Il maestro Don Siegel ci racconta una storia sul lato più delicato della vita di un tutore della Legge. Uscendo ogni mattina da casa con la consapevolezza di poter non farvi ritorno la sera per i grossi rischi e i gravi pericoli che il mestiere di poliziotto possiede, è davvero semplice rimanere moralmente integro, senza cadere in tentazione?
La risposta non è così ovvia e banale come superficialmente può sembrare. E Siegel ce lo racconta con una grande regia, in un periodo in cui a Hollywood era professionalmente “pericoloso” parlare di “mele marce” non legate alle famigerate attività anti-americane.
Oltre alla sua superba regia, il valore di questo ottimo film in bianco e nero sta anche nella sua sceneggiatrice, produttrice e interprete Ida Lupino. Inglese di nascita, ma proveniente da un antica famiglia di artisti italiani, la Lupino è stata una delle più importanti personalità della Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, tanto da essere una fra le prime donne a esordire dietro la macchina da presa – basta ricordare che il primo Oscar alla regia vinto da una donna è stato assegnato nel 2010 – oltre che scrive e interpretare ruoli di donne molto particolari e fuori dai canoni del tempo che le volevano “binariamente” angeli del focolare o rovina famiglie.
E’ la Lupino che, insieme al suo ex marito il produttore Collier Young, scrive e produce la pellicola, ed è sempre lei ha scegliere Siegel per la regia. Nel cast, oltre a lei, spiccano Steve Cochran – che pochi anni dopo interpreterà “Il grido” di Antonioni – Howard Duff, allora marito della Lupino, e Dorothy Malone.
Cominciamo col dire che il
titolo in italiano c’entra con la storia del film come i cosiddetti cavoli a merenda.
Perché quello originale è “The Beguiled”, che letteralmente si traduce come: l’ingannato.
Identico titolo lo possiede
anche il romanzo da cui è tratto il film, pubblicato per la prima volta nel
1966 e scritto dallo statunitense Thomas P. Cullinan (1919-1995), e il cui
primo titolo era “A Painted Devil” (Un diavolo dipinto).
Baci e abbracci, quindi, al
nostro distributore e a chi per lui ha scelto il titolo italico.
A parte ciò, questa
pellicola del maestro Don Siegel è davvero indimenticabile, sia per la regia, che
per le fantastiche atmosfere gotiche, morbose e claustrofobiche che solo un
grande autore poteva creare.
Siamo in Virginia, durante la Guerra di Secessione. Nella fastosa, ma ormai decadente, villa di famiglia persa nella campagna Martha Farnsworth (una bravissima Geraldine Page) ha istituito un collegio femminile. A coadiuvarla sono la ventenne Miss Edwina Morrow (Elizabeth Hartman) che si occupa con Miss Matha dell’educazione delle sei ospiti, tutte adolescenti; e Hallie (Mea Mercer) la donna di colore schiava da sempre della famiglia Farnsworth.
L’atmosfera di quiete surreale e l’ostentata serenità, soprattutto sull’esito del conflitto che vede sempre più in difficoltà l’esercito confederato a cui lo Stato della Virginia appartiene, vengono messe in crisi quando l’educanda più piccola, la dodicenne Amy (Pamelyn Ferdin), mentre è in cerca di funghi nella campagna circostante trova un soldato nordista gravemente ferito.
L’uomo, che dice di
chiamarsi Jonathan McBurney (Clint Eastwood) riesce a farsi portare nel
collegio per essere curato e, soprattutto, scampare alle pattuglie sudiste che
battono la zona.
Se all’inizio Miss Martha
ospiterà il clandestino solo per dimostrare alle sue collegiali la propria
carità cristiana, lentamente, grazie all’avvenenza e alla scaltrezza dell’uomo,
i suoi sentimenti cambieranno, così come quelli di tutte le altre residenti
nella villa. Ma…
Fra le più crude pellicole
di Siegel, con ogni fotogramma impregnato di sangue e di sesso, “La notte brava
del soldato Jonathan” è forse un dei film più rilevanti degli anni Settanta,
con alcune sequenze che ancora oggi danno i brividi.
