“Gli innocenti dalle mani sporche” di Claude Chabrol

(Francia/Italia/Germania Ovest, 1975)

Claude Chabrol (1930/2010) è considerato uno dei maestri del giallo cinematografico, e fra gli eredi principali di quell’Henri-Georges Clouzot (1907/1977), primo grande regista di suspense del cinema d’oltralpe.

A Saint Tropez i coniugi Wormser vivono appartati nella loro lussuosa villa acquistata da Louis (Rod Steiger) manager di successo che, dopo aver avuto un infarto, ha venduto la sua ricca azienda per godersi l’agiatezza assieme a Julie (una bellissima e davvero sensuale come poche Romy Schneider).

Ma Louis, proprio dopo l’infarto, non è più quello di prima e col passare del tempo è diventato alcolista. Così, quando casualmente Julie incontra il giovane e avvenente scrittore squattrinato Jeff Marle, accetta facilmente la sua corte.

La relazione fra i due diventa sempre più profonda e Louis sempre più “inutile”. E così i due amanti decidono di eliminarlo per poi godersi i suoi soldi. Ma quando, la mattina dopo la notte in cui suo marito sarebbe dovuto perire per mano di Jeff in quello che avrebbe dovuto sembrare un banale incidente in barca, entrambi scompaiono: tutti i sospetti e le accuse cadono su Julie…

Scritto dallo stesso Chabrol – e tratto dal romanzo di Richard Neely – “Gli innocenti dalle mani sporche” è un giallo-noir d’annata, che esplora – nella grande tradizione del suo regista – i lati oscuri dell’animo umano.

Sequenza iniziale mozzafiato con la Schneider che senza veli prende il sole nel giardino della sua villa mentre un aquilone – a forma di uccello rosso fuoco …e non dico altro – le fa ombra per poi posarsi delicatamente sul suo splendido sedere.

Godibilissima parte secondaria per Jean Rochefort nei panni del rampante avvocato che difende Julie, e che alla fine del film le ricorda come “la Giustizia è una cosa fatta dagli uomini e per gli uomini!” e non per le donne…

“Mars Attacks!” di Tim Burton

(USA, 1996)

Nello stesso anno in cui in tutti i cinema – o quasi – del mondo sbanca “Indipendence Day” di Emmerich, Tim Burton realizza il suo film più visionario dedicato ai famigerati Marziani (con la M maiuscola!).

La dinamica dell’attacco della Terra da parte dei perfidi abitanti di Marte non è così importante, quello che affascina è l’impatto visivo e la sconfinata ironia che caratterizzano ogni scena, se non ogni fotogramma.

Così se oggi “Indipendence Day” appare obsoleto e superato da numerosi suoi successori, “Mars Attacks!” no, è lucido e graffiante come vent’anni fa.

Con un cast stellare fra cui spiccano Jack Nicholson (in un doppio ruolo), Rod Steiger, Pierce Brosnan, Denny DeVito, Annette Bening, Natalie Portman, Sarah Jessica Parker, Jack Black, Luka Haas e Silvia Sidney, Burton da strepitosamente vita a tutti gli incubi e le paranoie americane anni Cinquanta e Sessanta.

Intramontabile come “La Guerra dei Mondi” di Orson Welles.

“Giù la testa” di Sergio Leone

(Italia/Spagna/USA, 1971)

“LA RIVOLUZIONE

NON E’ UN PRANZO DI GALA

NON E’ UNA FESTA LETTERARIA,

NON E’ UN DISEGNO O UN RICAMO,

NON SI PUO’ FARE CON TANTA ELEGANZA,

CON TANTA SERENITA’ E DELICATEZZA,

CON TANTA GRAZIA E CORTESIA.

LA RIVOLUZIONE E’ UN ATTO DI VIOLENZA. (MAO TZE TUNG)”

Così inizia uno dei capolavori indiscussi del cinema mondiale, che più passa il tempo e più diventa bello e affascinante: “Giù la testa” del maestro Sergio Leone.

Messico 1913. Nonostante il Paese sia nel pieno della rivoluzione che vede fra i suoi protagonisti Pancho Villa ed Emiliano Zapata, il peone Juan Miranda (un grande Rod Steiger) pensa solo a sfamare se stesso, i suoi numerosi figli e suo padre. E ci riesce facendo l’unica cosa che il mondo gli consente di fare: rapinare e rubare. Il suo sogno è, infatti, la famosa Banca di Mesa Verde dove sono rinchiuse, secondo lui, montagne d’oro che però sembrano davvero inaccessibili.

