“Gli spostati” di John Huston

(USA, 1961)

Come regalo di San Valentino alla sua compagna Marilyn Monroe, il drammaturgo Arthur Miller scrive la sceneggiatura di un film modellato su di lei, che si distacca dai ruoli classici di prorompente ingenua, avvicinandosi invece alla vera anima tormentata dell’icona di sensualità e bellezza più famosa del cinema.

Per affiancare la Monroe vengono chiamate due altre grandi icone cinematografiche dell’epoca come Clark Gable e Montgomery Clift. Anche nei ruoli secondari la produzione sceglie due ottimi caratteristi del calibro di star come Eli Wallach e Thelma Ritter. La macchina da presa è affidata al maestro John Huston che dirige il cast – non senza problemi soprattutto a causa degli infiniti ritardi della protagonista sul set – in maniera superba.

Approdiamo a Reno, la città del Nevada famosa per i suoi casinò e la rapidità con cui si ottengono i divorzi, dove l’avvenente ma irrisolta Roslyn Tabor (la Monroe) è arrivata apposta per separarsi da suo marito Raymond (Kevin McCarthy). La donna ha preso in affitto una camera dalla signora Isabelle (una bravissima Thelma Ritter), anche lei giunta molti anni prima a Reno per divorziare.

Per brindare alla nuova libertà Roslyn e Isabelle si siedono al tavolo di un casinò dove incontrano Guido (Eli Wallach) il meccanico che la mattina stessa ha rimorchiato l’auto ammaccata della donna. L’uomo presenta alle due il suo amico Gay Langland (Clark Gable), uno degli ultimi veri cowboy del Paese, con il quale decidono di passare qualche ora nella casa che il meccanico possiede fuori città.

Nonostante la differenza anagrafica, fra Roslyn e Gay scatta la scintilla, anche se l’uomo le confessa di essere stato già sposato e avere una figlia pressapoco della sua età. Gay, per sbarcare il lunario e non avere un padrone, periodicamente assieme a Guido sale sui monti per catturare i pochi esemplari di cavalli mustang rimasti a piede libero. Per farlo però ha bisogno di un altro cowboy e lo trova in Perce (Montgomery Clift) un giovane sconsolato che vive partecipando ai rodei in giro per il Paese.

Il gruppo così parte per i monti dove Guido afferma di aver avvistato dal suo vecchio aereo una mandria di almeno quindici mustang. Poco prima di andare a caccia Roslyn scopre che i cavalli che verranno catturati saranno destinati al macello per diventare alimenti per altri animali. La cosa la sconvolge e chiede agli altri di abbandonare l’impresa. Ma Gay non accetta ordini da nessuno e così assieme a Guido e a Perce comincia a catturare i cavalli che in realtà sono solo sei…

Indimenticabile pellicola che anticipa di molto il declino del leggendario West, aprendo il filone del western crepuscolare, come lo sono tutti i personaggi di questo film, e forse proprio per questo alla fine alcuni di loro riusciranno a salvarsi. Oltre alla splendida e visibilmente sofferente Monroe (alla sua ultima pellicola che uscirà nelle sale) Huston non a caso le affianca Gable e Clift, due stelle di prima grandezza che in quel momento però stanno vivendo un momento artistico – e personale – di grande difficoltà.

Se il primo non può più competere col fascino e con la prestanza fisica e scenica del leggendario Rhett Butler che aveva interpretato oltre vent’anni prima (e proprio il rifiuto di avvalersi di una controfigura per girare le scene più pericolose e faticose, oltre al suo incontenibile tabagismo, per molti fu alla base dell’infarto che lo stroncò dodici giorni dopo aver terminato le riprese); il secondo è reduce dal grave incidente automobilistico che nel 1956 gli ha deturpato il volto (fra i primi soccorritori ci furono Elizabeth Taylor assieme allo stesso Kevin McCarthy), facendogli perdere la sensibilità di quasi tutta la parte destra. Ma non solo, Clift deve convivere con l’umiliante dissimulazione della sua omosessualità per poter continuare a lavorare nella Hollywood di quegli anni ipocrita e bacchettona.

