“Il treno” di Georges Simenon

(Adelphi, 2013)

Marcel Féron è un uomo mite. I suoi gravi problemi agli occhi lo hanno reso un bambino sempre molto pacato prima e un adulto sempre molto calmo poi. Data la sua salute cagionevole – è stato affetto anche dalla tubercolosi – e la sua vista limitata, a causa della quale Julien ha dovuto portare quasi da subito degli occhiali con delle enormi lenti a “fondo di bottiglia”, è stato sempre convinto di dover passare una vita solitaria.

Ma grazie alla sua passione per la meccanica e per l’elettricità è riuscito ad aprirsi un laboratorio di riparazioni e vendita di apparecchi radiofonici. Ma soprattutto Marcel, contro ogni sua aspettativa, ha creato una famiglia. Si è sposato con Jeanne e da lei ha avuto la piccola Sophie.

Adesso sua moglie è nuovamente incinta, ed è al settimo mese di gravidanza. Tutto sembra procedere nei binari ordinari e pacifici che tanto si addicono a Marcel, ma invece vacilla nel maggio del 1940 quando le truppe della Wehrmacht invadono il Belgio.

La località francese dove vive Marcel, con la sua famiglia, si trova nelle Ardenne ed è proprio al confine col Belgio. Già dall’alba le strade della cittadina si riempiono di numerosi furgoncini o automobili belgi, che fuggono dalle truppe tedesche.

Marcel, in poche ore, decide di partire per proteggere sua moglie e sua figlia. Ma non possedendo alcun mezzo di trasporto, fatta eccezione di un piccolo carretto in legno che usa per riconsegnare le radio ai clienti, è costretto a recarsi nella piccola stazione locale, che è già invasa da decine di persone che come lui vogliono mettersi in salvo.

I volontari e le ausiliare fanno salire, visto il suo stato, Jeanne e la piccola Sophie sul vagone di prima classe, mentre Marcel riesce a trovare un angolo in uno dei vagoni merci in fondo al convoglio.

In pochi instanti i Féron diventano una famiglia di profughi senza più una casa e una vera destinazione, se non un luogo che sia il più lontano possibile dalla guerra. Inizia così un viaggio allucinante, fatto di separazione, di interminabili ore fermi in un binario morto, senza spesso poter neanche scendere.

Col passare del tempo, sul vagone, si crea una micro società con le sue regole e le sue concessioni. E proprio sul vagone Marcel incrocia lo sguardo di Anna, una giovane donna austera e volitiva, e come lui sola…

Ancora un indimenticabile viaggio – è proprio il caso di dirlo – che il maestro Simenon ci fa fare nell’animo di un uomo che tutti, a partire da se stesso, hanno sempre considerato semplice e forse anche mediocre. Ma gli eventi lo porteranno a precipitare negli occhi di una donna enigmatica ma al tempo stesso limpida. Una donna molto particolare, irrisolta e per questo tanto reale, come forse solo il maestro Simenon sapeva tratteggiare.

Scritto nel 1961, questo bel romanzo acquista oggi un sapore ancora più particolare raccontandoci di profughi, viaggi della speranza e treni che portano lontano dalla guerra, argomento funesto tragico e tanto – …troppo – attuale.

Nel 1973 Pierre Granier-Deferre dirige l’adattamento cinematografico dal titolo “Noi due senza domani” con Jean-Louis Trintignant e Romy Schneider.

“In caso di disgrazia” di Georges Simenon

(Adelphi, 2014)

L’avvocato Lucien Gobillot è uno dei più famosi di Parigi. E’ il penalista più noto del foro della capitale francese, e nel corso della sua lunga carriera non ha rinunciato a difendere anche rei moralmente ambigui.

Il suo studio – forse per questo – è uno dei più ambiti, e averlo dalla propria parte è una garanzia molto spesso di successo. Fra i suoi clienti ci sono nomi illustri e aziende internazionali, visto che il suo cognome è conosciuto anche all’estero.

Molto del suo successo Gobillot lo deve a sua moglie Viviane, fra le personalità più rilevanti dei salotti parigini. La donna era la giovane moglie di un altrettanto noto principe del foro, presso il quale lo stesso Gobillot iniziò la sua carriera.

