“Luv vuol dire amore?” di Clive Donner

(USA, 1967)

Nel 1964 furoreggia a Broadway “Luv”, commedia brillante scritta da Murray Schisgal (1926-2020) e diretta da Mike Nichols, che già aveva portato con successo sul palcoscenico le prime opere scritte dal grande Neil Simon.

Come spesso accade Hollywood decide di farne un film e sceglie un cast davvero di prim’ordine a partire dal Jack Lemmon nei panni di Harry Berlin, Peter Falk in quelli di Milt Manville ed Elaine May nelle vesti di Ellen Manville. Lemmon e Falk tornano a recitare insieme dopo l’esilarante “La grande corsa” diretto da Blake Edwards nel 1965. Per la May, invece, che diventerà nel corso degli anni una delle attrici, sceneggiatrici e registe più rilevanti degli Stati Uniti, rappresenta il primo vero e proprio ruolo da protagonista davanti alla macchina da presa.

Proprio assieme allo stesso Mike Nichols, la May negli anni Cinquanta formò un duo comico e cabarettistico indimenticabile e di enorme successo non solo a Broadway, tanto che le registrazioni dei loro spettacoli ancora sono ascoltate e studiate. Ma l’arte e il genio della May non si limitano solo al brillante: nel 1976, infatti, dirige lo stesso Peter Falk assieme a John Cassavetes nel duro e cupo “Mickey & Nicky” di cui firma anche la sceneggiatura.

Ma torniamo alla pellicola di Donner che si apre su uno dei lunghissimi ponti che collegano Manhattan al resto della città. Lo sconsolato e depresso Harry Berlin cammina senza una meta fino a quando trova una panchina dalla quale sale sul parapetto del ponte con l’intenzione di gettarsi nel fiume Hudson. Ma proprio mentre Harry sta per lanciarsi arriva su uno scooter un uomo che si ferma per osservare un vecchio paralume che qualcuno ha gettato nel cestino dei rifiuti accanto alla panchina dove è salito Harry.

Fortunatamente l’uomo, che si chiama Milt, riconosce in Harry il suo vecchio compagno di college e lo convince a scendere per andare a bere qualcosa assieme. Nel pub Harry racconta al suo vecchio amico di come non creda più in nulla: la sua vita è vuota visto che non ha mai incontrato l’amore. A Milt viene in mente un’idea che risolverebbe i problemi a entrambe: andare a cena da lui e conoscere sua moglie Ellen.

Il loro matrimonio è ormai in crisi e Milt si è innamorato della bella, giovane e assai prosperosa insegnante di ginnastica Linda (Nina Wayne). Se Harry riesce a far innamorare Ellen, questa gli concederà il divorzio permettendogli così finalmente di sposare Linda. Ma, come dice un vecchio detto: i piani (…soprattutto in amore) li rispetta solo l’ascensore…

Divertente commedia sopra le righe nella quale si respira ancora oggi l’aria frizzante dei Sessanta e dove si parla con serenità, senza ipocrisia o falsi moralismi, di sessualità e di omosessualità. Un piccolo gioiellino, forse un pò troppo legato al mondo di allora, che però rimane godibile fino all’ultimo fotogramma soprattutto per il suo splendido cast.

Per la chicca: nei panni di uno scorbutico automobilista che colpisce dritto sul naso il povero Harry c’è un giovane e allora sconosciuto Harrison Ford, che proprio in quel periodo stava facendo i provini col maestro Stanley Kubrick per il ruolo da protagonista di “2001: odissea nello spazio”. Ruolo che poi venne affidato a Keir Dullea.

“Provaci ancora Sam” di Herbert Ross

(USA, 1972)

Chi ha letto la sua irresistibile autobiografia “A proposito di niente” sa che Allan Stewart Königsberg, in arte Woody Allen, oltre ad essere stato un ottimo sportivo, soprattutto come giocatore di baseball, è stato fin da giovanissimo un grande seduttore.

Per cui il Sam protagonista di questo “Provaci ancora Sam” ha solo dei riferimenti superficiali al vero Woody Allen. La prima esperienza sul grande schermo per il genio newyorkese non è positiva: nel 1965 scrive la sceneggiatura di “Ciao Pussycat” che però durante le riprese viene abbondantemente stravolta, rivelandosi poi un flop di critica e pubblico.

Nel 1969 gira con mezzi davvero limitati “Prendi i soldi e scappa” che è una parodia dei reportage televisivi di cronaca nera. D’altronde Allen conosce molto bene la televisione, visto che è diventato un autore stimato e ricercato già da adolescente. Poco dopo, come ci racconta sempre nella sua autobiografia, scrive la commedia teatrale “Provaci ancora Sam” per puro divertimento. Grazie al suo genio e alla sua interpretazione, insieme a quella di Diane Keaton e Tony Roberts, da piccola rappresentazione off-Broadway la commedia sbanca in pochi mesi al botteghino.

