“Seduzione mortale” di Otto Preminger

(USA, 1953)

Nel 1947 tutti gli Stati Uniti seguirono morbosamente alla radio e sui giornali, per oltre cinque mesi, lo sviluppo e la clamorosa conclusione del processo che si teneva a Orange County, nei pressi di Los Angeles, e che vedeva imputati l’ereditiera diciasettenne Beulah Louise Overell e il suo fidanzato ventenne George Gollum.

Poco tempo prima, il 15 marzo dello stesso anno, il lussuoso yacht dei ricchi coniugi Overell, genitori di Beulah Louise, era esploso nella rada di Newport Beach. I due non avevano avuto scampo, lasciando alla loro unica figlia un ingente patrimonio. Per questo, e per molti altri indizi, la ragazza e il suo fidanzato, non troppo tollerato dai suoi genitori, vennero accusati di omicidio.

Ispirandosi alla vera vicenda di Overell e Gollum: Chester Erskine, Frank S. Nugent e Oscar Millard (e il non accreditato Ben Hecht) scrivono la sceneggiatura dal titolo originale “Angel Face” – chiaro riferimento alla Overell che spiazzava tutti, cronisti e spettatori, con il suo aspetto innocente e pacato – che poi sapientemente il maestro Otto Preminger dirige.

Frank Jessup (un gagliardo Robert Mitchum) fa l’autista di ambulanze a Beverly Hills e una sera, per lavoro, giunge nella tenuta Wilton, dove la sua proprietaria Mary ha avuto un incidente con il gas del caminetto.

Fortunatamente la donna si è ripresa grazie al provvidenziale intervento del marito, Charles Tremayne. Poco prima di tornare sull’ambulanza Frank incontra la giovane Diane Tramayne (una bravissima e affascinante Jean Simmons, da non confondere ovviamente con Gene, il mefistofelico bassista dei Kiss…) figlia di primo letto di Tremayne.

Fra i due sboccia subito un’attrazione molto particolare che porta Jessup ha mentire alla sua fidanzata storica per passare la serata con la ragazza appena conosciuta. Ma l’aspetto angelico di Diane nasconde un anima irrequieta…

Pregiato noir d’annata con un ottimo cast diretto da uno dei veri maestri di Hollywood di quegli anni. E poi ci sono il ciuffo e lo sguardo sornione di Mitchum che sono tutto un programma…

Nell’edizione del dvd il doppiaggio non è quello originale degli anni Cinquanta, ma è quello rifatto negli Ottanta, che comunque possiede il suo discreto fascino visto che ha doppiare Mitchum è l’indimenticabile Pino Locchi.

“La vergine sotto il tetto” di Otto Preminger

(USA, 1953)

Il poliedrico Otto Preminger, nel marzo del 1951, produce la commedia “The Moon is Blue”, scritta da Frederick Hugh Herbert, che rimane in cartellone ininterrottamente a Broadway per oltre due anni.

Si tratta di un testo brillante con una protagonista insolita e innovativa: Patty O’Neill, una ventenne di origini irlandesi – e quindi cattoliche – che vive da sola a New York sperando di diventare una grande attrice e che, soprattutto, parla con estrema disinvoltura della sua verginità e di come questa influenzi il suo rapporto con gli uomini.

Nel 1953, visto il successo delle 924 repliche, il grande regista di origine austriache decide di portare sul grande schermo la piéce teatrale, e chiede allo stesso Hugh Herbert di scrivere la sceneggiatura.

Colpito dal suo fascino innocente, l’architetto Donald Gresham (William Holden) segue fin sulla terrazza dell’Empire State Building una giovane sconosciuta. La ragazza, che si chiama Patty O’Neill (Maggie McNamara) sembra lusingata dalla corte dell’uomo e accetta di cenare con lui.

Mentre sono sul taxi però Patty chiarisce subito un fatto: lei è vergine e così intende rimanere. Gresham è spiazzato, ma allo stesso tempo affascinato dalla giovane che, con la scusa di ricucirgli un bottone, porta nel suo appartamento. Lì però dovrà fare i conti con i suoi vicini: la sua pretendente Cynthia (Dawn Adams) e suo padre David (David Niven)…

All’uscita nelle sale americane il film fu attaccato furiosamente dalla critica e, soprattutto, dalla censura per i temi affrontati – basta pensare che semplicemente i termini “vergine” e “amante” erano considerati altamente immorali – da finire letteralmente al bando.