Ma Viviane, con grande stupore dello stesso Gobillot, scelse lui e lasciò l’ansiano avvocato per il suo giovane e assai promettente assistente. Grazie a Viviane e alle sue pubbliche e private relazioni personali, lo studio del nuovo marito in poco tempo prese quota e il nome Gobillot divenne uno dei più citati e ricercati al Palazzo di Giustizia.

Ma la sera dello scorso 6 novembre Lucien Gobillot ha iniziato a scrivere un vero e proprio memoriale che inserisce in un fascicolo, in carta di Lione beige, esattamente uguale a quelli che redige per i suoi casi. Ciò che lo spinge a farlo è il timore, o forse la certezza, che quelle pagine possano diventare utili …in caso di disgrazia.

Circa un anno prima Gobillot ha conosciuto la ventenne Yvette, una giovane prostituta implicata nel furto di alcuni orologi in un negozio, e che proprio da lui è andata per essere difesa. L’avvocato, incuriosito dal carattere e dall’aspetto della giovane, l’ha fatta parlare e al momento delle garanzie per pagare la parcella la giovane, come se fosse la cosa più naturale, gli si è offerta sessualmente.

Gabillot ha declinato l’invito, ma ha lo stesso deciso di diventare il suo legale Pro Bono. Il caso, e soprattutto il difensore, hanno suscitato non poco l’interesse della stampa e degli addetti ai lavori. Solo dopo l’assoluzione Gobillot è diventato l’amante di Yvette.

Il rapporto con la sua ormai ex cliente, per l’avvocato è diventato sempre più possessivo e morboso, soprattutto da quando Yvette gli ha confessato di aver incontrato un giovane, tale Mazetti, intenzionato a sposarla. Per GobiIlot il nuovo amore rischia però di rallentare le frenetiche attività del suo studio, ma la stessa Viviane ne è a conoscenza e lo tollera purché il marito rispetti gli impegni ufficiali che lei programma. Ma…

Finito di scrivere nel 1955 e pubblicato per la prima volta l’anno successivo, questo “In caso di disgrazia” ci parla degli uomini che vogliono trattenere e stringere le donne ma che in realtà alla fine e nel profondo proprio non le comprendono. E forse per questo non riescono ad afferrarne la vera essenza.

Il maestro Simenon, che invece le capiva molto bene, tratteggia superbamente ancora una volta il ritratto di alcune donne indimenticabili e, in un modo o nell’altro, vittime loro malgrado dell’ottusità degli uomini. E non è solo quello della giovane e affamata di vita Yvette, ma anche quello indimenticabile di Viviane, donna matura e razionale.

Un altro viaggio intimo e carnale nel rapporto fra uomini troppi miopi e immaturi e donne troppo libere ed emancipate.

“Il presidente” di Henri Verneuil

(Francia/Italia, 1961)

Ispirata al romanzo “Il presidente” pubblicato dal maestro George Simenon un paio di anni prima, questa pellicola ci offre una rilevante interpretazioni di Jean Gabin che veste il ruolo di uno dei più importanti statisti francesi del Novecento.

Appena giunto a Parigi, il Primo Ministro britannico parte con tanto di scorta e codazzo di giornalisti per La Verdière, una piccola località della Provenza dove risiede Émile Beaufort, notissimo politico transalpino, numerose volte Presidente del Consiglio ma ormai ritiratosi da molti anni, suo storico compagno di lotte politiche internazionali.

La stampa francese, e non solo, si chiede e ipotizza l’argomento dell’incontro riservato fra i due, che però nella realtà è soprattutto una rimpatriata amichevole. Beaufort, partito il suo vecchio amico, torna alla sua routine quotidiana fatta di molte medicine, data la sua età e la sua salute cagionevole, e soprattutto fatta di ricordi politici e personali.

Da tempo, infatti, sta dettando alla sua storica segretaria Mademoiselle Milleran (Renée Faure) la sua autobiografia, attraverso la quale rivive i momenti fatidici della sua carriera, come quando fu tradito dal “fedele” assistente Philippe Chalamont (interpretato da un bravissimo Bernard Blier) o quando decise di ritirarsi “ricattato” da quasi tutto il Parlamento per la sua decisione di aderire al progetto dell’Europa Unita.

