“Madadayo – Il compleanno” di Akira Kurosawa

(Giappone, 1993)

Il maestro Akira Kurosawa chiude la sua straordinaria carriera di cineasta con questa splendida pellicola intimista, che molti considerano il suo testamento spirituale. Come molti film precedenti, anche per questo, Kurosawa si affida al suo stretto collaboratore Hishiro Honda, lo stesso geniale regista di fantascienza che nel 1954 girò il primo e indimenticabile “Godzilla”.

I due, basandosi sui veri saggi del professor Hyakken Uchida scrivono la sceneggiatura, curano la fotografia, la regia e il montaggio del film. Alle soglie degli anni Quaranta e compiuti i sessant’anni, il professor Uchida, docente di tedesco presso l’Università di Tokyo, decide di ritirarsi dall’insegnamento e vivere pubblicando i suoi scritti.

L’affetto dei suoi studenti è molto grande, tanto da portare alcuni ad aiutarlo a traslocare e andare a trovarlo regolarmente. Nonostante le ristrettezze legate al secondo conflitto mondiale, Uchida decide di offrire un banchetto ai suoi ex studenti più cari. Poco dopo la sua casa viene rasa al suolo durante un bombardamento alleato, e il professore e sua moglie sono costretti a trasferirsi in una piccola baracca, dove però la stima e l’affetto dei suoi studenti non mancano mai.

Per sostenere il loro ex docente in un momento così difficile viene organizzato un banchetto in suo onore proprio il giorno del suo compleanno. Durante la cena, Uchida scherzando risponde alla domanda che è convinto vogliano fargli i suoi ospiti “Mada kai?” (“Sei pronto?” riferendosi ovviamente alla morte) con un perentorio: “Madadayo!” (“Non ancora”). Questo piccolo scherzo diventa un rito irrinunciabile che a ogni cena annuale si ripete fra il professore e i suoi ex studenti…

Splendida riflessione sulla vita, l’amore, il rispetto e ovviamente la morte che ancora oggi lascia incantanti e sereni, e che ci racconta intimamente l’anima della vita sociale e culturale del Sol Levante.

Da studiare a scuola di cinema la magistrale e toccante, come poche, scena finale.

“A 30 milioni di km dalla Terra” di Nathan Juran

(USA, 1957)

Negli anni Cinquanta Roma è stata il set di numerose e famose pellicole come “Guardie e ladri” e “I soliti ignoti” di Mario Monicelli, o “Poveri ma belli” di Dino Risi. Ma nello stesso periodo – proprio nel 1957, anno in cui Risi girava il primo film con Maurizio Arena e Renato Salvatori – una troupe statunitense girava nella Capitale gli esterni di un film di fantascienza che sarebbe diventato di vero e proprio culto nei decenni successivi.

L’idea di realizzare un film di fantascienza ambientato a Roma venne nei primi anni Cinquanta al geniale Ray Harryhausen, giovane esperto di effetti speciali. Ma il costo fece slittare di parecchio la realizzazione del film che poi, scritto da Christopher Knopf e Robert Creighton Williams, venne diretto dall’ottimo artigiano della MDP, di origini austriache, Nathan Juran.

Al rientro dalla prima e segretissima spedizione spaziale su Venere, il razzo cosmico guidato dal colonnello Robert Calder (William Hopper) naufraga nel mare, vicino alle coste della Sicilia. Unico sopravvissuto all’impatto è proprio Calder che, una volta ripresosi, comunica al Pentagono la sua posizione. La priorità, per il militare, è ritrovare il campione biologico che la spedizione ha prelevato su Venere.

