“Non per soldi… ma per denaro” di Billy Wilder

(USA, 1966)

Se nel nostro immaginario lo stereotipo dell’avvocato arraffone e opportunista è l’Azzeccagarbugli de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, nella cultura americana è senza dubbio lo scaltro Willie Gringrich – il cui cognome significa letteralmente “diventa ricco” – interpretato superbamente in questo film da un eccezionale Walter Matthau, che non a caso vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Siamo a metà degli anni Sessanta e la società americana, come quella di tutto l’Occidente, sta cambiando molto rapidamente. Questo soprattutto – o purtroppo, dipende dai punti di vista… – grazie al nuovo mezzo di comunicazione di massa che è diventata la televisione. Nella storia della civiltà umana, dopo i racconti verbali tramandati per millenni, solo la radio era riuscita ad entrare capillarmente in ogni focolare domestico. Ma la scatola dei sogni ha anche le immagini e così sbaraglia ogni concorrenza e, soprattutto, ogni resistenza.

Altro grande pilastro sociale negli Stati Uniti è da sempre lo sport, e proprio in quegli anni, molto prima che da noi, qualcuno ha già pensato ai ricchi profitti che il connubio tv/sport può alimentare. E così approdiamo a Cleveland, la patria della squadra di football americano dei Cleveland Browns, proprio durante una partita del massimo campionato ripresa in diretta dalla CBS.

A riprendere i giocatori da bordo campo c’è l’esperto cameraman Harry Hinkle (Jack Lemmon) che proprio alla fine di un’azione di gioco viene travolto involontariamente dal giocatore dei Browns Luther “Boom Boom” Jackson (Ron Rich). Harry, rovinando sulla matassa del telo che copre il campo, perde conoscenza e viene portato in ospedale.

Al suo capezzale si precipitano sua madre (Lurene Tuttle) sua sorella Charlotte (Marge Redmond) e suo marito Willie Gringrich che sente subito l’odore di un risarcimento a sei zeri. Appena ripresosi Harry si sente solo indolenzito, ma Willie lo convince a fingere di avere perso l’uso di una gamba e di un braccio proprio a causa del trauma, visto poi che Charlotte gli ha raccontato che da bambino lui, cadendo dal tetto, si è incrinato una vertebra.

Hinkle si rifiuta categoricamente di mentire, ma il suo diabolico cognato alla fine riesce a convincerlo che il suo stato certamente farebbe tornare la sua ex moglie Sandy (Judi West), scappata un anno prima con un musicista per far decollare la sua carriera di cantante. Intanto, all’ospedale arriva trafelato e turbato “Boom Boom” Jackson, che non riesce a perdonarsi le gravi menomazioni che ha apparentemente causato a Harry.

Nonostante il prestigioso ed esperto studio legale – con tanto di investigatore privato fornito di macchina da presa e microfoni perimetrali – incaricato dall’assicurazione di verificare l’autenticità dei danni subiti da Hinkle, Willie Gringrich riesce ad organizzare un piano a prova di bomba. L’avvocato ha pensato proprio a tutto, tranne all’anima di suo cognato che è un illuso sì, ma onesto…

Superba commedia firmata dal grande Billy Wilder maestro indiscusso del genere hollywoodiano, che rappresenta una neanche troppo velata critica alla televisione e soprattutto al lato voyeuristico e opportunistico che questa fomenta nella società. Ne sono un esempio il morboso spionaggio di Chester Purkey (Cliff Osmond), l’investigatore privato che riprende ed ascolta 24 ore su 24 Hinkle per conto dello studio legale dell’assicurazione; e l’illusione di Sandy di poter diventare un’artista famosa solamente presentandosi “come si deve” in televisione.

Come tutte le opere del maestro Billy Wilder: graffiante e sempre attuale. La pellicola sancisce la definitiva ascesa di Walter Matthau nell’olimpo delle stelle di prima grandezza del firmamento del cinema americano. La bravura di Matthau, in questo ruolo, oscura anche quella del grandissimo Lemmon.

Per la chicca: il titolo originale del film è “The Fortune Cookie” e si riferisce al biscotto della fortuna che Harry apre e nel quale c’è la famosa frase di Abraham Lincoln – che lo stesso Willie Grigrich definisce: “un ottimo presidente, ma un pessimo avvocato…” – che dice: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Frase che forse Wilder e I.A.L. Diamond, autori della sceneggiatura, volevano riferire anche alla televisione? …Ai posteri l’ardua sentenza.

