“Odio implacabile” di Edward Dmytryk

(USA, 1947)

Il 15 agosto del 1947 esce nelle sale statunitensi “Crossfire”, che da noi verrà distribuito a partire dal 14 febbraio del 1948 col titolo “Odio implacabile”. La sceneggiatura è firmata da John Paxton ed è tratta dal romanzo di Richard Brooks “The Brick Foxhole” pubblicato la prima volta nel 1945.

Brooks (1912-1992) è ancora oggi considerato uno dei più rilevanti sceneggiatori di Hollywood, autore di script di film come “L’ultima minaccia“, “La gatta sul tetto che scotta”, “Il figlio di Giuda” o “A sangue freddo” (questi ultimi due li dirige anche), pubblica con “The Brick Foxhole” un romanzo dedicato all’odio fanatico contro il diverso, rappresentato da un omosessuale. Paxton e la produzione però, per ragioni non solo di censura, cambiano la vittima in un uomo di religione ebraica.

Gli Stati Uniti sono il Paese che più di tutti, fra gli Alleati, sta ottenendo economicamente e strategicamente i migliori risultati per la vittoria conseguita nel Secondo conflitto planetario. Ma gli uomini che poco prima erano al fronte, ora si trovano spaesati e incapaci di reintegrarsi nella società civile che, grazie anche al loro sacrificio, è molto cambiata.

Così molti di loro sono preda di ansie, depressioni e profonde paure, tutte amplificate e fomentate dall’improvvisa scomparsa di un grande nemico. Se i Paesi dell’Asse di Ferro sono stati ormai sconfitti, adesso dove si nasconde il nuovo e implacabile avversario?

Come accade spesso, purtroppo, in tempi di crisi ci sono alcuni che cavalcano le paure degli altri pur di ottenere consenso o sedare le proprie. Come il soldato Montgomery (interpretato ottimamente da Robert Ryan) che ha trovato il suo nuovo nemico in Samules (Sam Levene) uno sconosciuto incontrato in un bar, e che ha l’unica colpa di essere ebreo, e che per questo pesta a morte.

In una serie di flashback concatenati seguiamo l’inchiesta del commissario Finlay (Robert Young) che grazie all’aiuto del sergente Kelley (un granitico Robert Mitchum) riesce ad inchiodare Montgomery. Finlay, per convincere un commilitone dell’omicida a collaborare, gli racconta di come suo nonno, qualche decennio prima, è stato massacrato in quello stesso modo solo perché di religione cattolica in una Paese, come gli Stati Uniti, a maggioranza protestante.

Purtroppo Richard Brooks, da vero intellettuale, aveva il “pessimo” vizio di anticipare tristemente i tempi. E così, pochi mesi dopo l’uscita nelle sale di questa ottima pellicola, proprio a Washington – città dove si svolge il film – inizierà quella triste e infame “caccia alle streghe” contro i famigerati fautori delle cosiddette attività “anti-americane” guidata dal senatore Joseph McCarthy.

Il film viene candidato a cinque Oscar: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e migliori attrice e attore non protagonista a Gloria Grahame e a Robert Ryan. Al Festival di Cannes viene premiato come miglior pellicola d’interesse sociale.

Da vedere e da far vedere a scuola.

“Il ragazzo dai capelli verdi” di Joseph Losey

(USA, 1948)

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi forse – e purtroppo… – non c’è stato un momento più adatto per rivedere questa struggente e al tempo stesso ottimista pellicola firmata dal maestro Joseph Losey.

La guerra è finita da poco e anche nei Paesi che l’hanno vinta ci sono gravi lutti e incolmabili dolori. E’ il caso del piccolo Pietro (che nella versione originale è Peter, e che ha il volto di un giovanissimo Dean Stockwell che nel corso dei decenni successivi parteciperà a grandi film come lo splendido “Paris, Texas” di Wim Wenders o a produzioni televisive di successo come “Quantum Leap”) i cui genitori medici si sono trasferiti dagli Stati Uniti in Europa per portare soccorso ai milioni di bambini tormentati dalla guerra e che, proprio mentre curavano i loro piccoli pazienti a Londra, sono periti durante un bombardamento.

