“Sindrome Cinese” di James Bridges

(USA, 1979)

Il 16 marzo del 1979 usciva nelle sale statunitensi “Sindrome Cinese”, scritto da Mike Gray, T.S. Cook e lo stesso James Bridges che lo dirige. Il cast è di notevole caratura: Jane Fonda, l’attrice del momento e Jack Lemmon, una delle glorie della grande commedia hollywoodiana, questa volta in veste drammatica.

A produrlo è una delle più promettenti giovani menti del momento (e già premio Oscar come produttore per “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman) Michael Douglas, che ha una parte anche come attore nel cast.

Il film viene etichettato dai sostenitori del nucleare come inutilmente allarmista e superficialmente ambientalista, come la solita propaganda ottusa contro il progresso e lo sviluppo economico.

Alle 4.00 del mattino di mercoledì 28 marzo 1979, solo dodici giorni dopo, nell’unità 2 della centrale nucleare sulla Three Miles Island, nella contea di Dauphin in Pennsylvania, ci fu un blocco della portata di alimentazione ai generatori di vapore. La successiva procedura di normalizzazione venne interrotta da una valvola di rilascio che erroneamente non si chiuse, e durante l’incidente ci fu una pericolosissima fusione parziale del nocciolo che portò al rilascio nell’aria di piccole quantità di gas e iodio radioattivi.

Ancora oggi – fortunatamente – l’evento di Three Miles Island è considerato l’incidente nucleare più grave avvenuto nel suolo degli Stati Uniti. Basta pensare che per smaltire l’unità 2 ci sono voluti 13 anni e quello dell’unità 1 della centrale è previsto, per ragioni di sicurezza, nel 2034. Possiamo allora dire che Douglas fu un produttore particolarmente fortunato, visto che il dramma della piccola isola della Pennsylvania catapultò il suo film al centro dell’attenzione planetaria?

Oppure dobbiamo dire che Douglas è un produttore molto attento a quelle che sono le problematiche e i lati più oscuri della società contemporanea, come la gestione dei disabili mentali (con “Qualcuno volò sul nido del cuculo”), o l’arroganza impunita delle grandi lobby internazionali (con “L’uomo della pioggia” e “Wall Street – Il denaro non dorme mai”)?

Certo è che il film da lui prodotto descrive incredibilmente un incidente simile a quello che accadde davvero a Three Miles Island, e portò sotto gli occhi di tutti gli incredibili pericoli legati all’energia nucleare.

Kimberly Wells (una sempre brava e bella Jane Fonda, che sfoggia una lunga e seducente chioma rosso fuoco) è una presentatrice del locale canale televisivo. Kimberly vorrebbe fare la giornalista vera e propria, ma il suo aspetto piacente la “condanna” a servizi banali e d’intrattenimento.

La stessa grande multinazionale che gestisce la centrale nucleare di Ventana, alle porte della città, sta per ottenere del Governo le licenze per una nuova centrale in uno stato limitrofo. Così, per tranquillizzare l’opinione pubblica, il responsabile della comunicazione della grande azienda organizza un servizio televisivo all’interno della centrale. Viene inviata la bella Kimberly come intervistatrice e il cameraman indipendente Richard Adams (Michael Douglas).

Tutto procede secondo i piani, ma quando la piccola troupe arriva nei pressi della centrale di comando, dove sono interdette le riprese, qualcosa fa scattare l’allarme. Il direttore operativo di turno Jack Godell (un grande Lemmon) e tutti i suoi uomini rimangono pietrificati da quello che sta accadendo e soprattutto dal fatto che le indicazioni dei vari strumenti non coincidono. Grazie alla prontezza di Godell però si evita il peggio e l’allarme finalmente rientra.

Kimberly e Richard vengono congedati con molta gentilezza e rassicurati che ciò che hanno visto era un semplice e frequente inconveniente di gestione. All’insaputa di tutti però Adams ha ripreso ogni istante della crisi, e vorrebbe fare subito un pezzo da trasmettere il giorno stesso. Ma il network si fa consegnare il filmato e lo chiude in archivio, non volendo inimicarsi una multinazionale così potente.

