“Il club dei suicidi” di Robert Louis Stevenson

(1882/1991)

Sulla grande e prolifica narrativa britannica dell’Ottocento c’è poco da aggiungere, per me poi che sono un fan sfegatato di Sir Arthur Conan Doyle – e non solo del grande Sherlock Holmes – e dell’immenso Charles Dickens.

Ma poco si parla nel recente di un altro colosso made in UK – scozzese di nascita – della letteratura come Robert Louis (Balfour) Stevenson (1850-1894). Le sue opere sconfinano dalla narrativa – per la quale è universalmente famoso – per invadere il teatro e la poesia.

Rimanendo nell’ambito della narrativa, parliamo del racconto “Il club dei suicidi” che fa parte della raccolta “Le nuove Mille e una notte” edito nel 1882.

Stevenson ci porta in un’indimenticabile e fascinosa Londra vittoriana e notturna, fatta di strade buie e vicoli ciechi, ma soprattutto di case con le finestre sbarrate dietro le quali avvengono i più efferati delitti.

Con una destrutturazione temporale che anticipa quella che prenderà sempre più piede nei decenni successivi, “Il club dei suicidi” ci parla – come quasi tutta l’opera di Stevenson – della dicotomia sfumata fra il bene e il male, fra la paura e il coraggio e fra l’ingenuità e l’arroganza.

Godibilissimo.