“Giulia” di Fred Zinnemann

(USA, 1977)

La scrittrice e drammaturga americana Lilian Hellman (1905-1984) è stata una delle figure più rilevanti della cultura americana del Novecento. Sin dalla sua prima opera – “La calunnia” del 1934 che William Wyler porterà superbamente sullo schermo nel 1961 col titolo “Quelle due” con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine – la Hellman usa i suoi testi come denuncia sociale e morale.

Le sue dichiarate idee sinistrorse, soprattutto nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, le creeranno non pochi problemi con la censura di allora, cosa che accadde anche al suo compagno di vita Dashiell Hammett, che morì in solitudine e povertà, assistito solo dalla stessa Hellman.

Nel 1973 pubblica il romanzo autobiografico “Pentimento” in cui ripercorre i fatti più rilevanti della sua esistenza, come la tormentata relazione con Hammett che durò circa trent’anni e, soprattutto, la sua amicizia profonda con Giulia.

Quattro anni dopo il maestro Fred Zinnemann decide di realizzare l’adattamento cinematografico del libro.

Lilian (una bravissima Jane Fonda) e Giulia (Vanessa Redgrave) dopo aver passato nella ricca proprietà dei nonni di quest’ultima, non lontano da New York, indimenticabili estati insieme durante l’adolescenza, vengono separate dalla vita. Quando la passione di Lilian per la scrittura diventa centrale, quella per la medicina di Giulia la porta in Europa, e nello specifico a Vienna per conoscere e seguire gli studi di Sigmund Freud.

Ma l’ombra della Seconda Guerra Mondiale cala sull’Europa e Lilian, che ormai convive stabilmente con Hammett (Jason Robards) viene a sapere che la sua amica è stata gravemente ferita quando le truppe naziste hanno occupato l’Austria.

Giunta a Vienna, Lilian trova Giulia irriconoscibile e piena di ferite in un letto di ospedale, tanto sconvolta che forse nemmeno la riconosce. La città è sotto l’occupazione tedesca e quando il giorno dopo si sveglia Lilian trova il letto di Giulia vuoto, e nessun sa dirle dove è stata trasferita. Senza notizie dell’amica a Lilian non resta che tornare negli Stati Uniti.

La prima commedia della Hellman è un successo clamoroso di critica e pubblico tanto da renderla molto famosa ed essere invitata a Mosca per uno spettacolo teatrale. Mentre è a Parigi, da dove prenderà il treno per la capitale sovietica, Lilian viene avvicinata dal signor Joahnn (Maximilian Schell) che dice di essere un amico di Giulia. L’uomo sostiene che a mandarlo sia stata proprio la donna, che ha un grande favore da chiederle…

Struggente pellicola firmata da un maestro di Hollywood che ci racconta splendidamente l’ansia e l’angoscia precedenti a quella che è considerata una delle più grandi catastrofi dell’umanità come la Seconda Guerra Mondiale. E le osserviamo attraverso gli occhi di una donna americana privilegiata, che rimane incredula sconvolta e impotente da quello che vede accadere in Europa, nonostante l’opulenza e la mondanità in cui lei stessa vive.

Indimenticabile l’interpretazione di Jane Fonda, che viene candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista, così come quelle della Redgrave e di Robards che invece la statuetta dorata la vincono. Oscar per la miglior sceneggiatura non originale anche a Alvin Sargent per lo script del film, dove le atmosfere sono più importanti degli scatti narrativi e i silenzi a volte più dei dialoghi.

Nonostante le polemiche che seguirono l’uscita del romanzo prima e quella del film poi, a causa dei forti dubbi sulla reale esistenza di Giulia – esistenza mai indiscutibilmente comprovata – e sulla vera partecipazione della Hellman ad azioni anti-naziste, questo film rimane comunque molto bello ed emozionante, raccontandoci la storia universale di due donne indimenticabili.

