“Victor Victoria” di Blake Edwards

(USA, 1982)

Siamo agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, quando l’omosessualità da molti era ancora considerata una perversione e una “deviazione” del comportamento “normale” di un essere umano. Ma allo stesso tempo l’omosessualità, sia quella femminile ma soprattutto quella maschile, erano considerate “attraenti” e divertenti, naturalmente solo in centri ambiti …ristretti. Come quello dello spettacolo, che concedeva ospitalità a grandi artisti, ma solo sul palcoscenico. Fuori era un’altra cosa…. un pò come al leggendario “Cotton Club” degli anni Trenta dove a esibirsi erano immensi artisti come Cab Calloway, ma nello stesso locale non erano ammesse come clienti persone di colore.

Così Blake Edwards decide di puntare i riflettori – e la macchina da presa – su questa grande e vergognosa ipocrisia e si ispira al film “Vittorio e Vittoria” scritto e diretto dal tedesco Reinhold Schünzel nel 1933, cambiando non di molto la sceneggiatura originale.

Parigi, 1934. Victoria Grant (una brava Julie Andrews) è un ottimo soprano che però non riesce a trovare un ingaggio. Disperata e alla fame, per mangiare decide di portare nella borsa uno scarafaggio trovato nella camera in affitto in cui alloggia – e dalla quale è stata cacciata per non aver pagato la pigione – in un ristorante e metterlo nell’insalata finale sperando così di evitare di pagare il conto.

Nel locale la donna incrocia Toddy (Robert Preston), un cantante omosessuale anche lui finito in bolletta, a causa soprattutto del suo carattere scostante. Ed è proprio Toddy ad avere l’illuminazione: a Parigi nessun locale è interessato a un soprano donna, anche se di alta qualità; ma a un uomo che finge di essere un soprano donna nessuno saprebbe resistere. Lui può insegnarle tutto, ma…

Deliziosa commedia, nella grande e inimitabile tradizione di Blake Edwards, che ci racconta delle becere ipocrisie e dei falsi perbenismi sull’omosessualità – il gangster americano Re Marchand, interpretato da James Garner, finché froda il fisco e ammazza i rivali è rispettato e temuto, ma quando aleggia su di lui il sospetto di essere innamorato di un altro uomo, perde completamente di “rispettabilità”… – ambientata negli anni Trenta parigini, ma ben presenti, purtroppo, negli Stati Uniti – e naturalmente non solo – dei primi anni Ottanta.

Edwards e sua moglie Julie Andrews, così come tutti, non si aspettavano certo la tragedia che proprio mentre questo film veniva girato iniziava ad abbattersi sul genere umano: l’AIDS. Il virus, iniziando a falciare vittime fra le comunità gay, venne vergognosamente associato per interi anni solo all’omosessualità, ghettizzando ancora di più i suoi membri e facendo credere per molto tempo agli eterosessuali di esseri “immuni”. Il Presidente Reagan solo all’inizio del suo secondo mandato iniziò a parlare pubblicamente della pericolosità del virus per “tutti”.

Tornando al film, oltre alle ottime interpretazioni della Andrews e di Preston – entrambi candidati all’Oscar la prima come miglior attrice protagonista e il secondo come miglior attore non protagonista – deve essere ricordata anche la colonna sonora firmata da Henry Mancini, stretto collaboratore di Edwards e autore delle più famose musiche dei suoi film, come quella indimenticabile della serie “La Pantera Rosa”. Delle sette candidature ottenute dal film – fra cui anche la miglior sceneggiatura non originale – solo Mancini incredibilmente portò a casa la statuetta, e anche questo fu un triste segno di quei tempi.

Per la chicca: è indubbio che il personaggio dell’investigatore impacciato Charles Bovin, interpretato da Herb Tanney, incaricato di scoprire la vera sessualità di Victoria Grant alias Victor Grazinski, sia un esilarante omaggio al grande ispettore Clouseau ideato dallo stesso Edwards e incarnato in maniera sublime dal grande Peter Sellers, scomparso l’anno precedente l’inizio della lavorazione della pellicola.

“L’amore di Murphy” di Martin Ritt

(USA, 1985)

Sally Field, fresca vincitrice del suo secondo Oscar come miglior attrice protagonista – per “Le stagioni del cuore” di Robert Benton –  torna ad essere diretta da Martin Ritt (vero maestro di Hollywood che ha firmato pellicole come “La spia che venne dal freddo”, “Il prestanome“, o “Lettere d’amore”) che l’aveva già diretta in “Norma Rae” pellicola grazie alla quale vinse la sua prima statuetta.

Emma Moriarty (la Field) vuole iniziare una nuova vita insieme al figlio dodicenne Jake. E’ nata e cresciuta in un ranch, e gestirne uno è quello che sa fare meglio. Così, con i limitati rispiarmi, ne ha comprato uno alla porte di una piccola cittadina dell’Arizona. I pochi soldi che le sono rimasti devono bastare per far sopravvivere suo figlio e lei finché l’attività non decolla.

Fra i vari abitanti della città, quello che la colpisce di più è Murphy Jones (un bravissimo James Garner), l’attempato e anticonformista farmacista e padrone dell’emporio della città. Fra i due si instaura subito uno strano e impalpabile rapporto che subisce un brusco mutamento quando nel ranch arriva Bobby Jack, l’ex marito di Emma e padre di suo figlio…

Se la Field è brava come sempre, in questa pellicola romantica e intimista, possiamo apprezzare le doti di Garner, che proprio per questo ruolo venne candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. E pensare che Ritt e la Field dovettero discutere non poco con la produzione per inserirlo nel cast, visto che in quegli anni James Garner era considerato soprattutto un attore da televisione.