Il problema, però, non erano certo i vocaboli usati dai protagonisti, ma la figura di una giovane donna che, serena e cosciente, parla liberamente della propria sessualità e del rapporto con l’altro sesso.

Questo, molto probabilmente, fu quello che fece infuriare flotte di benpensanti che volevano bruciare la pellicola. Riguardando oggi il film, si apprezza ancora meglio il ritratto di una ragazza all’avanguardia, che agli uomini dice quello che pensa. Patty è davvero un’anticipatrice dei tempi, e osservando la McNamara – che non a caso venne candidata all’Oscar come miglior attrice – non si può evitare di pensare ad Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet.

Nello stesso anno esce nelle sale di tutto il mondo “Vacanze romane” di Wyler con un’altro nuovo tipo di protagonista femminile: la Principessa Anna, interpretata da un’altra giovane ragazza con gli occhi da cerbiatto e una lunga coda corvina come la McNamara: Audrey Hepburn.

“Tempesta su Washington” di Otto Preminger

(USA, 1962)

“Advise & Consent” di Allen Drury viene pubblicato nel 1959 e l’anno successivo vince del Premio Pultizer.

L’impatto sulla cultura americana è molto ampio, tanto che durante la campagna per le elezioni presidenziali del 1960 fu scattata una famosa foto che ritraeva i due candidati, Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy, intenti a leggere una copia del libro.

Due anni dopo, il maestro Otto Preminger ne dirige una splendida versione cinematografica – con lo stesso titolo in originale – la cui sceneggiatura è scritta dallo stesso Allen Drury insieme a Wendell Mayes.

Per la prima volta nella storia le macchine da presa di Hollywood entrano nel Senato degli Stati Uniti, e alcune delle scene cruciali vengono girate proprio nella stessa sala dove la Commissione contro le attività “antiamericane”, presieduta dal Senatore Joseph McCarthy, consumava le sue tristemente note sedute.

La scelta non è casuale, infatti, il romanzo di Drury – così come il film di Preminger – ci racconta delle feroci lotte interne che si consumano nel palazzo più importante degli Stati Uniti. Di come per ottenere la maggioranza in una votazione i rappresentati degli elettori siano disposti a tutto.

Ma, soprattutto, ci narra i modi infami del Senatore Fred Van Ackerman (interpretato da George Grizzard) che non disdegna il ricatto, le minacce e la calunnia pur di ottenere voti e consenso, ma che poi finirà isolato e schifato da tutti i suoi colleghi, indipendentemente dallo schieramento politico a cui appartengono.

Destino simile a quello che toccò al vero Joseph McCarthy, le cui accuse e insinuazioni provocarono non pochi suicidi (soprattutto a Hollywood) fra cui anche quello del Senatore Lester C. Hunt, avvenuto il 19 giugno del 1954 e riconducibile a una frase pronunciata pubblicamente dallo stesso McCarthy. Il Senato aprì un’inchiesta alla fine della quale McCarthy venne ufficialmente “censurato”, cosa che segnò la fine della sua carriera politica.

McCarthy morì il 2 maggio del 1957 a 48 anni, ufficialmente a causa di un arresto cardiaco, ma le cronache del tempo parlano di un’epatite legata all’alcolismo, conseguenza diretta del suo isolamento politico e personale (condizione che lui stesso aveva imposto a decine e decine di artisti sinistrorsi).

Ma torniamo al film.

Il Presidente degli Stati Uniti ha gravi problemi di salute, problemi che solo il suo staff ristretto conosce, e per questo decide di nominare a Segretario di Stato Robert Leffingwell (Henry Fonda) che considera l’unico in grado di prendere le redini – soprattutto in politica estera – che lui presto dovrà cedere.

Spetta a leader del partito di maggioranza Bob Munson (Walter Pidgeon) trovare i voti necessari alla nomina nella Commissione presieduta dal giovane Senatore Brigham Anderson.

L’ostacolo più grande è il rappresentante dell’opposizione, il Senatore veterano – visto che la sua prima elezione è avvenuta oltre quarant’anni prima – Seabright Colby (un gradissimo Charles Laughton) che trova Leffingwell troppo vicino all’ ideologia comunista per sedere su uno scranno così importante per il Paese.

