“Doppio delitto” di Steno

(Italia, 1977)

Tratto dal romanzo “Doppia morte al Governo Vecchio” di Ugo Moretti questo film, la cui sceneggiatura è scritta da Age, Furio Scarpelli e lo stesso Steno, è uno dei migliori esempi della commedia gialla all’italiana.

Siamo alla vigilia di uno degli eventi più drammatici della storia della Repubblica Italiana: il rapimento e l’uccisione del Presidente della DC Aldo Moro e il massacro delle sue guardie del corpo in via Cesare Fani a Roma. Nonostante l’evento sia ovviamente imprevedibile, nel film si respira un’aria di quiete prima della tempesta. La contestazione sta mutando forma e quella rivoluzione che doveva cambiare il mondo non arriva mai. I poliziotti, anche al cinema, cominciano ad avere un volto e un comportamento molto più umano e fallibile rispetto a solo poco tempo prima.

Infatti, il commissario Bruno Baldassare (un sempre bravo e fascinoso Marcello Mastroianni) è noto fra gli ambienti della Polizia romana per aver fatto sette anni prima la cosiddetta “stronzata”, che gli ha bruciato di fatto la carriera. Per fare il bello davanti al figlio di sei anni Baldassarre, erroneamente, ha aiutato un assassino a fuggire su una motocicletta rubata.

Da quel giorno è stato trasferito all’Archivio dei Corpi di Reato, che si trova in uno dei quartieri storici della capitale, ufficio alquanto “tranquillo” dove è assistito dall’agente Cantalamessa (un bravissimo Gianfranco Barra).

La triste routine di Baldassarre viene interrotta un giorno, durante un fragoroso temporale estivo, quando mangiando nella solita trattoria sente gridare dal portone del vicino Palazzo dell’Orso. Accorrendo, sulle scale dell’antico edifico, trova il corpo senza vita dell’anziano principe Prospero dell’Orso, apparentemente vittima di un fulmine caduto sul tetto e passato poi nell’antico corrimano delle scale in ferro battuto al quale era aggrappato il nobile.

Mentre Baldassarre cerca di chiamare i soccorsi le urla della giovane Teresa (Agostina Belli) lo raggiungo. Al piano superiore la ragazza ha appena trovato il corpo senza vita dello zio Romolo, un elettrotecnico che stava montando un’antenna sul tetto del palazzo e che rientrando per la pioggia si è evidentemente appoggiato anche lui al corrimano nel momento fatale.

Ma qualcosa non torna, il fulmine ha avuto una precisione a dir poco chirurgica e oltre alle due morti, non ha causato nessun danno materiale al palazzo. Baldassarre, spinto da Teresa, riesce a far aprire un’inchiesta e, soprattutto, a farsela assegnare. Gli inquilini dello stabile sono uno più sospetto dell’altro, come la giovane e bellissima principessa dell’Orso (Ursula Andress) e i pochi parenti del principe che erediteranno una vera e propria fortuna, o Henry Hellman (un sublime Peter Ustinov) sceneggiatore hollywoodiano in declino e amico intimo della principessa…  

Tutti i personaggi del film cominciano a fare i conti con la fine di un periodo che aveva promesso tanto e che ormai, si capisce, non manterrà nulla. Conoscendo l’arte e il genio degli autori non ci si stupisce che siano inseriti nella pellicola anche degli accenni – apparentemente involontari – a eventi drammatici che segneranno il nostro Paese di lì a poco tempo. L’azione si svolge fra i vicoli del centro storico di Roma tanto simili a via Caetani, dove verrà ritrovato il corpo di Moro.

E poi il personaggio interpretato da Ustinov sta scrivendo la sceneggiatura del film “La croce e la svastica” dedicato agli oscuri rapporti fra il Vaticano e il Terzo Reich, film che viene bloccato proprio dalla Santa Sede attraverso pressioni a vari istituti di credito. Poco dopo l’uscita del film scoppiò il caso del Banco Ambrosiano e dei suoi presunti legami con lo IOR…    

Da ricordare inoltre le interpretazioni, anche se in ruoli secondari, di Mario Scaccia nelle vesti del libraio vera “radioserva” del quartiere, e Giuseppe Anatrelli (già immortale per aver impersonato il Geom. Calboni nei primi “Fantozzi”) in quelli del capo di Baldassarre.