Il maestro Huston riesce a far trasparire questi dolori interni personali degli attori davanti alla macchina da presa creando un’alchimia unica che bilancia alla perfezione i due personaggi attorno a Roslyin. Ma anche il machismo di Gay non è più quello di Ringo/John Wayne in “Ombre rosse”. Così come i mustang, che qualche decennio prima a centinaia popolavano liberi e indomabili le montagne del Nevada, anche i cowboy ormai stanno vivendo i loro crepuscolo esteriore e interiore non potendosi opporre alla società americana che così rapidamente sta cambiando.

Anche a distanza di molti decenni sono palesi però i difetti della sceneggiatura troppo verbosa di Arthur Miller (famosissimo autore di teatro che io però personalmente non amo troppo reputandolo inesorabilmente legato al suo tempo e non riuscendo, soprattutto, a tollerare e separare dalla sua arte la sua meschina vicenda di padre, alla pari di quella di Pablo Neruda) salvata però dal grande Huston che riesce ad alleggerirla grazie anche a delle sequenze con panoramiche ancora oggi avvincenti e memorabili, raccontando superbamente la storia apparentemente “banale” di coloro che vivono ai margini: i disadattati del titolo originale.

Con i suoi pregi e i suoi difetti, una pietra miliare della storia del cinema.

“L’ereditiera” di William Wyler

(USA, 1949)

Nel 1880 Henry James pubblicò a puntate il romanzo “Washington Square”, ispirato ad un evento realmente accaduto nell’aristocrazia britannica. James sposta la scena a New York e l’ambienta in quella che è considerata una delle piazze più esclusive della città.

Dal romanzo, la coppia di drammaturghi e sceneggiatori Ruth e Augustus Goetz traggono una commedia che sbanca Broadway. William Wyler decide di girare il suo adattamento cinematografico e chiama gli stessi due autori a scrivere la sceneggiatura.

New York, 1850. Austin Sloper (Ralph Richardson) è un facoltoso medico rispettato da tutta la città. Rimasto prematuramente vedovo, non riesce a consolarsi della perdita della moglie che lui reputa ancora l’essere più bello che abbia mai camminato sulla Terra.

Certo non lo consola la sua unica figlia Catherine (una bravissima Olivia de Havilland) scialba, goffa e ingenua, capace solo di realizzare inutili ricami. Grazie però alla rendita di diecimila dollari che le ha lasciato sua madre, Catherine è comunque una ragazza ricca. E lo diverrà ancora di più alla morte del padre che ha stabilito una rendita per lei di ulteriori ventimila dollari.

Nonostante ciò, alle feste a cui viene invitata nessuno sembra notarla, cosa che preoccupa molto suo padre e sua zia Lavinia (Lavinia Penniman). Tutto repentinamente cambia quando ad un party inizia ad essere al centro delle attenzioni del fascinoso Morris Townsend (Montgomery Clift).

Senza aspettare Townsend brucia le tappe del corteggiamento e poco tempo dopo chiede a Catherine di sposarlo. Se lei è fuori di se dalla gioia suo padre, invece, rimane freddo e distaccato. Per lui, infatti, il giovane è solo un cacciatore di dote e mai avrà la sua approvazione.

Nonostante il padre provi in ogni modo a dissuaderla, Catherine è sempre più intenzionata a coronare il suo sogno d’amore, cosa che alla fine provoca uno scontro profondo e irreversibile fra i due.

Per sposare il suo Morris, infatti, lei è disposta a fuggire nella notte e anche a rinunciare ai ventimila dollari in più di rendita, visto che suo padre ha promesso che la diserederà. Ma…

Amarissimo racconto sulle sfortune di una donna che ha la “colpa” di essere “brutta” e “ricca”. Nella storia del cinema è entrata a pieno l’indimenticabile scena finale, che ancora oggi viene scopiazzata.

Wyler dirige superbamente un ottimo cast dove brillano la de Havilland e Clift, che viene consacrato a star di primo livello. Per la sua interpretazione la de Havilland vince, giustamente, l’Oscar come miglior attrice protagonista, il secondo della sua lunga e prolifica carriera.

Per la chicca: solo grazie al successo planetario di questo film, il romanzo originale di Henry James fino ad allora pubblicato solo in inglese, venne tradotto in altre lingue.