Per la chicca: il film segna anche l’esordio cinematografico di Meryl Streep nel ruolo secondario dell’antipatica Anne Marie, simbolo della ricca e viziata alta borghesia newyorkese. Inoltre, la persona che si intravede pescare su una barca nella penombra di un tramonto, all’inizio e alla fine della film, è la vera Lilian Hellman.

“Tutti i mercoledì” di Robert Ellis Miller

(USA, 1966)

Nel 1964 debutta a Broadway la commedia “Tutti i mercoledì” firmata dalla scrittrice e drammaturga americana Muriel Resnik. Sia l’autrice che il cast, fra cui c’è un giovane Gene Hackman, in quel momento sono semi sconosciuti, ma il riscontro di pubblico e critica è clamoroso, cogliendo tutti di sorpresa.

Come spesso accade, Hollywood ha sempre un occhio fisso sulla strada dei teatri più famosa d’America, e così due anni dopo esce l’adattamento cinematografico. A scrivere la sceneggiatura è Julius J. Epstein (storico sceneggiatore della Mecca del Cinema, e premio Oscar per quella non originale di “Casablanca”) che produce anche la pellicola.

John Cleves (Jason Robards) è un caparbio dirigente d’azienda di mezza età, rispettato e temuto da tutti. E’ felicemente sposato con Dorothy Cleves (Rosemary Murphy, unica superstite del cast originale di Broadway) e conduce una vita inappuntabile e laboriosa …almeno per sei giorni a settimana, visto che il mercoledì lo passa in un piccolo appartamento a New York intestato a una delle ditte che dirige, che invece lui personalmente assegna alle sue giovani amanti con cui passa il giorno feriale. Quando l’ultima lo lascia, Cleves parte alla ricerca di quella nuova e fra le sue facoltose e volitive braccia cade la giovane e fragile Ellen Gordon (una bravissima Jane Fonda, fresca reduce del successo in “Cat Ballou“) che, dopo non poche resistenze, cede alla sua corte.

Le cose per Cleves sembrano procedere alla grande fino a quando la sua distratta segretaria non dà le chiavi dell’appartamento a Cass Henderson (Dean Jones, che il mondo ricorda per le sue interpretazioni nei film dedicati ad Herbie il maggiolino tutto matto) giovane dirigente di una delle ditte sparse per il Paese. Se all’inizio Cass è convinto che Ellen faccia parte dei “benefit” dell’appartamento, non ci mette molto a capire la vera dinamica sentimentale fra l’ospite e il suo capo. A complicare le cose arriva anche la signora Cleves che, sempre per colpa della segretaria di suo marito, piomba nell’appartamento per arredarlo…

Classica commedia degli equivoci che però, e forse è questo il motivo del suo successo, ci presenta le protagoniste femminili Ellen Gordon e Dorothy Cleves in una luce nuova e particolare. Le due donne, infatti, da posizioni succubi materialmente o moralmente degli uomini, si emancipano prendendo ognuna la propria consapevole strada.

Non è un cambiamento da poco, visto i profondi stereotipi con cui le donne vengono rappresentante in quegli anni nelle commedie sul grande schermo, anche di successo internazionale. Ellen e Dorothy respirano già quell’aria di cambiamento che di lì a pochi anni infiammerà la contestazione e soprattutto la lotta per l’emancipazione delle donne.

Insomma, un piccolo gioiellino precursore dei tempi. Jane Fonda viene giustamente candidata al Golden Globe per la sua interpretazione.

“Cat Ballou” di Elliot Silverstein

(USA, 1965)

Scritto da Walter Newman e Frank. P. Pierson (che poi vincerà l’Oscar come migliore sceneggiatore per lo script di “Quel pomeriggio di un giorno da cani” diretto da Sidney Lumet), anche se tratto dal romanzo di Roy Chanslor, “Cat Ballou” ha però un tono ben diverso dal libro, molto più ironico e scanzonato, e davvero innovativo.