Durante i lavori della Commissione esce fuori la testimonianza Herbert Gelman (Burgess Meredith) che afferma di aver partecipato ad alcune riunioni clandestine di una cellula comunista insieme a Leffingwell. Nel successivo interrogatorio lo stesso Leffingwell smonta con fermezza le accuse di Gelman che sembrano essere dettate solo dalla sua instabilità mentale.

Intanto, il Presidente della Commissione Anderson inizia a ricevere delle telefonate minatorie che vorrebbero fargli chiudere l’inchiesta per dare il nullaosta alla nomina proposta dal Presidente.

Lo stallo che si crea nella commissione porta Van Ackerman, la vera mente spregiudicata dietro il ricatto ai danni di Anderson, ad alzare il tiro e a inviare alla moglie del Presidente della Commissione foto e lettere che testimonierebbero una passata relazione omosessuale del marito. Devastato, Anderson si suicida nel suo studio. Ma…

Preminger, con un cast stellare, ci racconta una storia inventata – come sottolineano i titoli di testa – ma drammaticamente vera e attuale, inserendo nel cast uno dei simboli delle vittime del cosiddetto maccartismo: Burgess Meredith, che nel decennio successivo acquisterà fama mondiale interpretando Mickey Goldmill, il vecchio e non udente allenatore di pugilato del primo “Rocky”.

Lo stesso Meredith, infatti, finì alla fine degli anni Quaranta nella lista nera della Commissione contro la attività “antiamericane” e sedette come accusato nella stessa aula.

Nel 1949 fece in tempo però a realizzare il suo primo e unico film come regista: “L’uomo della Torre Eiffel” in cui – …guarda il caso… – Charles Laughton interpreta il commissario Maigret.

E, a proposito di Laughton, questa splendida pellicola deve essere ricordata anche perché fu l’ultima da lui interpretata, stroncato da un tumore pochi mesi dopo la fine delle riprese, mentre si preparava a interpretare Moustache in “Irma la dolce” di Billy Wilder, parte che poi venne affidata a Lou Jacobi.

Considerando i tempi e la morale di quando uscì nelle sale, anche “House of Cards” oggi sembra una serie per ragazzi.

Immortale.

“Vertigine” di Otto Preminger

(USA, 1944)

Questo è uno dei noir più significativi degli anni Quaranta, e non solo. I motivi sono principalmente due: una sceneggiatura mirabile e ad incastro, e il cast artistico davvero di prim’ordine.

Tratto dal romanzo “Laura” (che rimane identico nel titolo originale del film) di Vera Caspary, lo script di questa bella pellicola è scritto da Jay Dratler, Samuel Hoffenstein, Elizabeth Reinhardt e Ring Lardner Jr. (premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale per i film “La donna del giorno” e “M.A.S.H.”, e che fu una delle vittime più note del maccartismo) fra i più bravi sceneggiatori dell’epoca.

Non è ufficialmente noto perché Lardner non venne accreditato nei titoli di testi originali, la nefasta politica contro le attività anti-americane del fattivo senatore McCarthy esplose pubblicamente infatti solo un paio di anni dopo (e Lardner venne licenziato dalla Fox nel 1947).

Ma una cosa forse ci aiuta a comprendere: nelle sequenze iniziali Waldo Lydecker (interpretato magistralmente da Clitfon Webb) noto giornalista, ci viene presentato seduto nella vasca da bagno che, fumando un sigaro, è intento a pigiare i tasti della sua macchina da scrivere sistemata su una tavola sospesa sull’acqua.

Già allora gli addetti ai lavori sapevano che così amava scrivere uno dei più grandi sceneggiatori nel Novecento: Dalton Trumbo, due volte premio Oscar per le sue sceneggiature (tra cui “Vacanze romane”) e successivamente vittime anche lui del maccartismo.

Ma Trumbo fu una “vittima” scomoda, che nonostante le numerose difficoltà (fra cui anche il carcere) riuscì sempre ad avere “l’ultima parola” (titolo del bel film a lui dedicato e uscito qualche anno fa) e fu fra i primi a rompere e sconfiggere il maccartismo e tutti i suoi seguaci agli inizi degli anni Sessanta.

