scritta dallo stesso Jackson assieme alla stessa Fran Walsh e Philippa Boyens.

Zemeckis, da grande uomo di cinema qual è, sa che Jackson – allora… – e il cast artistico scelto, anche se ottimi professionisti, non sono così famosi al pubblico e convince il suo amico Michael J. Fox ad interpretare il protagonista per attirare l’attenzione su una pellicola così originale e innovativa visto che possiede i caratteri della commedia, del giallo e dell’horror sapientemente bilanciati.

Frank Bannister (Michael J. Fox) era un architetto di successo e, insieme a sua moglie Debra, stava costruendo la casa dei suoi sogni. Ma a causa di un grave incidente automobilistico, di cui Frank si assume tutta la colpa morale e materiale, Debra è morta. Sono passati oltre cinque anni, ma Frank non ha portato avanti la costruzione della casa che è rimasta di fatto un cantiere a cielo aperto.

Ha abbandonato il suo lavoro e ora vive di espedienti, soprattutto quelli legati al paranormale. Perché dopo l’incidente Frank riesce a vedere e a parlare con i fantasmi. E proprio con tre di questi ha creato una società a delinquere. Cyrus (Chi McBride), un piccolo criminale morto negli anni Settanta, Stuart (Jim Fyfe), uno studente modello perito negli anni Cinquanta, e il “vecchio” giudice (John Astin), un volitivo e uomo di legge del duro Far West, infestano la casa scelta appositamente prima da Frank che poi si presenta come “disinfestatore” dell’occulto dietro una lauta ricompensa.

Ma quando l’ex architetto si presenta a casa di Lucy (Trini Alvarado) e Ray Lynskey (Peter Dobson) oltre a vedere i suoi complici, che i padroni di casa non possono vedere, scorge i segni di un inquietante Tristo Mietitore affamato di vite umane…

Con effetti speciali allora davvero all’avanguardia, sequenze mozzafiato e una piacevole ironia “Sospesi nel tempo” – il cui titolo originale è “The Frighteners”, ovvero “Gli spaventosi”, che ha molto più senso di quello in italiano, soprattutto dopo aver visto il finale… – ci offre oltre 100 minuti di brividi e divertimento, firmate da un vero artigiano indiscusso della macchina da presa che riesce sempre ad inventare trovate visive originali e inaspettate.

John Astin – che nell’immaginario collettivo sarà sempre il primo grande Gomez nella serie televisiva degli anni Sessanta “La famiglia Addams” – è nella vita reale il padre di Sean Astin, già protagonista del mitico “I Goonies” e che poi, pochi anni dopo, interpreterà Samvise Gamgee nella trilogia de “Il Signore degli Anelli” diretta da Jackson, partecipando poi, fra le altre cose, alla seconda stagione della serie televisiva cult “Stranger Things“.

“Mosca a New York” di Paul Mazursky

(USA, 1984)

Vladimir Ivanoff (un bravissimo Robin Williams) è un sassofonista che lavora presso la banda di un circo di Mosca. Suo nonno è stato un grande comico e un grande artista, ma ormai è relegato nel piccolo appartamento nel quale vive Vladimir coi genitori e i fratelli.

Siamo agli inizi degli anni Ottanta e a Mosca, nonostante sia la capitale dell’Unione Sovietica, i beni di prima necessità, come la carta igienica, sono molto rari e si ottengono solo dopo lunghissime file e interminabili ore di attesa. Ma a Vladimir, infondo, va bene così, anche se sogna l’America, soprattutto quella del grande jazz.

Il suo amico e collega di lavoro Anatoly (Elya Baskin) che al circo fa il clown, invece, non riesce più a sopportare un’esistenza condizionata prepotentemente dal regime comunista che gli toglie ogni sogno e speranza, e ogni giorno promette a se stesso e a Vladimir che prima o poi fuggirà in Occidente.

L’occasione arriva quando il circo viene invitato per qualche giorno a New York per un’esibizione nell’ambito dei rapporti amichevoli fra USA e URSS. Proprio tornando all’aeroporto il pullman con gli artisti circensi si ferma da Bloomingdale’s per alcuni “souvenir” e Anatoly, nonostante la stretta sorveglianza degli agenti del KGB, confida a Vladimir di volere agire lì e chiedere asilo politico. Ma all’ultimo istante il clown non trova il coraggio di fare quel gesto che brama da tutta la vita e così, sconfitto, segue docilmente i suoi rigidi custodi.

La cosa, però, dona forza e volontà a Vladimir che grazie anche a Lucia (Maria Conchita Alonso) una commessa del reparto profumeria, e Lionel (Cleavant Derricks) un addetto alla sicurezza del grande magazzino, riesce a chiedere asilo politico alle autorità americane.

Inizia così una nuova esistenza per Vladimir che, volente o nolente, deve abbandonare per sempre quella passata, sapendo bene che non potrà mai più rivedere la sua famiglia. Ad aiutarlo ed accoglierlo saranno gli stessi Lionel e Lucia, ma soprattutto una folta schiera di immigrati come lui che negli Stati Uniti sono arrivati con ogni mezzo, sperando di realizzare i propri sogni. Ma la realtà non è sempre così rosea…

Scritto dallo stesso Mazursky assieme a Leon Capetanos, questo film ci racconta con i toni della commedia il dramma ed il dolore di un essere umano costretto a lasciare la sua casa e i suoi affetti per cercare un’esistenza migliore e più dignitosa, dove non dover passare l’interna giornata in fila per avere un paio di rotoli di carta igienica o poter suonare liberamente la musica jazz, senza paura di essere arrestato.