Ma lo strano cilindro con dentro un uovo in gelatina viene ritrovato sulla spiaggia da un ragazzino del posto che lo vende al Dottor Leonardo (Frank Puglia), un famoso etologo del Giardino Zoologico di Roma, in vacanza studio nel luogo. Poche ore dopo l’uovo gelatinoso si schiude per far uscire una piccola e minacciosa lucertola che cammina sulle zampe posteriori. Respirando l’ossigeno terrestre la creatura comincia a ingigantirsi fino a costringere i militari, che nel frattempo hanno localizzato Leonardo, a tramortirla con l’elettricità. La creatura extraterrestre viene così portata nel Giardino Zoologico di Roma per essere studiata ma, a causa di un banale incidente, riesce a liberarsi per poi fuggire e seminare terrore e distruzione nella Città Eterna…

Al di là della storia, che comunque ha il suo fascino – e ricorda in tinte horror quella di “E.T. L’Extraterrestre” di Spielberg – la bellezza di “A 30 milioni di km. dalla Terra” sta negli effetti speciali concepiti, creati e filmati a “passo uno” dal grande Ray Harryhausen, che realizzava tutto senza l’aiuto di nessun collaboratore. Fra le scene memorabili devono essere ricordate la battaglia fra la creatura extraterrestre e un elefante che dal Giardino Zoologico, passando davanti alla Galleria Borghese, per via Cristoforo Colombo, arriva fino a Castel Sant’Angelo – con una spettacolare distruzione di Ponte Sant’Angelo – e che trova il suo l’epilogo finale sul Colosseo: davvero strepitoso!

A fare l’eroe, un po’ troppo ingessato per la verità, è William Hopper, famoso per interpretare il detective Paul Drake, braccio destro del Perry Mason televisivo impersonato da Raymond Burr; nonché figlio della “famigerata” Hedda Hopper, penna “armata” e feroce del maccartismo più intransigente che flagellò Hollywood a partire dalla fine degli anni Quaranta.

Per capire bene l’impronta che Ray Harryhausen ha lasciato nel cinema bastano due piccoli esempi: nel 2013 il grande Guillermo Del Toro dedica il suo “Pacific Rim” alla “memoria dei maestri dei mostri Ray Harryhausen e Ishiro Honda” (papà del primo e inarrivabile “Godzilla” e regista di “Latitudine Zero“). E per finire, nello splendido “Monsters & Co.” di Pete Docter il ristorante di sushi, alla  moda e molto esclusivo, in cui Sulley riesce a prenotare per Mike e Celia si chiama, guarda il caso, “Harryhausen’s”.

“Latitudine Zero” di Ishiro Honda

(Giappone/USA, 1969)

E’ inutile fare troppo gli intellettuali, perché a dirigere questo visionario pamphlet è Ishiro Honda autore e regista del primo e immortale “Godzilla” girato in bianco e nero nel 1954, nonché fedele e primo collaboratore del maestro Akira Korosawa. La trama di questo film, invece, ricorda tanto “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne, ma con alcune modifiche assai politicamente corrette.

Durante un’esplorazione subacquea, un giapponese, un francese e un americano (sembra proprio una barzelletta lo so, ma il fascino del trash è anche questo) rischiano di rimanere vittime dell’eruzione di un vulcano sottomarino.

A salvarli è l’Alpha, uno strabiliante sottomarino ideato e comandato da Glen MacKenzie (un Joseph Cotten ormai al tramonto delle sua carriera, la cui pettinatura stona non poco con gli strabilianti e psichedelici costumi di scena) membro di rilievo di Latitudine Zero, un mondo sommerso, creato grazie al genio di numerosi scienziati di fama mondiale, in cui ognuno vive in armonia col prossimo, e che possiede tecniche e invenzioni che sulla superficie sembrano inverosimili.

Ma sulle tracce dell’Alpha c’è lo Squalo Nero, altro sofisticato e micidiale sottomarino, che non appartiene a Latitudine Zero ma alla flotta del famigerato dottor Malic (un Cesar Romero con un sorriso diabolico a 64 denti uguale a quello che usava per fare Joker nel fantastico Batman televisivo), che da oltre un secolo cerca di conquistare il globo, ma che trova in MacKenzie il suo ultimo e insormontabile ostacolo… sì, sì, da oltre un secolo…

Con una trama ingarbugliata come la dichiarazione dei redditi di un neofita, “Latitudine Zero” è un filmaccio trash da non perdere, soprattutto per gli improbabili costumi – quelli di Cotten, come detto, sono i più stonati in assoluto – le scenografie, ma soprattutto per gli effetti speciali artigianali e per questo strepitosi!