L’unica cosa che rimane al piccolo è una lettera scritta dal padre poco prima di morire, che lui dovrà aprire raggiunti i sedici anni. Nessuno ha il coraggio di dargli le terribile notizia e lui, con l’ingenua convinzione che i genitori siano ancora in viaggio, viene trasferito – insieme alla sua lettera chiusa – da un parente all’altro fino a quando approda a casa di un lontano parente del padre che lui chiama nonno Fry (Pat O’Brien). Il carattere giovale e scherzoso dell’uomo sembra tranquillizzare Pietro che lentamente ricomincia a vivere una vita adatta alla sua età.

Partecipando a una raccolta fondi per gli orfani della guerra Pietro incappa in alcuni manifesti che riportano le desolanti fotografie di bambini vittime del conflitto, e ne rimane particolarmente colpito. Un suo compagno, vedendolo turbato per quei bambini sconosciuti, tenta di consolarlo raccontandogli la verità: anche lui è un orfano di guerra e per questo non dovrebbe essere tanto sconvolto.

La sera nonno Fry, per allentare la tristezza di cui è vittima il piccolo, gli racconta del suo unico e grande amore, ragione per la quale ha lasciato l’Irlanda per gli Stati Uniti. Era una splendida e affascinante acrobata che una sera perì cadendo dal trapezio. Amava molto la vita e la sua passione era una piccola pianta che teneva in casa. Quel verde, ricorda commosso Fry, le donava la gioia di vivere e le regalava la speranza per affrontare ogni nuovo giorno.

La mattina dopo Pietro, lavandosi il viso, si accorge che i suoi capelli sono diventati tutti verdi. Nonno Fry lo porta dal dottore che dopo averlo esaminato lo tranquillizza: Pietro sta bene e non è vittima di alcun veleno o temibile malattia. Semplicemente i suoi capelli sono diventati verdi. La reazione dei suoi concittadini, così come quella dei suoi compagni di classe, è però gretta e becera: c’è chi imputa il colore dei suoi capelli al latte avvelenato o chi a una grave malattia contagiosa. C’è anche chi è convinto che la cosa sia un funesto presagio delle gravi calamità che a breve colpiranno la cittadina.

Pietro decide di fare una passeggiata nel bosco e lì, fra i ruderi di una vecchia abitazione, incontra i ragazzi che il giorno prima ha visto sui manifesti. E uno di loro gli rivela il motivo del colore dei suoi capelli: lui è il simbolo della sofferenza che la guerra ha inflitto e continua a infliggere soprattutto ai bambini. La sua chioma è la bandiera del dolore e delle privazioni che subiscono i bambini di tutti i Paesi a causa dei conflitti, e lui dovrà mostrarla a tutti per ricordarglielo.

Ma la becera paura del diverso e dello sconosciuto portano i suoi compagni a tentare un agguato per tagliargli i capelli. Agguato dal quale Pietro riesce a scappare, ma tornato a casa vi trova un Fry triste e rassegnato che lo convince ad andare dal barbiere per tagliarsi i capelli. Dalle vetrine del negozio tutta la città osserva attenta il taglio di capelli di Pietro, alla fine del quale tutti si dileguano senza dire una parola.

Nel cuore della notte Pietro, deluso e arrabbiato, scappa dalla casa di nonno Fry che lo ha profondamente deluso. A ritrovarlo sono degli agenti che lo portano in commissariato dove lo consegnano al medico dei bambini il dottor Evans (Robert Ryan) che, ascoltata attentamente la sua storia, lo esorta a non mollare e ad adempiere al suo compito con la speranza che una volta ricresciuti i suoi capelli siano ancora verdi. Ad attenderlo fuori il distretto c’è un disperato e pentito nonno Fry che gli chiede perdono e gli legge la lettera del padre, che gli lascia l’alto compito di far ricordare a tutti l’orrore della guerra e la sofferenza di tutti bambini.   