Leggendo i giornali, ascoltando la radio e guardando la televisione, Beaufort viene a sapere che per risolvere la grave crisi istituzionale che affligge la Francia, il Presidente della Repubblica ha incaricato proprio Chalamont di fare un Governo di unità nazionale.

Visto che possiede un documento assai compromettente per lo stesso Chalamont, Beaufort sa che il suo ex assistente verrà ad incontrarlo prima di accettare l’incarico datogli dal Presidente della Repubblica. E così, nel suo studio solitario il Presidente – così come ormai tutti chiamano Beaufort – contornato dai suoi ricordi attende un incontro che aspetta da oltre vent’anni. Ma la politica è una cosa dura e spietata…

Discreto film centrato sul tema della politica e dei suoi oscuri e bui corridoi che ci regala un grande Gabin in un ruolo insolito nella sua carriera. Proprio per far aderire al meglio al grande attore francese il personaggio, Verneuil e Michel Audiard – autori della sceneggiatura – si discostano dal personaggio originale creato da Simenon per crearne uno abbastanza differente, sia per l’età – il Beaufort del romanzo ha ottantadue anni mentre quello del film settantadue – che per le dinamiche politiche che lo vedono protagonista.

Il risultato comunque merita di essere visto e apprezzato anche a distanza di oltre sessant’anni. Nella nostra versione deve essere ricordato il grande Emilio Cigoli che doppia superbamente, ancora una volta, Jean Gabin.

Per la chicca: nonostante la produzione – così come lo stesso Simenon fece all’uscita del suo romanzo – dichiarò esplicitamente che Beaufort non era ispirato a nessun politico reale, le cronache contemporanee lo associarono a Georges Clemenceau (1841-1929), fautore dell’alleanza franco-britannica nonché artefice del Trattato di Versailles che mise fine alla Prima Guerra Mondiale, politico che lo stesso Gabin/Beaufort cita all’inizio della pellicola.

“Il presidente” di Georges Simenon

(Adelphi, 2012)

Émile Beaufort è stato uno degli uomini più influenti di Francia e del mondo. Il suo carattere decisionista, volitivo e pratico lo ha reso uno degli statisti più famosi del suo tempo. Alla politica e alla Francia Beaufort ha sacrificato tutto, anche la sua vita privata.

E’ stato sposato, è vero, ma solo per circa tre anni. Ha avuto anche una figlia, ma che non ha mai veramente frequentato e non vede da molto tempo. Beaufort è stato uno dei “Cinque Grandi”, che erano i cinque capi di stato che per molto tempo hanno governato l’intero pianeta. Ma adesso, tranne lui, i “Cinque Grandi” sono tutti morti. Così come sono scomparse moltissime delle persone con cui ha fatto politica per tanti decenni.

Beaufort ormai ha superato gli ottant’anni e vive a “Les Ébergues”, una residenza che ha scelto molti anni prima come luogo di risposo e villeggiatura, e poi messagli a disposizione dal Governo. La villa è a pochi chilometri da un piccolo porto della Normandia dove tutto lo conoscono e lo chiamano: il Presidente.

Ma se Beaufort è stato numerose volte Presidente del Consiglio, non è mai riuscito a diventare Presidente della Repubblica. Il treno per l’Eliseo passa una sola volta nella vita di un politico, anche in quella di uno consumato e scaltro come lui, e quella volta sulla sua strada ci si è messo Chalamont, il suo fedele e storico assistente.

Da quel giorno i due non si parlano più e il giovane intraprese la sua carriera politica indipendentemente dal suo storico mentore che, poco prima di ritirarsi, dichiarò perentoriamente: “Chalamont non sarà mai Presidente del Consiglio finché io sarò in vita …e neanche dopo”.

Il Presidente ormai passa le giornate seduto sulla sua poltrona Luigi Filippo ad osservare il fuoco nel camino che la sua storica segretaria rintuzza con precisione maniacale, assistito dai suoi collaboratori fedelissimi come Emilè, il suo autista che è l’unico a cui lui dà del tu. Nelle sue giornate ci sono anche l’infermiera e il medico che si prendono cura della sua salute ormai divenuta cagionevole dopo un ictus che lo ha colpito poco tempo prima. Inoltre, nel giardino de Les Ébergues si alternano ventiquattro ore al giorno tre poliziotti inviati dal Ministero degli Interni per garantire la sua sicurezza.