Inoltre, ci regala una bellissima interpretazione di Robin Williams, fra le sue migliori in assoluto, che dimostra – se davvero ce ne fosse ancora bisogno – che solo un grande comico può far piangere. Purtroppo il film venne completamente ignorato dall’establishment contemporaneo a stelle e strisce, che non gradì la critica che il film faceva alla società americana del tempo. E così Williams, anche se vinse il Golden Globe – votato dalla stampa straniera – per la sua performance, venne completamente ignorato agli Oscar.

In realtà “Mosca a New York” non critica tutta la (multietnica) società americana, ma quella parte che sguinzagliò il più feroce e incontrollato capitalismo pur di battere economicamente l’Unione Sovietica; parte che aveva il suo paladino nel presidente Reagan. Se è vero che quelle scelte economiche contribuirono fattivamente ad abbattere il muro di Berlino, è vero anche che alcune di esse, a distanza di tanti decenni, noi le stiamo ancora pagando.

E così, proprio a ridosso della rielezione di Reagan, questo film fu visto dalla parte più conservatrice e reazionaria della società americana come fumo negli occhi, tanto da rischiare di rovinare la carriera di Williams, che fu costretto ad interpretare, poi per molto tempo, solo ruoli più superficiali e leggeri.

Per la chicca: nel film Valdimir e Lucia vanno al cinema a vedere “Una donna tutta sola” diretto dallo stesso Marzusky nel 1978; bellissima e amara pellicola che venne candidata all’Oscar come miglior film e per la quale lo stesso regista venne candidato come miglior sceneggiatore.

“Le tentazioni del dottor Antonio” di Federico Fellini

(Italia, 1962)

Cesare Zavattini propone a Carlo Ponti un film ad episodi diretti dai quattro fra i più importanti registi italiani di allora: Mario Monicelli, Federico Fellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica, rispettivamente con “Renzo e Luciana“, “Le tentazioni del dottor Antonio”, “Il lavoro” e “La riffa“.

Federico Fellini sceglie di raccontare la parte più bigotta e ipocrita della società italiana del tempo che, con feroce violenza, si era scagliata solo qualche anno prima contro di lui ed i suoi film “La dolce vita” prima e “8 e 1/2” poi.

Il nostro Paese, da ormai quasi due decenni è guidato politicamente dalla Democrazia Cristiana che è per molti un punto di riferimento culturale e sociale, oltre che incarnare gli ideali cattolici della Chiesa Romana che in quegli anni ha un’ingerenza pesante nel nostro quotidiano.

E così all’uscita, ma soprattutto al clamoroso successo internazionale de “La dolce vita”, i più integerrimi benpensanti italici, convinti di essere gli unici detentori della “morale” e del “decente”, si scagliarono ferocemente, fregiandosi dello scudo crociato, contro il regista gli autori e gli attori. Oggi, fortunatamente, può far sorridere tale circostanza, ma in quegli anni essere “scomunicato” dal Vaticano aveva comunque le sue ripercussioni anche nella vita quotidiana.

Per esempio, più o meno nello stesso periodo, la grande Mina veniva insultata da alcuni passanti in strada, mentre faceva la spesa, solo perché aveva avuto l’ardire e la spudoratezza di fare un figlio con un uomo sposato e non vergognarsi pubblicamente…

Così Fellini, assieme ai suoi autori preferiti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, incarnano tutti questi tipici atteggiamenti italioti perbenisti ed ipocriti nell’integerrimo dottor Antonio Mazzuolo (un bravissimo Peppino De Filippo) custode e tutore dell’ordine morale, tanto da non avere scrupoli nello schiaffeggiare una sconosciuta in un bar solo perché questa indossava un abito leggermente scollato.

E proprio davanti alla finestra di casa Mazzuolo viene affisso un enorme cartellone pubblicitario con la bellissima e prosperosa Anita Ekberg che in uno abito da sera scollato, sdraiata, pubblicizza il latte.

Il dottor Antonio, turbato e scandalizzato cerca in ogni modo di farlo coprire, anche rivolgendosi ai politici di riferimento, ma la sua rabbia nasconde in realtà una morbosa e indicibile voglia di possedere quel corpo così procace e sessuale, voglia che alla fine riesce a dare vita al manifesto…

Per comprendere al meglio la nostra società di allora basta ricordare anche l’episodio dello schiaffo accadde veramente ai danni di una signora straniera che si era, da sola, seduta in un bar del centro di Roma per prendere un caffè e che venne aggredita e colpita da un giovane puritano Oscar Luigi Scalfaro – che poi diventerà Presidente della Repubblica – cosa che oggi, giustamente, sarebbe impensabile senza dure e implacabili conseguenze.

Fortunatamente non tutta l’Italia, allora, era così e ci furono molte parole pubbliche di biasimo che ebbero il loro culmine nel guanto di sfida che lanciò realmente il grande Antonio De Curtis in arte Totò, sfidando ufficialmente a duello Scalfaro per difendere l’onore della povera e innocente malcapitata. Duello che però, fortunatamente per tutti, non ebbe luogo.

Tornando all’episodio diretto da Fellini, che ha praticamente la durata di un film breve, colpisce ancora oggi la sua satira e la sua ironia verso una parte del nostro Paese che è dura a morire e che spesso, per mere ragioni elettorali, alcuni politici fomentano.