“LOVE DEATH + ROBOTS” di David Fincher e Tim Miller

(USA, dal 2019)

Alla fine del primo decennio del nuovo millennio i registi David Fincher e Tim Miller volevano realizzare un remale del cult assoluto “Heavy Metal” diretto da Gerald Potterton e prodotto da Ivan Reitman nel 1981.

Ma i tempi non sembrarono maturi e nessuno era pronto a investire per un lungometraggio di animazione per adulti che, citando il grande Zerocalcare, non è un cartone animato “zozzo” ma un lungometraggio che per argomenti e scene spesso crude e cruenti è dedicato ad un pubblico maggiorenne.

Il successo planetario del film “Deadpool” diretto dallo stesso Miller nel 2016 cambia le cose e permette ai due di trovare i finanziamenti per il loro vecchio progetto che diventa una serie antologica distribuita da Netflix a partire dal 2019.

La prima stagione è composta da 18 episodi, la seconda da 8 e la terza da 9, che durano fra i 6 e i 21 minuti, spesso ispirati a racconti di fantascienza contemporanei e diretti da artisti provenienti da tutto il globo. L’episodio “Mutaforma”, ad esempio, è diretto da Gabriele Pennacchioli, storico disegnatore di “Diabolik”, “Martin Mystère” e “Dylan Dog”, e poi assunto alla Dreamworks dove ha partecipato a successi internazionali come “Shrek”, “Kung Fu Panda” o “Dragon Trainer”.

Così come nella prima serie, anche nelle successive ci sono episodi realizzati in vari studi sparsi per il Pianeta, ma anche “Un brutto viaggio”, tosto fino all’ultimo frame, diretto dallo stesso Fincher e scritto dall’autore cyberpunk Neal Asher.

Se proprio mi costringete a fare una scelta dico “Tre robot” (che apre la prima stagione) e “Tre robot: Strategie d’uscita” (che apre la terza) nonché il delizioso “L’era glaciale” diretto dallo stesso Miller, tratto da un racconto di Michael Swanwick, con Mary Elizabeth Winstead e Topher Grace.

Da vedere.

“10 Cloverfield Lane” di Dan Trachtenberg

(USA, 2016)

Scritto da Josh Campbell, Matthew Stuecken e Damien Chazelle (già sceneggiatore e regista di “Whiplash” e “La La Land”) diretto da Dan Trachtenberg e, soprattutto, prodotto dal nuovo genio di Hollywood J.J.Abrams, “10 Cloverfield Lane” ti inchioda alla poltrona fino all’ultimo fotogramma.

Se da una parte possiede caratteri classici e claustrofobici di un thriller psicologico (tratti che ricordano fin troppo chiaramente la serie “Lost”) dall’altra è una chiaro riferimento al “Cloverfield” diretto da Matt Reeves nel 2008 e sempre prodotto da Abrams.

Michelle (una bravissima Mary Elizabeth Winstead) lascia il suo ragazzo Ben (la cui voce nella versione originale è di Bradley Cooper) e parte con la sua auto verso la Luisiana. Con lo scorrere delle ore arriva il buio e proprio poco dopo il tramonto la ragazza, ascoltando l’ennesimo messaggio del suo ex sulla segreteria del cellulare, ha un grave incidente.

Si risveglia con una notevole, ma ben curata, ferita sulla gamba e allo stesso tempo incatenata al materasso dentro una stanza di cemento senza finestre. Dopo un tempo che sembra infinito la porta rumorosamente si apre ed entra Howard (uno stratosferico John Goodman) che le porta il pranzo.

L’uomo le racconta quello che lei non ricorda: l’ha trovata gravemente ferita sul ciglio della strada e l’ha portata con se visto che il loro Paese è sotto un feroce attacco chimico. Adesso sono al sicuro nel suo bunker. Michelle non crede a una solo parola, ma quando scopre che nel bunker c’è anche Emmet (John Gallagher Jr.) un giovane vicino di casa di Howard che, non solo conferma la storia, ma le racconta anche che ha dovuto combattere con l’uomo per entrarci, la ragazza rimane perplessa. 

Michelle è sempre titubante e, con uno stratagemma, riesce a impadronirsi delle chiavi per uscire. Ma giunta alla porta esterna dal vetro vede…

Davvero un film tosto. Sconsigliato ai deboli di cuore e con un John Goodman in stato di grazia. Se davvero volete fare i superbi vedetevelo la notte, da soli, in una remota casa di campagna…  tzé!

“Smashed” di James Ponsoldt

(USA, 2012)

Il dramma dell’alcolismo non è mai stato facile da portare sul grande schermo, eccezion fatta per il grande Billy Wilder – in tempi in cui non era riconosciuto neanche come una vera e propria malattia – con il suo “Giorni perduti” del 1945.

Ma questa piccola pellicola – nel senso di “produzione indipendente” e con un cast non di grido – riesce a farci entrare nella vita e nella pelle di un’alcolista, nelle sue menzogne quotidiane e nell’oblio irresponsabile che l’alcol provoca.

E, come accade nella realtà, la strada che porta alla sobrietà passa anche per l’umiliazione e il dolore: per salvarsi bisogna cambiare vita. Radicalmente.

Con una bravissima Mary Elizabeth Winstead “Smashed” – che vuol dire sbronzo e allo stesso tempo rotto – è da vedere, soprattutto per quelli che sottovalutano il dramma, proprio o altrui, dell’alcolismo.

Premio Speciale della Giuria del Sundance Film Festival 2012.