Non a caso, nel 2017, Sofia Coppola gira il remake dal titolo “L’inganno” (e non aggiungo altro…) con Colin Farrell nel ruolo di Eastwood, Nicole Kidman in quello della Page e Kirsten Dust nei panni che furono della Hartman.
Con questo film il maestro Don Siegel ci parla di uno dei temi sociali più scottanti nell’America del Novecento: la durissima vita nelle carceri; argomento che fra gli altri aveva affrontato – in maniera straordinaria – qualche decennio prima Jack London nel suo splendido “Il vagabondo delle stelle”.
Scritto da Richard J. Collins, “Rivolta al blocco 11” si ispira ai veri drammatici disordini che nel 1952 investirono trentacinque carceri statunitensi sovraffollate, dove i detenuti, disperati e incattiviti, causarono milioni di danni.
Il film inizia come un vero e proprio documentario, con una voce fuori campo che descrive la disumane condizioni in cui sono costretti a vivere numerosi carcerati, ospiti forzati di vecchi istituti di pena, molti dei quali costruiti nel secolo precedente e mai rinnovati. Infine, lo speaker parla della Riforma Carceraria che il Governo, dopo decenni, ancora non ha approvato.
Entriamo così nel blocco 11, che ospita quasi quattro volte i detenuti per cui era stato costruito, e dove la situazione è ormai incandescente. Così, per la svista di una guardia, un manipolo di galeotti prende possesso del braccio e, tenendo in ostaggio i secondini, chiede al direttore Reynolds di poter parlare con i giornalisti per denunciare la situazione dietro le sbarre.
Il direttore asseconda la richiesta, ma nel carcere arriva poco dopo il Governatore che vorrebbe sedare con la forza la rivolta visto che il resto del grande carcere è in subbuglio.
A salvare la situazione è lo stesso direttore Reynolds, convinto sostenitore della non violenza e della concertazione, che tenta di mediare in ogni modo fra il Governatore e i detenuti. Alla fine le richieste di quest’ultimi verranno accettate, ma il loro portavoce condannato ad ulteriori vent’anni e il Reynolds costretto alle dimissioni.
Siegel firma
magistralmente un’insolita denuncia civile a favore di coloro che “hanno
sbagliato”, ma che lo Stato deve redimere e non dimenticare.
Girato all’interno del penitenziario di Folsom a Represa in California, con veri detenuti come comparse, “Rivolta al blocco 11” è giustamente considerato fra i migliori film carcerari americani.
Ci sono molti critici (…ma d’altronde se non criticano loro?) convinti che questo del maestro Don Siegel sia uno dei suoi film minori. Certo, non parliamo di “Contratto per uccidere”, “Chi ucciderà Charley Varrick?” o “Fuga da Alcatraz”, ma non scherziamo: stiamo parlando comunque di un maestro del cinema thriller – e non solo – che nel suo genere ha davvero – ancora oggi – pochi rivali.
Il maggiore John Tarrant (un glaciale e implacabile Michael Caine) ha lasciato l’Esercito di Sua Maestà per entrare nei Servizi Segreti, nell’unità Anti Guerriglia. Se la sua carriera sembra promettere bene, il suo matrimonio ne ha risentito così tanto da naufragare, infatti la sua ex moglie vive in un’altra casa con il loro unico bambino.
Mentre Tarrant tenta di infiltrarsi in un gruppo terroristico affiliato all’Ira, suo figlio viene rapito. A casa della sua ex moglie arriva una telefonata di un tale signor Drabble (letteralmente infangare) che in cambio dell’incolumità di suo figlio chiede a Tarrant una partita di diamanti acquistati segretamente da capo della sua unità Cedric Harper (un molto ironicamente “british” Donald Pleasence) solo qualche giorno prima.