Il cinema torna ad interessarsi di Allen che però scrive una sceneggiatura “intoccabile”. A dirigere il film viene chiamato un grande artigiano della macchina da presa come Herbert Ross – autore di pellicole come “La soluzione sette per cento“, “California Suite” o “Quel giardino di aranci fatti in casa” – dal quale Allen imparerà i primi trucchi del mestiere.

Il naufragio del matrimonio di Sam, i suoi disperati e patetici tentativi di “tornare sulla piazza” e la sua fugace avventura con Linda (Diane Keaton) moglie del suo migliore amico Dick (Tony Roberts), ma soprattutto i consigli a base di whisky, ceffoni e baci del grande Humprey Bogart (interpretato da Jerry Lacy) sono ormai storia del cinema. A distanza di cinquant’anni nessuna delle strepitose battute del film ha perso il suo smalto o la forza ironica.

Il successo internazionale del film – nel nostro Paese la distribuzione di “Prendi i soldi e scappa” avviene solo poche settimane prima dell’uscita di “Provaci ancora Sam” – gli apre definitivamente le porte del mondo del cinema.

Da ricordare, nella nostra versione, oltre al “solito” magistrale doppiaggio dello stesso Allen da parte di Oreste Lionello, quello di Lacy nei panni di Bogart da parte di Paolo Ferrari, davvero due grandi ed indimenticabili artisti.

Da vedere e rivedere ad intervalli regolari.

“Radio Days” di Woody Allen

(USA, 1987)

Molti critici, soprattutto quelli italiani, hanno paragonato giustamente questa malinconica e divertente pellicola di Woody Allen ad “Amarcord” di Federico Fellini.

Infatti il genio newyorkese, che non appare nel film anche se è sua la voce narrante (doppiata come sempre in maniera sublime da Oreste Lionello nella nostra versione) ci trasporta agli inizi degli anni Quaranta nel Queens, quartiere periferico della Grande Mela dove è nato e cresciuto.

E attraverso gli occhi del giovane Allan Stewart Königsberg alias Joe (Seth Green) riviviamo quegli anni funestati dall’ombra della guerra che si combatteva in Europa, e il cui centro nevralgico emozionale e culturale era la radio.

Così seguiamo la routine quotidiana che si consuma nella casa dove vive Joe assieme ai suoi genitori (la madre è interpretata da Julie Kavner, attrice che collaborerà molto con Allen e che dal 1989 dona la voce originale a Marge Simpson nei mitici “I Simpsons“) condivisa per pure ragioni economiche con gli zii Abe (Josh Mostel, figlio di Zero Mostel attore vittima del maccartismo e che con Allen ha interpretato un ruolo semi-autobiografico su quegli anni ne “Il prestanome” di Martin Ritt) Ceil e la loro figlia adolescente, zia Bea (Dianne West) eternamente in cerca della sua anima gemella e i nonni.

L’unico grande mezzo di fuga dalle fatiche e dalle delusioni della vita quotidiana è la radio attraverso la quale si possono vivere avventure e viaggi fantastici, e i cui protagonisti in realtà sono, loro malgrado, molto reali come per esempio Sally White (Mia Farrow) che da semplice venditrice di sigari nei nightclub diventa incredibilmente la protagonista di un programma radiofonico di gossip tutto suo. Cameo pregiato per Diane Keaton che si esibisce come cantante in una serata radiofonica.

Memorabile, e molto “felliniana”, è la scena in cui Joe viene portato per la prima volta al cinema ed entra nel maestoso e splendido “Radio City Music Hall” nel quale proiettano “Scandalo a Filadelfia” di George Cukor.

Per amanti di Woody Allen e nostalgici doc.

“La città perduta” di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro

(Francia/Spagna/Germania, 1994)

La coppia Jeunet & Caro ha segnato visivamente il cinema francese degli anni Novanta che vede nel film “Delicatessen” del 1991 il loro più grande successo al botteghino.

Grazie proprio a tali incassi i due cineasti scrivono e dirigono questo ambizioso “La città perduta” – il cui titoli originale è invece “La città dei bambini perduti” – che grazie ad una coproduzione internazionale esce nelle sale nel 1994.

In una città del nord che si affaccia su un mare scuro e sporco, vive un gruppo di orfani comandati crudelmente da Octpus, una coppia di anziane gemelle siamesi, che li sfrutta costringendoli a piccoli furti, proprio come accade in “Oliver Twist” del maestro Dickens.

In città arriva un gruppo di artisti girovaghi composto dall’uomo forzuto One (Ron Perlman, attore feticcio di Guillermo Del Toro che poi gli farà impersonare Hellboy), il piccolo Dunrée che passa con il piattino delle offerte e un ex acrobata (Ticky Holgado) che fa da presentatore.