Ma davanti al fuoco Beaufort ripercorre la sua vita politica – e non solo – ripercorrendo la sua carriera, le sue vittorie e le sue – poche ma determinanti – sconfitte, soprattutto adesso che tutti i giornali e radiogiornali – che lui ascolta in ogni edizione – parlano della grave crisi di Governo che ha investito il Paese. Perché l’ultima risorsa per il Presidente della Repubblica, l’ultimo politico che sembra poter ottenere la fiducia per un suo Governo dopo che tutti, da settimane, naufragano miseramente, sembra essere proprio Chalamont…

Splendido romanzo intimista del maestro Simenon che ci porta magistralmente – come sempre – nell’animo del suo protagonista e ci racconta la storia personale di un uomo che ha fatto la storia. Finito di scrivere nell’ottobre del 1957 e pubblicato per la prima volta l’anno successivo, questo bellissimo romanzo sembra essere stato appena redatto.

Il genio e l’arte di Simenon ci descrivono meravigliosamente lo sguardo di uomo anziano, che aspetta l’ultimo respiro, ma che al tempo stesso è legato alla vita come forse non lo è mai stato in precedenza. E soprattutto ci parla di una politica dura e spietata che nel corso dei decenni non sembra essere affatto cambiata.

Incredibilmente attuale. Da leggere.

Nel 1961 Henri Verneuil dirige l’adattamento cinematografico “Il presidente” con Jean Gabin nei panni di Beaufort e Bernard Blier in quelli di Chalamont.

“La camera azzurra” di Georges Simenon

(Adelphi, 1963/2008)

Tony Falcone è figlio di un immigrato italiano stabilitosi in Francia per trovare una vita migliore. Cresciuto assieme al fratello minore e senza la madre morta poco dopo l’arrivo oltralpe, Tony ha imparato a lavorare sodo fin da bambino, soprattutto per superare tutti i pregiudizi che la sua “identità” di figlio di immigrati comportavano.

Anche quando si è trattato di metter su famiglia, Tony ha scelto Gisèle, una donna solida e pragmatica come lui, e come lui grande lavoratrice. Anche con la loro unica figlia, Marianne, Giséle è sempre stata una madre presente e amorevole, accettando inoltre con silenzio e rassegnazione i suoi discreti e saltuari flirt, anche perché la solidità della sua famiglia gli ha consentito di avviare una piccola attività di vendita e assistenza di macchine agricole, che lo porta a girare nella regione per buona parte della settimana.

Ma una sera, tornado a casa, sulla sua strada Tony incappa di Andrée Despierre, sua vecchia compagna di scuola, figlia di una aristocratica famiglia del posto decaduta, che ha sposato Nicolas Despierre, anche lui ex compagno di scuola, la cui madre oltre ha possedere la drogheria più importante della zona, è proprietaria di buona parte della regione. Se dall’infanzia Tony ha sempre considerato Andrée una figura altera, distaccata e soprattutto irraggiungibile – nella sua testa sempre paragonata a una statua – quella sera l’uomo realizza che invece la donna è stata sempre innamorata e attratta da lui. Inizia così una relazione estremamente fisica e clandestina, che dopo i primi incontri in luoghi occasionali, si consuma sempre in una stanza dell’albergo che il fratello di Tony gestisce in una delle località vicine, e che riserva loro sempre la stessa camera. Ed è proprio lì, nella camera azzurra, che inizia la scesa agli inferi di un uomo così solido e concreto, ma che fra quelle quattro mura per la prima volta in vita sua diventa passivo, remissivo e forse anche un pò vigliacco…

Scritto dal maestro Simenon nel 1963, questo “La camera azzurra” è forse uno dei suoi romanzi più carnali e viscerali. La caduta di Tony Falcone, che ha sempre basato la sua esistenza sulla lucidità del suo cervello e la forza delle sue braccia, avviene per colpa delle sue viscere, così vicine e legate ai suoi genitali, ma che inaspettatamente sono tanto lontane dalla sua mente. Non a caso il romanzo si apre con la descrizione del sesso di Andrée appena terminato un amplesso, con Tony che lo osserva fiero e soddisfatto.