Ovviamente il Governo di Sua Maestà non può trattare coi terroristi e così il riscatto non verrà pagato. Ma il punto è anche un altro: come facevano a sapere i rapitori delle pietre preziose? Uno strano giro di contingenze porta a far cadere i sospetti proprio su Tarrant. Ma un agente del Servizio Segreto è addestrato ad affrontare ogni situazione di petto, e così…
Ottimo thriller con ottimi interpreti fra cui spiccano anche Delphine Seyrig e il sempre cattivo John Vernon.
Per la chicca: nelle sequenze iniziali appare in un piccolissimo ruolo un giovanissimo John Rhys-Davies che qualche anno dopo vestirà i panni di Sallah l’amico fidato del Prof. Henry Jones Jr, e soprattutto quelli di Gimli il Nano nella Trilogia de “Il Signore degli Anelli”.
La mano del maestro Don Siegel si sente e si vede tutta, in questo classico noir anni Quaranta. L’intrigo complicato c’è, la bella femme fatale pure, ma sopratutto c’è quell’elemento che lo distingue dalla maggior parte degli altri film contemporanei di genere: l’ironia.
Quasi ogni scena, infatti, trasuda tagliente ironia con battute tipiche da sofisticated comedy, che però sono ambientate in situazioni e location completamente dissonanti, con attori che le pronunciano maneggiando un arma fumante e sullo sfondo l’arida zona desertica messicana invece degli splendidi appartamenti sulla Quinta Strada, tipici delle commedie del tempo.
Nel porto di Veracruz arriva un bastimento con a bordo il militare fuggitivo Douglas Anderson (un “cazzutissimo” Robert Mitchum) che viene assalito dal suo capitano, Vincent Blake (William Bendix). Alla fine della colluttazione Anderson ha la meglio e ruba i documenti a Blake per poi scomparire nella città, dove incontra casualmente Joan Graham (Jane Greer). Entrambi scoprono di essere sulle tracce di Jim Fisher (Patric Knowles).
Joan perché sostiene che l’uomo ha promesso di sposarla solo per poi rubarle 2.000 dollari, Anderson perché lo accusa invece di aver sottratto alle casse dell’Esercito degli Stati Uniti 1.000.000 di dollari per poi far ricadere la colpa su di lui, che ha sul collo il fiato di Blake. Ma la verità, ovviamente, non è quella che sembra…
Scritto da Daniel Mainwaring (autore poi della sceneggiatura del cult “L’invasione degli ultracorpi“) e Gerald Drayson Adams, tratto dal racconto “The Road to Carmichael’s” di Richard Wormser, “Il tesoro di Vera Cruz” è davvero un noir d’antologia.
Per la chicca: il titolo originale è “The Big Steal” mentre quello in italiano cita Vera Cruz e un suo fantomatico – quanto estraneo alla vicenda – tesoro. Da sottolineare che nel 1949, già da qualche decennio, la città messicana si chiamava Veracruz tutto attaccato. Quei geni incompresi dei nostri distributori…
Questo è il primo lungometraggio diretto dal grande Don Siegel.
La Seconda Guerra Mondiale è appena finita e, per cercare di tornare alla normalità il più presto possibile, si adatta per il grande schermo il romanzo giallo “Il grande mistero di Bow”, scritto dall’inglese Israel Zangwill nel 1890.
Ma tutta la pellicola, anche se parla di eventi consumatisi nel secolo precedente, è impregnata di un grave e opprimente senso di colpa. Chi è giustiziato, ma anche chi giustizia, non è senza peccato e così, proprio come alla fine di una guerra devastante e sanguinaria come fu quella del 1939-1945, anche alla fine de “La morte viene da Scotland Yard” nessuno trionfa davvero.