Intanto, alla centrale solo Jake Godell è tremendamente preoccupato per l’accaduto e inizia un’indagine personale, scoprendo e che molti protocolli di sicurezza sono stati infranti durante la costruzione della centrale stessa. Contatta Kimberly che insieme a Richard vuole portare le prove di tali infrazioni davanti alla Commissione di Sicurezza del Governo, ma…

I disastri ambientali di Chernobyl prima e Fukushima poi non hanno fatto altro che confermare le paure raccontante in questo bel film; e con tutte le forme energetiche alternative, finalmente il nucleare è entrato davvero in discussione.

Per la chicca: la Sindrome Cinese era una teoria secondo la quale la fusione del nocciolo di una centrale nucleare sarebbe un evento così ingestibile tanto da non poter essere in alcun modo contenuto, neanche dalla crosta terrestre. Per cui il nocciolo bucherebbe tutto, sbucando dall’altra parte del globo, in Cina appunto.

Ma l’incidente di Three Miles Island (quello di Cernobyl venne causato dall’esplosione chimica di un reattore) avallando tutta l’ipotesi del film, ha dimostrato allo stesso tempo che la tesi della Sindrome Cinese non è concreta, visto che il nocciolo venne comunque contenuto dalla struttura.

“Il metodo Kominsky” di Chuck Lorre

(USA, 2018)

Uno dei creatori di “The Big Bang Theory”, Chuck Lorre, approda su Netflix con una nuova serie.

Se la vecchiaia ha intrinseco un valore molto importante, e cioè quello di esserci arrivati, la terza età possiede anche molti spiacevoli effetti collaterali, a partire dai numerosi problemi fisici e fastidi che essa comporta.

Sandy Kominsky (un grande Michael Douglas) che qualche decennio prima ebbe una promettente carriera di attore e che ora è uno dei più rinomati insegnanti di recitazione di Los Angeles, nonostante il look e lo stile di vita è entrato ufficialmente nella terza età.

La sua scuola riesce ad andare avanti grazie soprattutto all’apporto pratico e concreto di sua figlia Mindy (Sarah Baker), unico bel ricordo rimasto di tre matrimoni falliti.

Il suo storico agente è Norman Newlander (un altrenttanto strepitoso Alan Arkin) che invece ha avuto molto successo nel suo lavoro: la sua società è una delle più note e floride della costa.

Ma Norman ha avuto successo soprattutto nell’amore. Da quarantasei anni, infatti, è sposato con Eileen, una splendida donna che lo stesso Sandy presentò a Norman.

Ma la vita – e la vecchiaia soprattutto – nasconde insidie e tristi sorprese: Eileen è in fin di vita a causa di un cancro incurabile. L’ultima volontà della donna è quella che Norman e Sandy si prendano l’uno cura dell’altro…

Cattivissima e divertente serie, che non dissimula nulla sulla terza età e sui suoi lati più fastidiosi e odiosi, con due grandissimi interpreti.

Per la chicca: cameo esilarante di Danny Devito – amico nella vita reale di giovinezza dello stesso Douglas – nella parte dell’urologo di Sandy.

“Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman

(USA, 1975)

Il 19 novembre del 1975 si tiene a Los Angeles la prima di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman, uno dei soli tre film nella storia a vincere – ad oggi – i cinque Oscar principali: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore e miglior attrice non protagonista (gli altri due sono “Accadde una notte” di Frank Capra e “Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme).

Con una delle cattive più famose del cinema (paragonabile anche a Lord Darth Fenner, e lo dico da padawan sfegatato) l’infermiera Mildred Ratched, interpretata da una bravissima Louise Fletcher – che vincerà meritatamente l’Oscar, rimanendo poi troppo legata a questo ruolo nell’immaginario del pubblico, che stenterà poi ad apprezzarla in altri differenti pellicole – “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è il primo grande film di successo planetario ad affrontate apertamente il dramma delle malattie mentali e degli istituti in cui vengono ospitati i malati.