Infatti Catherine Ballou (interpretata da una bravissima e luminosa Jane Fonda) – la “Cat Ballou” del titolo – è una protagonista davvero insolita per un film western. Nonostante la formale educazione ricevuta in un collegio di suore, quando lo spietato bounty killer Silvernoose (Lee Marvin) le uccide davanti agli occhi il padre, lei non esita a chiedere a Kid Shelleen (sempre Lee Marvin nel suo secondo ruolo), che aveva assoldato per difenderlo, di farle giustizia sommaria.

Fra le grandi novità che introduce il film c’è quella impensabile fino a poco tempo prima: tutti gli uomini che portano stivali, speroni e lunghe pistole non sembrano essere all’altezza degli eventi. A partire dallo stesso Shelleen una volta mito del selvaggio West e ormai ridotto a un misero alcolista che non si rende conto neanche di quando gli calano le braghe. Per non parlare dei due cowboy Clay e Jed, pavidi truffatori che dissimulano uno strano e ambiguo reciproco rapporto, gli unici, a parte l’indiano Jackson-Due Orsi (continuamente vessato per il colore della sua pelle) disposti ad aiutarla…

Insomma, una commedia molto particolare grottesca e divertente ambientata nel West – “mostro sacro” della cultura nordamericana – antesignana delle lotte sociali che in quegli anni avevano appena acceso le polveri, e avevano nel loro centro la lotta al razzismo e l’emancipazione della donna.

Paragonabile solo a “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” diretto dal grande Mel Brooks quasi un decennio dopo, e alle ancora più recenti pellicole simili dei fratelli Coen.

Jane Fonda, che con questo film viene consacrata a star di primo livello, già palesa quello che sarà il suo cinema: fatto di donne che devono lottare quotidianamente contro l’arroganza, l’ingerenza e la prepotenza degli uomini.

Da ricordare anche l’interpretazione di Lee Marvin, che non a caso vince l’Oscar come miglior attore protagonista, spesso simbolo di uomini e personaggi duri e tosti, che invece qui ci regala un ubriacone patetico e rassegnato, che fa da contraltare allo spietato e piatto Silvernoose.

Questa pellicola è stata anche l’ultima interpretata da Nat King Cole, stroncato da un cancro ai polmoni – le cui prime avvisaglie emersero proprio sul set – molti mesi prima che il film approdasse nelle sale.

Cole è stato il prima artista di colore ad avere un programma alla radio e successivamente alla televisione tutto suo, anche se poi le feroci polemiche razziali di impavidi benpensanti portarono altrettanti pavidi sponsor al ritiro dei loro finanziamenti.

Sempre in prima linea contro il razzismo, anche nel mondo dello spettacolo, ne subì le dirette conseguenze nel 1956 quando venne pestato a sangue a Birmingham, in Alabama, da un gruppo di ameni membri del “White Citizens’ Council” poco dopo aver iniziato il suo concerto. Evento che viene ricordato anche nel recente e splendido “Green Book” di Peter Farrelly.

Artista fra i più quotati in quel periodo negli USA e nel mondo, Nat King Cole ebbe difficoltà ad ottenere la parte di Sunrise Kid – uno dei due cantastorie del film – e vediamo se qualcuno ne indovina il motivo? …Il colore della sua pelle, esatto! La produzione, infatti, era propensa a “non turbare troppo” la morale degli spettatori con un cowboy di colore che suona e canta nel vecchio West (…poveri noi!).

Fortunatamente, sia il regista che il cast artistico – così dicono le cronache dell’epoca – ebbero la meglio.

 

“Sindrome Cinese” di James Bridges

(USA, 1979)

Il 16 marzo del 1979 usciva nelle sale statunitensi “Sindrome Cinese”, scritto da Mike Gray, T.S. Cook e lo stesso James Bridges che lo dirige. Il cast è di notevole caratura: Jane Fonda, l’attrice del momento e Jack Lemmon, una delle glorie della grande commedia hollywoodiana, questa volta in veste drammatica.