Londra, 1890. Il Sovrintendente di Scotland Yard George Edward Grodman (Sidney Greenstreet, fra i volti più rappresentativi del grande noir americano) ha condotto una difficile inchiesta per trovare l’assassino della ricca signora Constant, uccisa barbaramente nella sua casa. I pochi indizi hanno portato a un manovale indigente, che non è riuscito a fornire un vero alibi. Poche ore dopo l’esecuzione dell’uomo nel carcere di New Gate, a Scotland Yard arrivano le prove indiscutibili della sua innocenza. Grodman viene sollevato dal suo incarico e al suo posto viene nominato John R. Buckley (Georges Coulouris), da sempre suo antagonista.
Grodman si ritira a vita privata. Proprio davanti alla sua abitazione però vive Arthur Kendall, nipote della Costant e suo unico erede. La notte in cui anche questo verrà trovato pugnalato nella sua stanza chiusa dall’interno, per Buckley inizieranno i veri problemi…
Bellissimo esempio di noir in costume e d’atmosfera. Se il romanzo di Zangwill fu fra quelli che di fatto crearono – dopo gli scritti del grande Edgar Allan Poe – il genere cosiddetto del mistero della camera chiusa, ovvero di un enigma poliziesco apparentemente irrisolvibile, il film del maestro Siegel invece punta più sui caratteri e sui sentimenti, ovviamente anche quelli più bassi e miseri, dei suoi protagonisti.
Come ogni film del maestro Don Siegel, anche questo “Chi ucciderà Charley Varrick?” è un capolavoro. Tratto dal romanzo “The Looters” di John H. Reese, è sceneggiato da Howard Rodman e Dean Riesner, autore di script di film come “La stangata”, “U-boot 96” e “Starman”, nonché collaboratore di Mario Puzo e Francis Ford Coppola per la stesura della sceneggiatura de “Il Padrino – Parte III”.
Charley Varrick (uno stratosferico Walter Matthau che qui, dopo essere diventato un’icona della commedia, con le sue gomme da masticare usate al posto delle sigarette diventa un’icona anche del poliziesco, partecipando successivamente a una manciata di pellicole noir di tutto rispetto) arriva camuffato da anziano claudicante accompagnato dalla moglie Nadine (Jacqueline Scott) davanti alla filiale della Western Fidelity Bank di Tres Crucers, una piccola cittadina non lontana da Albuquerque.
Mentre la moglie lo aspetta in auto, Charley, con l’ausilio di due complici mascherati rapina la piccola filiale. Poco prima di uscire però arriva casualmente la polizia che ingaggia una sparatoria con Nadine. Anche dentro la banca scoppia il caos e al suolo rimangono un bandito e una guardia giurata. Charley e il complice riescono a fuggire con Nadine, che ha ucciso un poliziotto ferendone gravemente un altro.
Nel posto isolato in cui i malviventi eseguono il cambio auto Nadine muore, colpita mortalmente nella sparatoria davanti alla banca. Charley ha pochi istanti per salutarla e ricordare la loro storia.
Si erano sposati poco dopo essersi conosciuti, anni prima, quando lui era un pilota acrobatico di aerei nelle fiere che giravano il Paese. Dopo aver rischiato l’osso del collo per l’ennesima volta, Charley decise di passare alla disinfestazione agricola. Ma la concorrenza spietata delle grandi compagnie costrinse lui e Nadine a sanare i bilanci della ditta di famiglia rapinando ogni tanto qualche piccola filiale di provincia. La cosa funzionava – tanto da far cambiare la ragione sociale in “Charley Varrick: l’ultimo indipendente” – e senza spargimenti di sangue, destando poi poco interesse nella Polizia visto che il malloppo era sempre al massimo di qualche migliaio di dollari.
Ma stavolta le cose sono andate storte. Un poliziotto e una guardia giurata morti, e un secondo agente in fin di vita, vogliono dire caccia spietata da parte delle forze dell’ordine.
Quando Charley e l’ultimo complice sopravvissuto Harman (Andrew Robinson) arrivano nel loro rifugio e aprono i sacchi della banca le cose si complicano ancora di più: il bottino supera i 760.000 dollari, mentre al notiziario ufficialmente la Western Fidelity Bank dichiara un ammanco di neanche 2.000 dollari.