Ma sulla sua strada incappa in John H. “Sean” Mallory (James Coburn) che scopre essere un esule irlandese, legato all’IRA, ed esperto di dinamite e nitroglicerina. E così Mesa Verde e la sua banca non sembrano più un miraggio così lontano per Juan. Sfruttando la sua fame atavica, Mallory tirerà nella causa rivoluzionaria il peone suo malgrado che…

Scritto da Sergio Donati, Luciano Vincenzoni e lo stesso Leone “Giù la testa “ emoziona ancora in ogni suo fotogramma, e ci ricorda che cosa è stata la nostra cinematografia. Come tutte le sue opere, anche questa ci rendere orgogliosi di essere italiani e connazionali di Leone, genio assoluto, che ha rivoluzionato il cinema contemporaneo. Se poi ci vogliamo chiedere dove è finito o chi sono gli eredi di quel genio, beh gente, è un altro paio di maniche…

Ovviamente non si può tralasciare la strepitosa colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone che richiama al nome irlandese di uno dei due protagonisti.

E pensare che buona parte della critica “ufficiale” di allora lo criticò aspramente, perché osava criticare il ruolo dell’intellettuale nella rivoluzione, attraverso la figura ambigua del Dott. Villega, interpretato magistralmente da Romolo Valli. Ma gli edonistici anni Ottanta e Novanta hanno – fortunatamente – scolorito le penne degli “esperti di partito” per rivelarci la triste verità e quanto Leone aveva preannunciato decenni prima.

Per la chicca: Leone avrebbe voluto intitolare il film: “Giù la testa coglione” ma la censura lo impedì, cosa che raccontata oggi mette davvero in imbarazzo. Infine, deve essere ricordato anche Carlo Romano, grande doppiatore italiano, che presta in maniera sublime la voce a Rod Steiger.  

Pura storia del cinema.

“L’uomo del banco dei pegni” di Sidney Lumet

(USA, 1964)

Sol Nazerman (un indimenticabile Rod Steiger) gestisce un banco dei pegni in uno dei quartieri più popolari di New York: Harlem.

Per la sua indole fredda e distaccata riesce ad approfittarsi al meglio dei disperati che entrano nel suo negozio. Sol, infatti, non prova più niente. Da quando, unico della sua famiglia, è tornato dai campi di sterminio nazisti, le sue emozioni sono letteralmente sparite.

Solo Jesus, il giovane commesso portoricano che lo aiuta nella sua attività, sembra riuscire ad avvicinarlo. E quando questo, per proteggerlo, cade sotto i colpi di un rapinatore, Sol decide di tornare a “sentire”…

Tratto dal romanzo di Edward Lewis Wallant e con le musiche di Quincy Jones, “L’uomo del banco dei pegni” è uno delle opere più emozionanti che il cinema ha dedicato all’Olocausto.

L’uscita della pellicola negli Stati Uniti suscitò numerose polemiche soprattutto per le scene di nudo di donna – allora inconcepibili in un film “drammatico” per il grande pubblico – e per gli stereotipi con cui, secondo alcuni, vennero ritratti gli afroamericani e i latinoamericani come i “soliti” criminali, e gli ebrei come i “soliti” strozzini.

Se la sceneggiatura del film forse possiede alcune lacune, è giusto ricordare la splendida interpretazione di Steiger e la riuscita di alcune scene indimenticabili come quella del flashback di Sol che viene quotidianamente straziato dal ricordo della morte del piccolo figlio che, sul vagone piombato che li stava portando in un campo di sterminio dopo infiniti giorni in piedi senza acqua né cibo e stretto agli altri deportati, non lo riesce più a tenere sulle spalle e lo lascia inesorabilmente cadere sul pavimento dove verrà inghiottito dal buio per sempre.

Così come quella in cui sempre Sol, davanti al cadavere di Jesus, disperato dal non provare più emozioni sbatte la mano volontariamente sul chiodo ferma bollette che ha sul bancone per tornare, almeno per qualche istante, un vero essere umano.

Una pellicola dura e tragicamente indimenticabile che è giusto riguardare di tanto in tanto, sia per ricordare tutti quelli che dai campi di sterminio non sono tornati, sia per mantenere bene in mente cosa accadde, chi lo fece, chi si oppose e chi, purtroppo, voltò lo sguardo da un’altra parte perché, come disse la maestra alla piccola Liliana Segre: “…le leggi razziali non le ho fatte io!”.