A produrlo è una delle più promettenti giovani menti del momento (e già premio Oscar come produttore per “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman) Michael Douglas, che ha una parte anche come attore nel cast.

Il film viene etichettato dai sostenitori del nucleare come inutilmente allarmista e superficialmente ambientalista, come la solita propaganda ottusa contro il progresso e lo sviluppo economico.

Alle 4.00 del mattino di mercoledì 28 marzo 1979, solo dodici giorni dopo, nell’unità 2 della centrale nucleare sulla Three Miles Island, nella contea di Dauphin in Pennsylvania, ci fu un blocco della portata di alimentazione ai generatori di vapore. La successiva procedura di normalizzazione venne interrotta da una valvola di rilascio che erroneamente non si chiuse, e durante l’incidente ci fu una pericolosissima fusione parziale del nocciolo che portò al rilascio nell’aria di piccole quantità di gas e iodio radioattivi.

Ancora oggi – fortunatamente – l’evento di Three Miles Island è considerato l’incidente nucleare più grave avvenuto nel suolo degli Stati Uniti. Basta pensare che per smaltire l’unità 2 ci sono voluti 13 anni e quello dell’unità 1 della centrale è previsto, per ragioni di sicurezza, nel 2034. Possiamo allora dire che Douglas fu un produttore particolarmente fortunato, visto che il dramma della piccola isola della Pennsylvania catapultò il suo film al centro dell’attenzione planetaria?

Oppure dobbiamo dire che Douglas è un produttore molto attento a quelle che sono le problematiche e i lati più oscuri della società contemporanea, come la gestione dei disabili mentali (con “Qualcuno volò sul nido del cuculo”), o l’arroganza impunita delle grandi lobby internazionali (con “L’uomo della pioggia” e “Wall Street – Il denaro non dorme mai”)?

Certo è che il film da lui prodotto descrive incredibilmente un incidente simile a quello che accadde davvero a Three Miles Island, e portò sotto gli occhi di tutti gli incredibili pericoli legati all’energia nucleare.

Kimberly Wells (una sempre brava e bella Jane Fonda, che sfoggia una lunga e seducente chioma rosso fuoco) è una presentatrice del locale canale televisivo. Kimberly vorrebbe fare la giornalista vera e propria, ma il suo aspetto piacente la “condanna” a servizi banali e d’intrattenimento.

La stessa grande multinazionale che gestisce la centrale nucleare di Ventana, alle porte della città, sta per ottenere del Governo le licenze per una nuova centrale in uno stato limitrofo. Così, per tranquillizzare l’opinione pubblica, il responsabile della comunicazione della grande azienda organizza un servizio televisivo all’interno della centrale. Viene inviata la bella Kimberly come intervistatrice e il cameraman indipendente Richard Adams (Michael Douglas).

Tutto procede secondo i piani, ma quando la piccola troupe arriva nei pressi della centrale di comando, dove sono interdette le riprese, qualcosa fa scattare l’allarme. Il direttore operativo di turno Jack Godell (un grande Lemmon) e tutti i suoi uomini rimangono pietrificati da quello che sta accadendo e soprattutto dal fatto che le indicazioni dei vari strumenti non coincidono. Grazie alla prontezza di Godell però si evita il peggio e l’allarme finalmente rientra.

Kimberly e Richard vengono congedati con molta gentilezza e rassicurati che ciò che hanno visto era un semplice e frequente inconveniente di gestione. All’insaputa di tutti però Adams ha ripreso ogni istante della crisi, e vorrebbe fare subito un pezzo da trasmettere il giorno stesso. Ma il network si fa consegnare il filmato e lo chiude in archivio, non volendo inimicarsi una multinazionale così potente.

Intanto, alla centrale solo Jake Godell è tremendamente preoccupato per l’accaduto e inizia un’indagine personale, scoprendo e che molti protocolli di sicurezza sono stati infranti durante la costruzione della centrale stessa. Contatta Kimberly che insieme a Richard vuole portare le prove di tali infrazioni davanti alla Commissione di Sicurezza del Governo, ma…

I disastri ambientali di Chernobyl prima e Fukushima poi non hanno fatto altro che confermare le paure raccontante in questo bel film; e con tutte le forme energetiche alternative, finalmente il nucleare è entrato davvero in discussione.