Se Harman è euforico, Charley è molto preoccupato, visto che capisce che i soldi che ha fra le mani li ha rubati inconsapevolmente alla malavita organizzata. Harman vorrebbe iniziare a spassarsela subito, fregandosene di tutto, e allora Charley è costretto a elaborare una via di fuga molto complicata e pericolosa…
Splendido thriller d’antologia, con una sceneggiatura ad orologeria perfetta. Grande Matthau ma grandi anche tutti gli altri attori, caratteristi meno famosi ma allora molto presenti al cinema e in televisione, ottimi complici dell’atmosfera cupa e claustrofobica che il maestro Siegel riesce a costruire in ogni fotogramma del film (come John Vernon che qui interpreta il presidente della Western Fidelity Bank e qualche anno dopo verrà scelto da Ettore Scola per interpretare il marito della Loren ne “Una giornata particolare”). Cameo dello stesso Siegel per veri intenditori, così come la spettacolare scena finale. Da vedere.
Per la chicca: in una sequenza Charley seduce Sybil Fort, interpretata dall’attrice Felicia Farr. Che c’è di strano? Niente, solo che Felicia Farr dal 1962 è stata la moglie di …Jack Lemmon!
Qui, gente, parliamo di uno dei capolavori della cinematografia mondiale, uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema e che sono stati copiati – e ancora oggi lo sono – per la loro bellezza, il loro ritmo e il loro fascino.
Dallo stesso racconto “The Killers” di Ernest Hemingway, nel 1946 Robert Siodmak dirige “I gangsters” con Burt Lancaster e Ava Gardner. Bel film, ma niente a che vedere con questo capolavoro che il maestro Don Siegel gira quasi vent’anni dopo.
Siegel (che per la cronaca si è laureato a Cambridge), preso in considerazione proprio per girare “I gangsters”, sconvolge il racconto di Hemingway che trova folgorante all’inizio ma, giustamente, deludente alla fine. E così riduce i flashback e costruisce una storia intorno a un uomo che davanti ai suoi assassini non ha la minima voglia di scappare.
Charlie (uno straordinario Lee Marvin da Oscar, ma che vince “solo” il BAFTA) e il suo giovane socio Lee (Clu Gulager) fanno irruzione in un istituto per non vedenti. Il loro obiettivo è l’insegnante di meccanica Johnny North (un bravissimo e irrequieto John Cassavetes) che freddano nell’aula in cui sta insegnando, senza nessuna difficoltà. Anzi, l’uomo avvertito del loro arrivo, non fugge e aspetta la morte senza ribellarsi. La cosa insospettisce troppo Charlie che decide di scoprire la storia di North e soprattutto chi li ha pagati per ucciderlo…
Nel cast deve essere ricordata anche la bravissima e bellissima Angie Dickinson, fra le dive più eleganti e attraenti di Hollywood, nello splendido ruolo di Sheila, una Dark Lady come poche altre. Mentre nella parte dell’astuto e feroce Jack Browning c’è Ronald Reagan alla sua ultima interpretazione di rilievo prima di intraprendere, pochi mesi dopo, la carriera politica che lo portò a essere prima Governatore della California e poi Presidente degli Stati Uniti. Se questo non è l’ambito per parlare delle sue capacità di statista (delle quali ancora oggi comunque paghiamo le drammatiche conseguenze) la recitazione statica, inespressiva e obsoleta di Reagan – che già mostra quella tinta mogano scuro che poi ostenterà in tutte le foto dalla Stanza Ovale nel corso dei suoi due mandati – è davvero l’unico neo del capolavoro di Siegel.
Questo “Contratto per uccidere“ doveva essere il primo vero e proprio film realizzato interamente per la televisione, ma una volta montato venne considerato troppo “audace” e violento e così distribuito nelle sale con tanto di censura.
Ogni fotogramma merita di essere ricordato, ma la scena finale è una delle più strepitose e suggestive di tutto il cinema.