Se poi consideriamo che fra i suoi pubblici sostenitori alla fine degli anni Cinquanta ci furono il giovane Kirk Douglas (che fece riscrivere a lui buona parte dello script di “Spartacus”) e lo stesso Otto Preminger, che si avvalse del suo genio per varie pellicole, le cose forse diventano più chiare.

Ma torniamo a “Vertigine” e al suo cast. Quando Preminger prese in mano la produzione del film – che era in lavorazione da qualche mese – impose nuovi sceneggiatori, il direttore della fotografia Joseph LaShelle (che vinse l’Oscar proprio per questa pellicola) e due attori per i ruoli principali: Webb (fino a quel momento conosciuto solo come ballerino e cantante d’operetta) e il giovane Vincent Price, che interpreterà magistralmente il laido Shelby Carpenter.

Se è vero che i protagonisti sono Gene Tierny (che da il volto a Laura) e Dana Andrews (nei panni del tenente McPherson) i ruoli interpretati da Webb, soprattuto, e da Price donano alla pellicola uno slancio in più. Tanto che lo stesso Webb, praticamente al suo esordio davanti alla macchina da presa, venne candidato all’Oscar, per poi divenire uno dei volti più significativi della Hollywood di quegli anni.

Per quando riguarda la trama, che è davvero ad incastro con un paio di notevoli colpi di scena, non voglio spoilerare nulla. Dico solo una cosa: nella sequenza iniziale – come ogni maestro del cinema sa fare – Preminger mette tutti gli elementi chiave del film, ma proprio tutti…

Per comprendere al meglio poi l’influenza che questa pellicola ha prodotto, ricalibrando i punti cardini del noir, basta ricordare un altro paio di cose: le prime parole che dice la voce fuori campo nella sequenza iniziale, voce che poi scopriamo appartenere a Lydecker: “Non potrò mai dimenticare il weekend in cui Laura morì…”. E per la fredda cronaca ricordo che “Viale del Tramonto” è del 1950.

L’altra è che la pellicola con la quale viene – giustamente – spesso paragonata “Vertigine” è “La donna che visse due volte” girato del maestro Hitchcock nel 1958, e il cui titolo originale è guarda caso “Vertigo”.

E, infine, merita di essere ricordata la splendida colonna sonora firmata da David Raksin (già autore di quella di “Tempi Moderni” di Chaplin) il cui tema, visto il successo del film e la sua intrinseca bellezza, divenne una canzone fra le più famose del tempo.

“Sui marciapiedi” di Otto Preminger

(USA, 1950)

Dixon (Dana Andrews) è un ottimo poliziotto, ma la sua aggressività ha spesso messo il Dipartimento di Polizia nei guai. Dopo l’ennesimo arresto violento, Dixon viene degradato, cosa che fa aumentare la sua rabbia. Rabbia che parte da lontano: suo padre, infatti, era un manigoldo con un losco giro d’affari che morì tentando di fuggire per l’ennesima volta dal carcere.

Essere considerato “il figlio di Dixon” per l’agente è stato sempre molto doloroso. La situazione precipita quando si reca a casa di un sospetto per arrestarlo. Kenneth Paine, infatti, è il primo indiziato per l’assassino di ricco petroliere texano avvenuto la sera prima in una bisca clandestina. E quando Dixon tenta di prelevarlo, Paine lo colpisce. L’agente, per difendersi, lo colpisce a sua volta facendogli involontariamente sbattere la testa. Il colpo è letale, visto che Paine, decorato nella Seconda Guerra Mondiale, aveva una placca metallica alla base del cranio.

Dixon è convinto che nessuno gli crederà e così inscena la fuga di Paine, gettando poi il suo corpo nel fiume. Durante le indagini ufficiali, Dixon incontra Morgan (Gene Tierney) ex moglie di Paine, della quale subito si invaghisce. Quando viene rinvenuto il corpo di Paine nel fiume, però le cose per Dixon si complicano…

Tratto dal romanzo di William L. Stuart e sceneggiato da Ben Hecht, Robert E. Kent, Frank P. Rosenberg e Vitctor Trivas, “Sui marciapiedi” è davvero un noir d’antologia, firmato da un maestro della macchina da presa come Otto Preminger, fra quelli che hanno “fatto” Hollywood.