“Tre fratelli” di Francesco Rosi

(Italia/Francia, 1980)

Liberamente ispirato al racconto “Il terzo figlio” di Andrej Platonovič Platonov e scritto dallo stesso Rosi assieme a Tonino Guerra, “Tre fratelli” ci racconta in maniera davvero splendida e dolorosa l’Italia nel duro passaggio fra gli anni Settanta e Ottanta.

Nella profonda e meravigliosa campagna pugliese l’anziano Donato Giuranna (Charles Vanel) lascia la sua masseria per raggiungere il paese più vicino dove, dall’ufficio postale, manda tre telegrammi ai suoi tre figli per avvisarli che la loro madre è appena morta.

Il primo arriva a Napoli dove, in un carcere minorile, come maestro lavora Rocco Giuranna (Vittorio Mezzogiorno). Il secondo viene recapitato a Roma, nella quale vive e svolge la sua attività di magistrato Raffaele Giuranna (un bravissimo Philippe Noiret doppiato in maniera sublime da Paolo Bonacelli). Il terzo raggiunge Torino dove Nicola Giuranna (Michele Placido) è un attivista sindacale nonché operaio in una grande fabbrica di automobili.

I tre, ricevuta la notizia, partono subito per la loro casa d’origine lasciando, chi i propri ragazzi come Rocco, chi moglie (Andréa Ferréol) e figlio adolescente come Raffaele, e chi un matrimonio naufragato come Nicola, che ha rotto con la moglie (Maddalena Crippa) e porta con sé la piccola figlia Marta.

Il triste ritorno nella grande masseria, dove sono nati e cresciuti, diventa l’occasione per un nuovo e profondo confronto fra i tre fratelli che hanno preso strade molto diverse. Se Rocco ha dedicato la sua vita agli altri, Raffaele e Nicola rappresentano invece i due lati che si scontrano più violentemente in quegli anni nella nostra società. Se il primo è un giudice che, sapendo di poter essere ammazzato in qualsiasi momento, accetta di presiedere un processo contro alcuni terroristi, il secondo da operaio e attivista, ne appoggia non i mezzi ma certo gli ideali.

Sullo sfondo la piccola Marta osserva sia la vita contadina, che per lei nata e cresciuta in città è un “gioco” da fare nella vecchia casa paterna, sia l’inconsolabile dolore del nonno Donato a cui rimangono solo gli umili ma al tempo stesso splendidi ricordi del suo lungo matrimonio.

L’incontro-scontro fra i tre fratelli rappresenta in maniera efficace e tagliente tutta la nostra società che proprio in quegli anni stava cambiando pelle, anche con drammatiche conseguenze, abbandonando definitivamente la sua anima contadina per quella industriale e cittadina.

Se alla fine Nicola è quello che si preoccupa meno delle nuove generazioni, Raffaele invece, nonostante le armi dei terroristi ancora falcino i suoi colleghi, si preoccupa per l’avvenire proprio delle giovani generazioni, come profetizzando che la fine delle ideologie porterà inesorabilmente a una generazione “televisiva”. 

Rocco, che ha rinunciato ad avere una propria famiglia per dedicarsi totalmente ai ragazzi più sbandati, compie un sogno che ancora oggi commuove dove i ragazzi del riformatorio dove lavora ripuliscono la loro città spazzando prima e bruciando poi tutte le armi e le siringhe che la insozzano, il tutto sulle note della splendida “Je’ so pazzo” di Pino Daniele.       

Questa bellissima pellicola vince 5 David di Donatello, tra cui miglior regista e la miglior sceneggiatura (ad oggi lo stesso Rosi è il cineasta che ha vinto più David nella categoria miglior regista con ben 5 statuette) e riceve la candidatura come miglior film straniero agli Oscar del 1982.

Per la chicca: nei panni di un giovane terrorista che tormenta in un incubo Raffaele c’è un giovane e allora sconosciuto Sergio Castellitto.

“Il cattivo poeta” di Gianluca Jodice

(Italia/Francia, 2021)

Personalmente non ho mai avuto una grande empatia con Gabriele D’Annunzio, non tanto per le sue opere, alcune delle quali indiscutibilmente immortali, ma per il suo modo d’essere e per il fatto – per me imperdonabile – di aver querelato Eduardo Scarpetta per una sua parodia de “La figlia di Iorio”, scandalo e causa legale che alla fine fecero smettere allo stesso Scarpetta di scrivere per il teatro.

Ma se all’inizio D’Annunzio fu un esempio per Benito Mussolini, già a metà degli anni Trenta era diventato un vero e proprio problema. Perché il poeta, che aveva guardato con passione ed entusiasmo Mussolini Presidente del Consiglio, col passare degli anni e con la gestione mediocre e miope del potere (per non parlare dell’uso vile e feroce della violenza) diventa il primo e inesorabile critico del Duce. E la sua voce di Vate è davvero difficile da contenere o zittire.

Siamo nel 1936 e ormai da molti anni D’Annunzio (uno straordinario Sergio Castellitto) è rinchiuso nel suo Vittoriale sul Lago di Garda. Mussolini lo paragona a un dente marcio: “…O lo si ricopre d’oro …o lo si estirpa” dice ai suoi fedelissimi.

Il baratro della Seconda Guerra Mondiale si sta materializzando all’orizzonte e Hitler stringe per portare definitivamente Mussolini nella sua sfera di potere, nonostante confidi ai suoi collaboratori, riferendosi a noi italiani: “…Questa feccia ci tradirà”.

D’Annunzio, nonostante l’isolamento, la cocaina e le donne che a fiumi arrivano nel suo Vittoriale, ha intuito cosa vuole dire un’alleanza con Berlino, per Mussolini e soprattutto per gli italiani.

Così il Ministro Achille Starace invia il giovane e promettente Federale di Brescia Giovanni Comini (Francesco Patané) a sorvegliare e contenere il Vate, per impedirgli di esternare i suoi dubbi sull’Asse di Ferro senza al tempo stesso: “…farlo incazzare”.

L’incontro e la frequentazione con D’Annunzio apriranno gli occhi all’ingenuo Comini su Mussolini e sul Fascismo, soprattutto sui suoi metodi – fin troppo spesso violenti e sanguinari – che subdolamente si infilano nei rapporti personali sia coi propri familiari che con le persone che si frequentano.

Il giovane Federale Comini ricorda in questo quel Primo Arcovazzi, magistralmente interpretato da Ugo Tognazzi ne “Il Federale” di Luciano Salce, che suo malgrado si ritrova complice e al tempo stesso disilluso da un sistema fatto per lo più di gretta prepotenza e vile arroganza. Prepotenza e arroganza che molti vogliono far passare tragicamente per grandezza.

Nonostante le aggressive divise nere, con stemmi e teschi che richiamano quelle delle SS, gli alti gerarchi fascisti, a partire da Mussolini, temono più di ogni altra cosa un uomo dal pensiero libero che può far cadere il velo che nasconde un potere ormai corrotto e burattino nelle mani di un folle sanguinario.

Se D’Annunzio non riuscirà a farlo, e sulla sua morte cade l’ombra addirittura di Hitler che pochi giorni dopo annetterà alla Germania l’Austria, sarà la Seconda Guerra Mondiale a squarciare il velo e mostrare la cruda e amarissima verità.

Se qualcuno ancora dice che però i treni allora arrivavano in orario, magari può vedersi questo bel film…