Quanto è stato copiato? Vincent e Jules, i personaggi che interpretano John Travolta e Samuel L. Jackson in “Pulp Fiction”, tanto per fare un esempio, Quentin Tarantino secondo voi da chi li ha “presi”?
Un capolavoro assoluto.
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Il 5 febbraio del 1956 usciva nelle sale americane “L’invasione degli ultracorpi” diretto dal grande Don Siegel. Girato a basso costo, il film di Siegel è oggi uno dei più grandi cult della storia del cinema – e non solo quello di fantascienza – che vanta numerosi remake.
Tratto dall’omonimo romanzo di Jack Finney – mentre la sceneggiatura è firmata da Daniel Mainwaring e, i non accreditati, Sam Peckinpah e Walter Wagner – “L’invasione degli ultracorpi” ci racconta l’incubo che vive il Dottor Miles J. Bennell (Kevin McCarthy, che rimarrà indelebilmente legato a questo ruolo, e a quello del professor Walter Jameson nell’episodio “Lunga vita a Walter Jameson”, 24esimo della prima serie storica del grandioso “Ai confini della realtà” andata in onda a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta) quando si accorge che Santa Maria, la piccola cittadina in cui vive, è invasa da una forma perfida e subdola di extraterrestri capaci di sostituirsi agli esseri umani quando questi dormono, prendendone poi le perfette sembianze.
A causa del limitatissimo budget, il film non contiene quasi effetti speciali, se non quelli per far ingrandire o spostare i famigerati baccelloni. Cosa che ancora oggi ci sottolinea la grande arte di Siegel che riesce comunque a spaventarci attraverso colpi di scena e atmosfere cupe e claustrofobiche.
Ma chi sono gli extraterrestri che nel sonno prendono il posto dei nostri cari, agendo poi con una freddezza glaciale e senza sentimenti? Per rispondere non possiamo dimenticare gli anni in cui il film arrivò in sala, anni di piena Guerra Fredda in cui “il terrore rosso” echeggiava negli Stati Uniti come una minaccia inesorabile.
Anche se Siegel ha sempre negato questo esplicito riferimento, la paura del Comunismo invadeva negli anni Cinquanta ogni campo della cultura e della vita quotidiana degli USA, e la freddezza degli alieni che non hanno sentimenti e li porta ad agire come automi, smentisce il regista.
Per la chicca: nel primo remake ufficiale della pellicola – “Totò nella Luna” diretto da Steno nel 1958 con i suoi “cosoni” è solo una (riuscita) parodia – che Philip Kaufman dirige nel 1978 e che si intitola “Terrore dallo spazio profondo”, il grande Don Siegel appare in un piccolo cameo come tassista “collaborazionista” degli alieni.
Questo film mi è così rimasto impresso che ricordo ancora oggi molto bene il cinema in cui lo vidi nell’allora prima visione.
E’ tratto dal libro di J. Campbell Bruce che ricostruisce la vera fuga del detenuto Frank Lee Morris avvenuta nel 1962, primo evaso nella storia dell’allora fortezza inviolata che era la prigione di Alcatraz, nella baia di San Francisco.
La pellicola non ci dice se effettivamente Morris e i suoi due complici morirono affogati – come era capitato in precedenza – nel braccio di mare gelido che separa l’isola dalla costa, o la raggiunsero e si dileguarono liberi per sempre.
Sta di fatto che l’ingente spiegamento di forze che allora perlustrò la zona non trovò nessun corpo – primo caso nella storia – cosa che scatenò la fantasia e l’immaginario di molti.
A distanza di tanti anni, rivedere la pellicola diretta dal maestro Don Siegel, e interpretata da un glaciale Clint Eastwood, fa ancora effetto, nonostante tutto quello che è stato realizzato dopo sullo stesso argomento.
Per me poi, che sono un fan di Stephen King, i riferimenti e le citazioni a questo film nel suo racconto “Rita Heyworth e la redenzione di Shawshank” e nella successiva pellicola “Le ali della libertà” di Frank Darabont, mi mandano in sollucchero.