Dopo uno spettacolo, mentre i bambini di Octopus ripuliscono i pochi spettatori, l’ex acrobata accortosi dei furti viene pugnalato a morte da Peeler (Rufus) incaricato della “protezione” dei piccoli ladri.

One e Dunrée, senza più una guida, tornano disperati nel loro camion casa, dove però il bambino viene rapito dalla setta dei Ciclopi, comandata da Gabriel Marie (Serge Merlin). I Ciclopi sono un gruppo di uomini che hanno perso l’uso della vista e fornisco bambini a Krank, un clone che invecchiando rapidamente non riesce più a sognare. E così usa i sogni dei bambini per ringiovanire. E’ coadiuvato da alcuni fratelli cloni (Dominique Pinon) che in cambio dei piccoli, fornisce alla setta occhi artificiali.

Con l’aiuto della piccola Miette (Judith Vittet) capobanda del gruppo di Octopus, One cercherà di ritrovare il piccolo Dunrée…

Già da questa breve sinossi si capisce che la sceneggiatura del film è troppo complicata e contorta (e non ho parlato di Irwin, un cervello parlante che in originale è doppiato da Jean-Louis Trintignat e nella nostra versione dal grande Oreste Lionello), cosa che di fatto ha decretato il flop del film ai botteghini francesi, e forse anche la separazione artistica dei due registi, che dopo questa pellicola non hanno più lavorato assieme.  

Nonostante ciò “La città perduta” merita di essere visto (in Italia non è uscito al cinema, ma solo in dvd) perché possiede una potenza visionaria molto particolare. Fra la regia e le scenografia – curate anche dallo stesso Caro – viviamo sensazioni profonde, repentine e alcune volte persino indimenticabili. Non a caso molte sequenze, negli anni successivi, sono state più volte copiate o citate, anche in spot pubblicitari e video musicali, e dal film è stato creato un videogioco.

E poi, per i più romantici, c’è quasi tutto il cast (tranne Audrey Tautou e Matthieu Kassovitz) del capolavoro “Il favoloso mondo di Amélie” che Jeunet dirigerà qualche anno dopo.

Nel dvd è presente una corposa sezione degli extra con le filmografie/biografie dei registi e di Perlman, uno sfizioso “Dietro le quinte” con immagini esclusive dal set, il “Making of” con interviste ai registi e ad alcuni attori, un’intervista a J.P. Gaultier che cura i costumi, un commento audio dello stesso Jeunet, il trailer e il teaser cinematografici.  

“Le avventure di Laura Storm” di Leo Chiosso e Camillo Mastrocinque

(Italia, 1965/66)

Questa serie poliziesca, con un forte accento di commedia, nasce come risposta a quella molto bogartiana de “Il tentente Sheridan” con Ubaldo Lay. Ma, nonostante ciò, a distanza di oltre cinquant’anni possiede ancora elementi particolari e innovativi che quella con Lay non ha.

Ideata da Leo Chiosso – uno dei più famosi parolieri del nostro Novecento – e Camillo Mastrocinque – uno dei maestri della grande commedia all’italiana – questa serie è andata in onda in otto puntate dal 1965 al 1966.

Laura Perrucchetti (un’affascinante quanto brava Lauretta Masiero) lavora come giornalista presso il giornale “L’Eco della Notte” usando lo pseudonimo di Laura Storm per firmare i suoi articoli, incentrati sempre sulla moda e la mondanità. Ma Laura è una donna molto particolare: ama le arti marziali, è indipendente, fuma e ha una relazione fatta di alti e bassi col suo direttore Carlo Steni (che ha il volto di Aldo Giuffrè). Lei vorrebbe dedicarsi alla cronaca nera, ma Steni si oppone fino a quando la stessa Storm non è implicata direttamente in un misterioso delitto.

Nel cast fisso appaiono anche Oreste Lionello e Stefano Sibaldi. E Andrea Camilleri, così come nelle “Inchieste del Commissario Maigret” con Cervi, è il delegato della produzione. Ma al di là dei casi gialli specifici, che spesso sono molto semplici, ciò che ancora colpisce è la modernità della figura della protagonista, che spesso le dà di santa ragione a maschi bruti e prepotenti.

Si può solo immaginare la reazione indignata di molti ben pensanti che vedendola in tv sbuffarono furenti. La RAI la trasmise in seconda serata. Non ci scordiamo che noi, fino a non troppi anni fa, eravamo il Paese del delitto d’onore, dove la Legge cancellava le condanne per stupro se l’aguzzino accettava di sposare la sua vittima. E’ importante ricordare pure che nel 1965 non c’era ancora il divorzio, e l’aborto era vergognosamente ancora illegale.

