“Stanlio & Ollio” di Jon S. Baird

(UK/Canada/USA, 2019)

L’attore e comico A.J. Marriot pubblica nel 1993 il libro “Laurel & Hardy. The British Tours” dedicato alla prima grande coppia comica della storia del cinema. Nel corso degli anni poi Marriot pubblicherà altri volumi dedicati ai grandi artisti come Charlie Chaplin e agli stessi Laurel e Hardy. Ma il suo primo libro parla della fine della carriera artistica del duo avvenuta durante un tour teatrale in Gran Bretagna, nella prima metà degli anni Cinquanta. E dal libro Jeff Pope – fra gli autori dello script dello splendido “Philomena“, sempre con Steve Coogan – scrive la sceneggiatura di questo ottimo adattamento.

Hollywood 1937: le star indiscusse del botteghino sono “Stanlio & Ollio” che con i loro film fanno ridere mezzo mondo. Nel 1932 con l’irresistibile mediometraggio “La scala musicale” Stan Laurel (Steve Coogan) e Oliver Hardy (un bravissimo quanto irriconoscibile John C. Reilly) hanno vinto l’Oscar, e da allora ogni pellicola che arriva nelle sale è un successo clamoroso, anche al di là dell’oceano.

Ma Laurel è in grande conflitto con Hal Roach (Danny Huston), il produttore che per primo li ha messi a recitare insieme. Gli enormi guadagni che provengono dalle loro pellicole, infatti, vanno a finire quasi tutti nelle tasche del produttore – al quale lo stesso Laurel rinfaccia l’amicizia commerciale con Mussolini che il quel momento sta usando armi chimiche nella guerra d’invasione dell’Etiopia – mentre ai due arriva solo un compenso fisso. Per l’artista inglese – al quale Roach rinfaccia la vita sempre al limite fra alcol e donne che spesso lo costringe a intervenire economicamente per sedare uno scandalo – è giunto il momento di cambiare.

Laurel, oltre che interprete, è anche lo sceneggiatore regista e montatore non accreditato di tutte le pellicole del duo, ed esige un riconoscimento economico ma anche artistico adeguato. Così è pronto a firmare un nuovo e generoso contratto con la Fox, a patto però che firmi anche Hardy, naturalmente. Ma l’attore americano, posseduto dal demone del gioco d’azzardo e anche lui amante delle donne e quindi sempre alla ricerca di soldi, possiede un carattere più arrendevole e al momento della scelta azzardata preferisce il sicuro rimanendo con Roach e girando “Zenobia – Ollio sposo mattacchione” e “tradendo” Laurel recitando accanto a Harry Langdon.

16 anni dopo, nel 1953, la stella di “Stanlio & Ollio” a Hollywood è ormai tramontata. I produttori preferisco la nuova coppia Abbott & Costello (da noi tradotti “Gianni & Pinotto”) e così ai due grandi artisti non rimane che accettare una turné teatrale in Gran Bretagna prima di partecipare a un nuovo e comico adattamento cinematografico della storia di Robin Hood, prodotto da Harold J. Miffin. Nonostante i problemi fisici – Laurel per l’alcolismo è gravemente diabetico mentre Hardy per la sua obesità e la sua dieta incontrollata ha seri problemi cardiaci e di ipertensione – e l’età ormai avanzata i due affrontano con la loro grande arte sempre al massimo il palcoscenico.

I primi spettacoli però non riscuotono successo e così i due sono costretti a farsi pubblicità partecipando a trasmissioni radiofoniche, inaugurando attività commerciali o facendo gli special guest a piccoli eventi locali. Mentre lentamente il pubblico riempie per loro i teatri di tutto il Regno Unito, Laurel scopre che Miffin non ha alcuna intenzione di produrre il film. Intanto vengono raggiunti a Londra dalle rispettive consorti: Lucille Hardy (Shirley Henderson, già Mirtilla Malcontenta nella saga cinematografica di Harry Potter) e Ida Kitaeva Laurel (Nina Arianda). I rapporti fra le due consorti non sono sereni così come non lo sono quelli fra Laurel e Hardy che da anni sopiscono l’uno un rancore per l’altro.