Da ricordare, nella nostra versione, gli stratosferici Renato Turi ed Emilio Cigoli che donano, come sempre superbamente, le voci rispettivamente e Walter Matthau e Jack Lemmon.

“La donna, il sesso e il superuomo” di Sergio Spina

(Italia/Francia, 1967)

Negli ultimi decenni la produzione cinematografica nel nostro Paese si è concentrata soprattutto sui generi della commedia e del thriller.

Ma negli anni Sessanta, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, il cinema italiano rappresentava una delle eccellenze più attive e produttive del pianeta producendo non solo i capolavori immortali di grandi artisti come Rossellini, Fellini, Visconti, Antonioni o Monicelli. Così, oltre al mostro sacro della commedia all’italiana, venivano realizzate pellicole che toccavano tutti i generi, anche quelli meno usuali.

Questo “La donna, il sesso e il superuomo” è uno degli esempi più originali e particolari. Scritta dal giornalista Furio Colombo, Ottavio Jemma e lo stesso Sergio Spina (che qualche anno dopo diventerà il regista del programma televisivo “Mixer”), attraverso il genere della fantascienza, questa pellicola è una fotografia molto particolare della nostra società di allora.

Richard Werner (Richard Harrison) è un uomo di bell’aspetto e con un fisico invidiabile. Vive godendosi i piaceri della propria esistenza assieme alla sua compagna, la fotomodella Deborah Sandor (Judi West). Un giorno però viene rapito da alcuni uomini che lo portano in un laboratorio segreto.

Lì fa la conoscenza del perfido e glaciale Karl Maria von Beethoven (un cattivissimo Adolfo Celi) proprietario della “Fantabulous”, una multinazionale che grazie all’aiuto del professor Krohne (Gustavo D’Arpe) ha creato un super cervellone elettronico il quale, attraverso ad un transistor – che goduria riscrivere un termine ormai così arcaico! – impiantato alla base del cervello di un essere umano, oltre a controllarlo, lo rende un vero e proprio super eroe invincibile.

Non ci mette tanto Werner a capire che lui è stato rapito per diventare il 17esimo esperimento umano, visto che i primi sedici sono morti durante l’intervento e che: “…ci vuole un mediocre per fare un superuomo”. Nonostante le proteste e i tentativi di fuga, a Werner viene impiantato il transistor e così diventa “Fantabulous” il nuovo e moderno supereroe capace di conquistare tutti i mercati globali.

Ma Beethoven e Krohne non hanno calcolato due cose: la prima è che Fantabulous ogni volta che vede Deborah torna ad essere Werner mandando in tilt il cervellone elettronico. E la seconda è l’interesse, molto particolare, di tutte le potenze economiche e militari del mondo che, scoperto “Fantabulos”, lo vorrebbero dalla loro parte per riportare l’ordine in un mondo dove ci sono troppi “cervelli pensanti”, cosa che le rende disposte a pagare qualsiasi cifra e usare qualsiasi mezzo.
Per questo il fascino di Deborah e soprattutto l’incontenibile attrazione sessuale che emana agli occhi del suo fidanzato complicano i piani un po’ di tutti…

Pellicola girata nello stile più psichedelico e caotico degli anni Sessanta, con numerosi inserti di fumetti e immagini reali, accompagnati da dialoghi e scene appositamente sopra le righe – con toni che appariranno anche nello strepitoso “VIP, mio fratello superuomo” di Bruno Bozzetto – che di fatto aprono le porte a quel ’68 che tanto prometteva e così poco ha mantenuto.

Ma il messaggio contro il più feroce capitalismo e militarismo è ben chiaro ed efficace, grazie anche a un bravissimo – come sempre – Celi che richiama per il cognome e soprattutto per la sua folta chioma bianca a quell’Herbert von Karajan che molti in quegli anni accostavano – giustamente o ingiustamente la storia non lo ha detto ancora con certezza – ai “nostalgici” del III Reich.

Come la nostra cultura di allora purtroppo pure questo film, anche se così originale, sconta un approccio grezzo e rozzo alle diversità, tanto da usare più di una volta l’abominevole termine “mongoloide” come insulto a chi non appare così sveglio e lesto. Ma d’altronde, che ci piaccia o no, noi eravamo anche – ma certamente non solo – così. Il che aiuta a spiegare alcune determinanti svolte della storia recente e anche di quella recentissima del nostro Paese.