Il primo film a parlare dello stesso argomento è in realtà “Gli esclusi” che John Cassavetes dirige nel 1963, ambientato in un ospedale per bambini con gravi disturbi del comportamento, pellicola però che ebbe gravi problemi di produzione e di fatto troppo all’avanguardia per i tempi.

Come per “Il Padrino” – in cui il ruolo di Michael Corleone era stato pensato per Warren Beatty che invece clamorosamente rifiutò costringendo la produzione a “ripiegare” (l’ho messo apposta fra virgolette!) su Al Pacino – per questo film la produzione aveva da subito pensato a James Caan che invece declinò l’offerta, lasciando libera la parte di Randle Patrick McMurphy che Jack Nicholson renderà immortale.

Inoltre, questo film consacrerà la figura di Michael Douglas come giovane e intelligente produttore cinematografico. E’ proprio a lui si deve la partecipazione alla pellicola del giovane e sconosciuto Danny DeVito, che per anni aveva condiviso appartamento e vita da scapolo con il giovane e allora scapestrato Michael.

Per la chicca, ci togliamo subito il problema del titolo in italiano.

Quello originale – di cui il nostro è la fin troppo la letterale traduzione – si rifà direttamente al titolo del romanzo da cui è ispirato. Infatti, l’azione del film si svolge nel 1963, anno successivo alla pubblicazione del romanzo di Ken Kesey, che lo aveva scritto basandosi sulle proprie esperienze come volontario nell’ospedale dei veterani di Melno Park, in California.

Ma, già durante la stesura della sceneggiatura, fra Kesey, Milos Forman, Bo Goldman e Lawrence Hauben – questi ultimi due autori finali dello script – nacquero profonde e incolmabili fratture, tanto da portare Kesey a non voler mai vedere il film finito.

Fra tali contrasti c’è probabilmente la totale cancellazione dal plot della filastrocca che cita appunto il nido del cuculo – che nello slang comune americano è uno dei molti modi per chiamare un manicomio – che invece nel libro ha una ben precisa ricorrenza.

Nonostante questo la produzione, vincolata dal contratto di cessione dei diritti e dal successo americano del romanzo di Kesey che era diventato un simbolo della nuova generazione (ma che da noi venne pubblicato solo nel 1976 grazie al successo del film) non toccò il titolo.

E le menti illuminate dei nostri distributori, per non saper né leggere e né scrivere (si fa per dire!) lo lasciarono così…

Metafora anche del conflitto generazionale che allora infuocava la società, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è sempre un esempio di grande cinema impegnato che ancora emoziona, con la sua scena finale che sfido chiunque a rivedere senza commuoversi.

“Dietro i candelabri” di Steven Soderbergh

(USA, 2013)

In questo film possiamo goderci la più grande interpretazione di Michael Douglas degli ultimi anni, premiato non a caso con un Golden Globe (era fuori la corsa all’Oscar perché in USA il film è stato trasmesso in televisione).

Lo stesso attore che ha impersonato il detective Nick Curran in “Basic Instinct” e Gordon Gekko in “Wall Street” ci regala il ritratto controverso di Liberace, uno degli artisti più famosi ed eccentrici dell’America della seconda metà del Novecento, palesemente omosessuale ma non ufficialmente – e questo in quegli USA faceva la sua differenza – in una performance paragonabile solo a quella inarrivabile di Ugo Tognazzi in “Splendori e miserie di Madame Royale” diretto da Vittorio Caprioli nel 1970.

Strepitoso, come sempre, anche Matt Damon che veste i panni del toy-boy Scott Thorson, che poi pubblicherà la sua autobiografia da cui è tratto il film.

Davvero molto bello.