Ma gli ultimi spettacoli interpretati dai due – alla fine della turné Hardy sarà costretto definitivamente ad abbandonare la scene per le gravi patologie che lo affiggono – saranno anche l’occasione per restaurare un rapporto che, come tutti i veri rapporti profondi, è fatto di alti e bassi, di risate e urla ma soprattutto di amore e rispetto soprattutto dell’uno per l’immensa arte e dedizione dell’altro.

Bella e crepuscolare pellicola dedicata a due dei più grandi pilastri della comicità planetaria che pubblico e – soprattutto… – produttori dimenticarono con troppa fretta, ma che le generazioni successive – come la mia – amano incondizionatamente. Non è un caso quindi se Blake Edwards, maestro indiscusso della commedia americana degli anni Sessanta e Settanta, dedichi proprio a “Mr Laurel e Mr Hardy” il suo spassoso “La grande corsa” uscito nelle sale americane proprio l’anno della scomparsa di Laurel, Hardy era morto nel 1957.

Come molti altri grandi comici, Laurel & Hardy hanno avuto una vita colma di successi sì, ma anche di tristezza e solitudine, soprattutto nella seconda parte della loro carriera. Due geni come loro si sono visti sbattere in faccia tante porte dopo che molti li consideravano obsoleti, nonostante sul grande schermo o in televisione imperversassero attori che erano molto spesso solo una loro pallida e mediocre imitazione.

Non si può non fare un triste paragone con Totò, al secolo Antonio De Curtis, snobbato dal nostro cinema più chic e intellettuale – ad eccezione non a caso del genio assoluto di Pier Paolo Pasolini – e per questo costretto a partecipare anche a pellicole davvero scadenti, deriso e schifato dalla critica a lui contemporanea, ma la cui arte immortale continua a divertire le nuove generazioni.

Da vedere.

“Philomena” di Stephen Frears

(UK/USA/Francia, 2013)

Stephen Frears (già regista di pellicole come “Lady Henderson presenta”, “The Queen – La regina”, “Le relazioni pericolose”, “Rischiose abitudini” e “My Beautiful Laundrette” che nel 1985 lanciò Daniel Day Lewis) dirige questo splendido film in cui ripercorre la vera storia di Philomena Lee che, dopo 50 anni, finalmente riesce a ritrovare suo figlio.

Giovane e ingenua adolescente, alla fine degli anni Cinquanta nell’allora bigotta e cattolicissima Irlanda – del tutto simile all’allora nostra Italia – Philomena rimane incinta e viene cacciata di casa dal padre.

Come ragazza madre perde ogni dignità o diritto e non può fare altro che rinchiudersi in un convento per far nascere il figlio. Il piccolo, che può vedere al massimo un’ora al giorno, all’età di tre anni viene dato in adozione, senza che lei possa fare nulla per impedirlo.

Nonostante qualche anno dopo si sposi e si ricostruisca una nuova famiglia, nei cinquant’anni successivi per Philomena non passa giorno che non pensi al suo primo figlio o che non cerchi di ritrovarlo, ma senza successo: nel convento i documenti relativi all’adozione sono andati perduti.

Le cose prendono una piega inaspettata quando sua figlia la mette in contatto con un giornalista che decide di aiutarla…

L’epilogo struggente della storia non lo racconto – epilogo che la dice lunga sullo spirito cristiano e su chi lo possiede veramente – perché questo film va visto e basta. Soprattutto pensando che ciò che racconta è accaduto realmente.

Grandissima Judi Dench (già Oscar nel 1999 per “Shakespeare in love”), incredibile pensare che sia la stessa attrice che solo l’anno scorso impersonava “M” in 007. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Steve Coogan assieme a Jeff Pope e Martin Sixsmith, giornalista e autore del libro “The Lost Child of Philomena Lee” pubblicato per la prima volta nel 2009, e impersonato dallo stesso Coogan nella pellicola.