“Totò e le donne” di Steno e Mario Monicelli

(Italia, 1952)

Scritto da Steno, Mario Monicelli, Age e Furio Scarpelli (ma diretto solo da Steno, anche se nei titoli di testa appare accanto il nome di Monicelli) questo film segna uno dei punti di svolta del nostro cinema: arriva la grande commedia all’italiana.

Se è vero che sono presenti alcuni elementi ben riconoscibili del Neorealismo, è vero anche che questa pellicola punta dritta sulla commedia pura, abbandonando definitivamente i tratti della semplice parodia o della farsa tipica di quegli anni. Gli sceneggiatori e il regista sono quelli che diventeranno fra i protagonisti della grande commedia, così come il suo attore principale che dà prova delle sue stratosferiche capacità recitative.

L’Italia si sta rialzando dopo l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, e se ancora non è arrivato il Boom, sta tornando la voglia di ridere, soprattutto di se stessi. E’ l’Italia delle piccole e “normali” famiglie, quelle che poi fanno la storia del Paese. E’ l’Italia delle maggiorate e delle Miss. Ed è l’Italia del Cav. Filippo Scaparro (altro che principe, l’Imperatore delle risate all’italiana Antonio De Curtis in arte Totò) che è vittima della moglie (una straordinaria come sempre Ave Ninchi) e della figlia (la maggiorata Giovanna Pala) intenta a fidanzarsi col promettente medico Paolo Desideri (un sempre eccezionale Peppino De Filippo).

Ed è l’Italia delle donne, che solo qualche anno prima hanno ottenuto il diritto al voto, e proprio sul rapporto fra i due sessi gira il motore del film. Ma la visione delle donne non è falsamente perbenista e soprattutto maschilista come nella stragrande maggioranza dei film contemporanei (in una sequenza, non a caso, sono prese in giro le pellicole “strappalacrime” e al tempo stesso “morbose” il cui protagonista principale era quasi sempre Amedeo Nazzari).

Infatti, la visione intollerante e misogina del Cav. Scaparro – che in soffitta ha un altarino con tanto di cero dedicato a Landru – alla fine naufraga contro il profondo amore che nutre per la moglie e dalla quale è ricambiato. La lite fra i due, che provoca una temporanea separazione, anche se con toni da commedia, è fra le prime del cinema italiano in cui si da voce alle donne, alle loro insoddisfazioni e alle loro difficoltà quotidiane (Ava Gardner vs Gregorio Pecco…).

Anche la scena in cui Scaparro, senza moglie e figlia che sono in vacanza, tenta di passare una serata con una donnina allegra (così come si chiamavo in maniera ipocrita allora le prostitute) il Cav. incontra Ginetta (Lea Padovani) che lo rende, suo malgrado, partecipe di tutti i suoi guai.

Insomma, in questa memorabile pellicola le donne sono reali, possiedono un’anima e una parola, e non sono più banalmente innocenti, colpevoli, caste o peccatrici. Sono donne.

“Vacanze romane” di William Wyler

(USA, 1953)

Il 27 agosto del 1953, a New York, si consumava la prima mondiale del film cha avrebbe consacrato definitivamente a star del cinema quella splendida diva, dagli occhi di cerbiatto, che era Audrey Hepburn.

Il personaggio della principessa Anna, ispirato all’allora giovane regina Elisabetta II d’Inghilterra – anche se all’inizio, riportano alcune cronache del tempo, è più simile alla sorella “viziata” e “capricciosa” Margaret – è uno dei più romantici e riusciti del grande schermo.

Sullo sfondo una Roma solare e spensierata che aderisce perfettamente alla visione che gli americani avevano – o volevano avere – di un Paese che, solo pochi anni prima avevano combattuto, invaso e poi liberato, e che nel 1953 soffriva ancora la fame (“Guardie e ladri” di Steno e Monicelli è solo di due anni prima) e che stentava a rialzarsi.

Fra le citazioni e i numerosi remake, spicca il blockbuster “Notthing Hill” (1999) con la bella Julia Roberts che, invece di una regina impersona una diva di Hollywood, dal nome – guarda caso… – Anna Scott.

La sceneggiatura di questo film – premiata agli Oscar – venne scritta, sotto falso nome, anche da Dalton Trumbo che in quel periodo era all’indice per le sue dichiarate simpatie comuniste.