Per la chicca: la Sindrome Cinese era una teoria secondo la quale la fusione del nocciolo di una centrale nucleare sarebbe un evento così ingestibile tanto da non poter essere in alcun modo contenuto, neanche dalla crosta terrestre. Per cui il nocciolo bucherebbe tutto, sbucando dall’altra parte del globo, in Cina appunto.

Ma l’incidente di Three Miles Island (quello di Cernobyl venne causato dall’esplosione chimica di un reattore) avallando tutta l’ipotesi del film, ha dimostrato allo stesso tempo che la tesi della Sindrome Cinese non è concreta, visto che il nocciolo venne comunque contenuto dalla struttura.

“Dalle 9 alle 5 orario continuato” di Colin Higgins

(USA, 1980)

Sono passati esattamente trentanove anni dall’uscita nelle sale di questa pungente commedia sul maschilismo becero e imperante nel mondo del lavoro, e noi ancora parliamo di “quote rosa”.

Quando Patricia Resnick e lo stesso Colin Higgins – che poi lo dirigerà – iniziarono a scrivere la sceneggiatura di questo film, negli Stati Uniti così come nel resto dell’Occidente, si respirava un’aria di cambiamento. Le lotte sociali degli anni precedenti sembravano aver creato l’atmosfera giusta per portare le donne, per la prima volta nella storia, a chiedere e pretendere le stesse possibilità degli uomini anche nell’ambito lavorativo.

Ma l’ipocrita e subdolo maschilismo è sempre stato una brutta bestia, viscida e infida, e così gli autori dovettero comunque creare una storia con tinte grottesche per permettere a tre donne di gestire – molto meglio degli uomini, ovviamente – un intero reparto di una grande compagnia multinazionale americana.

Se negli Stati Uniti, così come in alcuni altri grandi paesi industrializzati, negli ultimi quarant’anni sono brillate manager capaci e innovative, nel nostro Paese, escludendo la compianta Marisa Bellisario (che per le sue rare e incredibili doti manageriali era chiamata vilmente da alcuni suoi colleghi ometti – evidentemente invidiosi e con più che giustificati sensi di inferiorità – “la signora coi baffi”, soprannome che la dice lunga sulla nostra cultura, troppo spesso miope e femminicida, che non riesce ancora ad accettare completamente doti e capacità solo al femminile, tanto che fra i termini più usati per descrivere qualcuno molto abile, intelligente e preparato usa il termine “cazzuto”…) non è stato concesso loro lo spazio necessario. Basta pensare al fatto che il primo Ministro degli Interni donna, nella storia della Repubblica Italiana, è stata Rosa Russo Iervolino che giurò il 21 ottobre del 1998.

Ma torniamo al film di Higgins: Judy Bernly (una sempre brava, ammaliante e permanentata Jane Fonda) è stata lasciata dal marito, per la sua giovane e procace segretaria, dopo oltre quindici anni di matrimonio. Sola e senza figli, Judy è costretta a entrare nel mondo del lavoro alla soglia dei quarant’anni, come anonima segretaria nella sede di Los Angeles di una grande compagnia internazionale.

Viene assegnata nel reparto gestito da oltre cinque anni dalla capace e competente Violet Newstead (Lily Tomlin) il cui capo e il dirigente è Franklin M. Hart Jr. (un bravo quanto antipatico Dabney Coleman), suo ex collega che lei stessa ha aiutato a far carriera, ma che adesso la sfrutta con arroganza e meschinità.

La procace segretaria di Hart è Doralee Rodhes (un’esordiente davanti alla MDP Dolly Parton) che lo stesso dirigente fa credere a tutti essere la sua amante. Le tre donne, stanche dei soprusi arroganti e sessisti del loro capo, decidono di passare insieme una serata fantasticando su come, ognuna di loro, lo ucciderebbe il più crudelmente possibile.