Ancora un grande e doloroso viaggio nell’animo – …e nel ventre – di un uomo apparentemente tanto comune, firmato dell’inarrivabile maestro belga.  

“I fantasmi del cappellaio” di Georges Simenon

(Adelphi, 1997)

Nella piccola cittadina di Rochelle tutti si conoscono.

E questo non fa altro che aumentare la paura e il terrore per i delitti che dal 13 novembre si consumano nelle ore buie che seguono il tramonto. Le vittime sono tutte donne alla soglia della terza età, che vengono strangolate e poi lasciate a terra nelle vie.

Dal 13 novembre, forse non per caso, piove sempre e ognuno cerca il riparo dall’acqua e dall’umidità. Come il facoltoso cappellaio Labbé che passa la seconda parte del pomeriggio nel Café des Colonnes dove, ogni giorno, si siede accanto ai suoi storici amici che amano bere e giocare a bridge. Il locale è frequentato anche dal giovane giornalista Jeantet che con i suoi articoli sembra essere sempre più vicino a individuare il filo comune fra le vittime. Filo che la Polizia ancora non è riuscita a trovare e che lo stesso assassino sfida scrivendo lettere anonime al giornale dove lavora Jeantet.

Davanti alla storica bottega di Labbé c’è quella più piccola del sarto Kachoudas, emigrante armeno, che insieme alla sua famiglia vive al piano superiore del negozio. Anche il sarto, nonostante le sue modeste finanze, passa una parte del pomeriggio al Café des Colonnes, e parte dalla sua bottega pochi istanti dopo Labbé, che saluta sempre da lontano in maniera timida e discreta.

Un pomeriggio i due entrano a poca distanza del Café e mentre Labbé si siede al tavolo con gli amici, Kachoudas rimane in piedi a osservare la partita in corso. Con la coda dell’occhio il sarto nota un piccolo pezzo di carta nel risvolto dei calzoni del cappellaio e d’istinto si china per raccoglierlo e porgerlo a Labbé. Ma mentre lo osserva si rende conto che è il ritaglio di un giornale contenente una lettera, proprio come quelle che usa l’assassino per comporre le sue missive…

Indimenticabile romanzo giallo noir che il maestro Simenon scrive nel suo periodo americano a Tumacacori-Carmen, in Ariziona, nel 1949. Tratto dal suo racconto “Il piccolo sarto e il cappellaio” del 1947, e dalla successiva versione “Benedetti gli umili” – che vince il premio per il miglior racconto poliziesco indetto dall’Ellery Queen’s Mystery Magazine – questo romanzo ci porta nei meandri di una mente buia e malata, ma al tempo stesso abitudinaria e apparentemente mite. Figlia di una delle famiglie più aristocratiche della cittadina, nessuno si permette neanche di sospettare di lei, solo l’umile e “straniero” Kachoudas la vede per quello che è nella realtà.

Un altro colpo da maestro dell’intramontabile Georges Simenon.

Nel 1982 Claude Chabrol realizza il bellissimo adattamento cinematografico con Michel Serrault nei panni di Labbé e Charles Aznavour in quelli di Kachoudas, pellicola che però al momento è praticamente introvabile.

“Betty” di Claude Chabrol

(Francia, 1992)

Oltre trent’anni dopo la prima pubblicazione dello splendido romanzo del maestro Georges Simenon “Betty“, pubblicato per la prima volta nel 1961, Claude Chabrol realizza il suo affascinante adattamento cinematografico.

Fra i numerosi registi che hanno portato sul grande schermo le opere di Simenon, Chabrol è senza dubbio fra quelli che hanno corde narrative molto simili a quelle dello scrittore. Non è un caso quindi che i suoi due adattamenti, “I fantasmi del cappellaio” del 1982 e “Betty”, siano fra i migliori in assoluto realizzati per il grande schermo dalle opere immortali dello scrittore belga.

Nell’anonimo locale “La Buca” di Versailles viene portata dal suo accompagnatore, la giovane e in evidente stato di ebrezza Betty (Marie Trintignant). L’uomo, un ex medico cocainomane, sembra essere preda d’improvvise nevrosi che vengono contenute da Mario, il proprietario del locale. Betty, sempre più in preda all’alcol, chiede all’uomo ancora da bere, mentre al suo tavolo si siede un’altra avventrice del locale, Laure (Stéphane Audran) per ascoltare la sua storia. Storia che però Betty non riesce a raccontare perché sviene ferendosi ad una mano.