Nei dialoghi si respira l’aria di quella rivoluzione sociale che sta per arrivare (ma che poi cambierà molto poco rispetto a quello che aveva promesso) grazie alla quale le donne finalmente pretenderanno i loro diritti. Davvero un documento sulla nostra società che stava cambiando. Da vedere, ovviamente solo in rete, visto che è introvabile altrove.

Per la chicca: la sigla finale, scritta da Chiosso e Johnny Dorelli, allora compagno della Masiero, è cantata da un giovane Fausto Leali.

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“Il vizietto” di Edouard Molinaro

(Italia/Francia, 1978)

Sono passati oltre quarant’anni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche, e da allora sono stati girati innumerevoli film sull’omosessualità, ma questa pellicola di Edouard Molinaro rimane davvero tanto attuale.

Sia per la straordinaria bravura dei suoi protagonisti Ugo Tognazzi e Michel Serrault, sia per la sua sceneggiatura fresca, ironica e tagliente, con battute straordinarie.

Nel 1973 debutta al Palais-Royal – edificio seicentesco e storico di Parigi ospitante il Consiglio di Stato e il Consiglio Costituzionale, oltre che un teatro della Comédie-Française – la commedia/farsa “La cage aux folles” (che letteralmente sarebbe “La gabbia delle matte”) scritta dall’attore Jean Poiret, che la interpreta accanto a Michel Serrault.

Il successo è strepitoso e le repliche si protraggono per cinque anni. In Italia furoreggiano le Sorelle Bandiera, battezzate e portate in televisione da Renzo Arbore, e così alcuni produttori pensano di adattare la commedia per il grande schermo.

Michel Serrault mantiene la sua parte di Albin/Zazà, mentre il ruolo che era di Jean Poiret viene affidato a Ugo Tognazzi che impersona Renato Baldi. La sceneggiatura viene scritta dallo stesso Poiret assieme a Molinaro, Marcello Danon e Francis Veber (che poi firmerà altre sceneggiature di grandi incassi come “La capra” e “La cena dei cretini”).

Il successo al cinema è clamoroso e pochi mesi dopo l’uscita nelle sale viene messo in cantiere il primo sequel (che non è all’altezza dell’originale, così come sarà mediocre il terzo episodio “Matrimonio col vizietto” del 1985).

La coppia Serrault-Tognazzi si dimostra come una delle migliori del cinema comico, e nella nostra versione non può non essere ricordato insieme a loro Oreste Lionello che doppia straordinariamente Serrault.

Nel rivederlo oggi, io che bambino lo vidi al cinema divertendomi per quegli uomini stranamente vestiti da donna, comprendo adesso il grande rispetto che Tognazzi e Serrault misero nel portare sullo schermo i vizi, le debolezze ma anche l’infinita tolleranza e il coraggio degli omosessuali di allora.

I veri ridicoli nel film sono i bigottoni dei Charrier, il cui capofamiglia è interpretato da uno strepitoso Michel Galabru, ma soprattutto i due giovani che vogliono sposarsi e che sono disposti a calpestare i sentimenti dei genitori pur di realizzare il loro sogno d’amore, e questo vale soprattutto per Laurent che deride e critica aspramente il padre Renato per il suo stile di vita.

A tal proposito, è giusto ricordare come lo stesso Tognazzi, all’uscita del film in Italia, protestò per il titolo scelto “Il vizietto”, che sembrava riferirsi con accezione negativa all’omosessualità dei protagonisti.

E anche se ufficialmente il vizietto è quello di Renato che una volta ogni vent’anni viene colto dalla voglia di avere un rapporto sessuale con una donna, il titolo del film divenne nel nostro Paese, per qualcuno, il termine becero e stereotipato per riferirsi a un omosessuale.

“Il vizietto” è un film immortale, e non solo per i numerosi premi vinti come il Golden Globe, il David di Donatello, il Cèsar e le due candidature all’Oscar come Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Non Originale, ma perché è, soprattutto, tanto attuale.

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“Gigolò per caso” di John Turturro

(USA, 2013)

Questa elegante e ironica commedia, scritta diretta e interpretata da John Turturro, vanta un cast stellare: Woody Allen, Sharon Stone, Liev Schreiber, Vanessa Paradis e Sofia Vergara.

Parlare con classe ed eleganza di prostituzione non è facile, ma farlo con ironia lo è ancora di più.

Certo, se il “corruttore” del protagonista – il buon Fioravante/Turturro – ha la faccia di Woody Allen (e la voce, merita di essere ricordato, di un bravissimo Leo Gullotta che davvero non ci fa mancare troppo quella dell’indimenticabile Oreste Lionello) la strada è in discesa, ma comunque merito a Turturro che firma una sofisticata commedia dedicata all’amor profano, con sottili e delicati accenni a quello platonico.

Sullo sfondo una crepuscolare New York.