La mattina dopo, mentre Violet prepara il caffè per Hart – fra i suoi esaltanti compiti quotidiani… – erroneamente invece dello zucchero ci mette del micidiale veleno per topi. L’uomo, poco prima di bere il caffè avvelenato però sbatte casualmente la testa perdendo i sensi e subito viene portato all’Ospedale per accertamenti.

Quando Violet si rende conto dello scambio che ha fatto e vede portar via l’uomo in ambulanza si convince di averlo avvelenato. Con Judy e Doralee corre in ospedale ma…

Higgins dirige una godibilissima commedia che ancora oggi ci fa riflettere, indignare e anche sorridere.

Per la chicca: Jane Fonda, per interpretare il ruolo di Judy, volle prima intervistare decine di donne entrate nel mondo del lavoro tardi, rispetto ai canoni di allora, per motivi legati al divorzio o alla morte del coniuge.

“California Suite” di Herbert Ross

(USA, 1978)

In alcune lussuose suite di un grande albergo di Beverly Hills si consumano le più basse, dure ma anche divertenti miserie umane di alcuni suoi ospiti. Neil Simon firma la sceneggiatura di questo ennesimo adattamento di una sua opera teatrale diretto da un grande artigiano del cinema come Herbert Ross.

Hannah (una splendida, in tutti i sensi, Jane Fonda) e il suo ex marito Bill (Alan Alda) si incontrano dopo quasi dieci anni dal divorzio, per discutere l’affidamento dell’ultimo anno da minorenne della loro unica figlia Jenny (Dana Plato).

Diana Barrie (una strepitosa Maggie Smith, che vincerà l’Oscar come miglior attrice non protagonista, il secondo nella sua lunghissima carriera) arriva a Los Angeles per partecipare alla notte degli Oscar, è la favorita per la statuetta come miglior attrice non protagonista (il fato è sempre il fato…). Ad accompagnarla c’è suo marito Sidney Cochran (un forse ancora più bravo Michael Caine) ex attore e ora antiquario, con il quale ha un lungo e problematico rapporto personale. Nonostante tutto Sidney sarà l’unico capace di raccogliere i pezzi di Diana sconfitta alla cerimonia…

Marvin (un irresistibile, come sempre, Walter Matthau) arriva a Beverly Hills per la prima comunione del figlio di suo fratello Harry (Herb Edelman). Marvin non viaggia mai in aereo assieme alla moglie Millie (una grande Elaine May) per paura di rendere con un solo incidente i loro figli orfani. Così lei lo raggiungerà il giorno dopo, qualche ora prima della cerimonia. La sera i due fratelli la passano ricordando i bei vecchi tempi e quando Marvin torna alticcio nella sua suite ci trova una sorpresa di Harry: una escort (che allora si chiamavano squillo). Il problema arriva la mattina dopo quando Marvin si sveglia accanto alla ragazza, ancora totalmente ubriaca, e alla porta bussa Millie…

I medici Gump (Richard Pryor) e Panama (Bill Cosby), colleghi di ospedale a Chicago, con le rispettive consorti stanno passando gli ultimi giorni di una vacanza insieme. I numerosi piccoli incidenti avvenuti nel corso delle ferie hanno fatto venire a galla la grande competizione fra i due dottori che esplode incontenibile quando la prenotazione della suite dei coniugi Gump non risulta. Mentre i Panama si godono la loro splendida suite, i Gump devono passare la notte in una piccola e allagata camera di servizio…

I vari episodi non sono così nettamente divisi, ma temporalmente incastrati uno dentro l’altro. L’ordine è quello dal più drammatico a quello più comico. Tutti gli attori dimostrano indiscutibilmente la loro bravura recitando un testo che non perde smalto col passare degli anni.