Scritto da Ben Barzman e Alfred Lewis Levitt (e tratto da un racconto di Betsy Beaton) “Il ragazzo dai capelli verdi” è un vero e proprio manifesto contro ogni tipo di guerra, a favore di tutte le vittime e contro ogni razzismo o pregiudizio. Non è un caso quindi che lo stesso Losey, poco più di due anni dopo aver girato questo film, in pieno maccartismo, venne inserito nella famigerata lista nera di Hollywood per essere sospettato di attività anti-americane. L’antimilitarismo, la spinta verso la pace e il considerare i bambini al di là del loro Paese d’origine tutti uguali, costrinsero Losey a rimanere in Gran Bretagna, dove si trovava in quel momento a girare un film.

Da ricordare nel cast anche Robert Ryan, che nella sua carriera impersonò molti “maledetti cattivi” ma che nella vita reale fu un grande paladino dei diritti civili.  

Da vedere e da far vedere nelle scuole.

Esiste ormai un’unica versione restaurata e colorata di questo film, cosa che andava di moda negli anni Ottanta per ridistribuire le pellicole che qualcuno in quel momento considerava erroneamente invendibili così come erano nel loro splendido bianco e nero. Di solito considero la colorizzazione di un film in b/n un vero e proprio scempio, ma bisogna comunque ricordare che grazie a tale iniziativa, fra gli anni Ottanta e i Novanta, vennero “salvate” numerose pellicole che altrimenti sarebbero andate perdute. E poi, anche se il colore rovina l’atmosfera che solo il b/n può creare in questo specifico caso in cui il verde dei capelli di Pietro è davvero centrale nella narrazione, la cosa diventa tollerabile.

“Giorno maledetto” di John Sturges

(USA, 1955)

Tratto dal racconto “Bad Time at Honda” di Howard Berslin, pubblicato sul “The American Magazine” nel gennaio del 1947, e adattato per il grande schermo da Don McGuire e Millard Kaufman, “Giorno maledetto” è considerato giustamente uno dei più riusciti western moderni di quegli anni. Per western moderni si intendono pellicole con le classiche caratteristiche dell’epico cinema di frontiera, ma ambientati in epoca contemporanea.

A due mesi dalla fine del secondo conflitto mondiale, e ben dopo quattro anni dall’ultima volta, un treno passeggeri si ferma nella piccola stazione di Bad Rock, nel sud ovest degli Stati Uniti.

A scendere è solo un uomo che indossa una abito nero e tiene nella mano destra una piccola valigia marrone. I pochi abitanti della piccola località sperduta nel deserto osservano il nuovo arrivato diffidenti e curiosi.

L’uomo, che si chiama John J. Macreedy (un bravissimo Spencer Tracy), che ha il braccio sinistro evidentemente offeso, si reca nell’unico albergo del posto e chiede una stanza giusto per una notte. Poi si informa su come raggiungere la località chiamata “La Steppaia”, lontana qualche miglio, dove dovrebbe abitare un certo Komoko. Sentendo quel nome, Reno Smith (Robert Ryan) il più facoltoso proprietario terriero della zona, si irrigidisce…

Strepitoso film d’azione e suspense – come si diceva una volta – con una cast stellare fra cui spiccano, oltre a Tracy e Ryan, i giovani Lee Marvin, Ernest Borgnine e Anne Francis; una costruzione perfetta e ad orologeria; nonché una regia fra le migliori di quegli anni.

Memorabile è comunque l’interpretazione del grande Spencer Tracy, premiato al Festival di Cannes nel 1955, che incarna John Macreedy, simbolo della lotta contro ogni forma di razzismo e intolleranza, e che ci sussurra un bell’inno alla pace.