“Le nostre anime di notte” di Ritesh Batra

(USA, 2017)

Esattamente cinquant’anni dopo lo strepitoso “A piedi nudi nel parco” Robert Redford e Jane Fonda tornano insieme in una commedia dolce, romantica e crepuscolare.

La sceneggiatura de “Le nostre anime di notte” è tratta dall’omonimo romanzo dello scrittore americano Kent Haruf (1943-2014) che, nonostante soli sei romanzi (pubblicò la sua prima storia superati i quarant’anni) in patria è considerato fra i più noti narratori contemporanei.

Louis (Redford) è un anziano vedovo che vive solo, nella sua bella casa a Holt, una cittadina (immaginaria) del Colorado. Una sera bussa alla sua porta Addie (la Fonda), una sua storica vicina con un’insolita proposta. Visto che si conscono da decenni – le loro rispettive famiglie sono nate e cresciute una difronte all’altra – ed entrambi sono soli da anni (anche lei è vedova e come Louis ha il figlio lontano) perché non dormire insieme? Ma non per fare sesso, solo per parlare affrontando e superando la notte, che è il momento più difficile per una persona sola.

Louis rimane assai stupito dalla proposta, ma dopo qualche notte insonne chiama Addie per accettare. Ma i due non potranno fare a meno di dover affrontare gli sbagli commessi nelle rispettive esistenze…

Emozionante e struggente pellicola intimista con due protagonisti da Oscar, bravissimi e bellissimi nei panni di due anziani che vogliono solo passare il tempo che rimane loro assieme. Per i cuori più romantici.

“A piedi nudi nel parco” di Gene Saks

(USA, 1967)

Questo film di Gene Saks sta per compiere mezzo secolo ma, grazie alla sua scrittura e alla bravura dei suoi protagonisti, è sempre fresco e brillante.

E’ vero che l’omonima commedia – scritta da Neil Simon nel 1963 e diretta in teatro da Mike Nichols – è uno dei capolavori comici del XX secolo, ma la classe non è acqua e basta un niente per rovinare un adattamento.

Ma Saks coglie a pieno lo spirito innovativo del testo di Simon e, soprattutto, la sua freschezza. Non a caso per il ruolo di Paul sceglie lo stesso giovane attore che da quattro anni lo interpreta in teatro: Robert Redford, mentre per quello di Corie la giovane ma già conosciuta Jane Fonda, che con Redford aveva lavorato ne “La Caccia” di Arthur Penn.

Il resto è storia del cinema: con alcune battute davvero memorabili, le gambe infinte di Jane Fonda, lo sguardo irresistibile di Robert Redford e soprattutto una grande anticipazione.

Proprio alla vigilia di quell’infausto 1968 – al quale ancora qualche triste nostalgico si aggrappa disperato – Neil Simon ci dice quale potrà essere una delle vere rivoluzioni sociali: la pacata e morigerata normalità nel rapporto di coppia.

Lui si che è un genio rivoluzionario!

“Una squillo per l’ispettore Klute” di Alan J. Pakula

(USA, 1971)

Troppo spesso questo noir è classificato semplicemente come un thriller, ma in realtà è molto di più.

Una straordinaria, bellissima e soprattutto incontenibilmente sensuale Jane Fonda – che per questo ruolo ha vinto non a caso l’Oscar – incarna Bree Daniel, una giovane squillo – che oggi molti chiamerebbero escort – implicata, suo malgrado, nella scomparsa di un ricco uomo d’affari suo cliente.

Per mantenere il riserbo la famiglia assolda l’ex ispettore di polizia Klute (un glaciale Donald Sutherland) che dovrà confrontarsi con un mondo apparentemente luccicante, ma in realtà spietato e crudele.

Grazie anche all’interpretazione di Jane Fonda, il film descrive dolorosamente e senza false ipocrisie la strada che porta una ragazza a prostituirsi – fatta soprattutto di abusi e violenze – e il mondo della prostituzione in generale dove chi si prostituisce viene sfruttato come mero capo di bestiame, in tutti i sensi.

Tosto.