Laure chiede a Mario di portarla nell’albergo dove lei risiede ormai da qualche anno, e la fa sistemare nella camera accanto alla sua. La stessa Laure è stata per molti anni la moglie di un famoso medico e così, dopo aver lavato Betty, le cura la mano e la fa assumere alcuni tranquillanti.

Appena la ragazza si risveglia la sua ospite chiama un medico per visitarla, medico che conferma le cure di Laure e raccomanda assoluto riposi per vari giorni. Così Betty inizia a raccontare alla sua nuova amica la propria storia. Fino a pochi giorni prima era la moglie di uno dei rampolli di una delle famiglie più aristocratiche di Parigi, gli Etamble. Ma il suo carattere e soprattutto la sua sessualità irrisolta l’hanno portata alla “rovina”, costringendola ad abbondare le sue due figlie piccole.

Ma Betty, proprio nel locale “La Buca” ha toccato il suo “fondo”, e adesso non può fare altro che risalire…

Molto fedele al romanzo di Simenon, questo film di Chabrol è davvero uno dei migliori girati negli anni Novanta. Infatti, il regista francese, riesce a farne un’opera a se stante, che si basa sul romanzo di Simenon, ma che al tempo se ne distacca, toccando nuove leve emotive. Lo stesso Chabrol, per esempio, ha affermato che se nel libro originale Simenon, proprio per sottolineare la carnalità della storia, inserisce in continuazione carezze, abbracci e palpate amichevoli, lui li ha volutamente evitati. Perché, da vero artigiano del cinema quale era, sapeva bene che un conto è leggere una cosa, un altro assai differente è vederla. E così il senso di carnalità nel film lo ha ricreato attraverso non solo ai corpi, ai comportamenti e ai dialoghi fra i personaggi, ma anche con i rumori, la colonna sonora e i movimenti della macchina da presa, per non parlare dei continui flashback che ci raccontano frammentata e apparentemente incomprensibile la storia di Betty.

Per la chicca: all’inizio dei flashback ambientati nella austera magione degli Etamble, la suocera di Betty, matriarca della famiglia e volitiva vedova del generale Etamble, parla sdegnosa di un film “indegnamente” scandaloso appena visto al cinema. Si tratta del bellissimo “Un affare di donne” che lo stesso Chabrol diresse nel 1988, film che provocò non poche polemiche negli ambienti più reazionari della società francese.

Purtroppo, guardando questo film, non si può non pensare al vero tragico epilogo della vita dell’attrice Marie Trintignant, figlia del grande attore Jean-Louis Trintignant. Nella notte fra il 26 e 27 luglio del 2003 – mentre era a Vilnius, in Lituania, per girare un film – venne massacrata di botte dal suo “compagno” il cantante Bertrand Cantat, frontman del gruppo Noir Désir. Per le gravi lesioni la donna entrò in coma e morì il 1° agosto dopo due vani interventi chirurgici. Il destino volle, inoltre, che questo infame delitto si consumasse in una stanza d’albergo, ambiente in cui si svolge la maggior parte del film “Betty”.

“Betty” di Georges Simenon

(Adelphi, 2014)

Come sempre il maestro Georges Simenon ci regala il ritratto di una donna particolare, irrisolta e complessa, che molti considerano superficialmente “perduta”.

Pubblicato per la prima volta nel 1961, questo romanzo è uno dei più famosi di Simenon al di fuori del grande Maigret. In un locale nei pressi di Versailles una cliente, seduta al tavolo con un anonimo accompagnatore, stramazza al suolo a causa dell’alcol e della stanchezza.

A prendersi cura di lei sarà un’altra cliente, che la ospiterà nella camera accanto alla sua nell’albergo nel quale dimora. Nel letto dove è costretta dalla grave spossatezza Betty ripercorre, con dolore, tutta la sua vita fino agli ultimi giorni che l’hanno portata a svenire ubriaca.

Solo qualche giorno prima, infatti, era la moglie del rampollo di una delle famiglie aristocratiche più rinomate di Parigi. Ma il suo “vizio” l’ha perduta per sempre. Betty ha un rapporto turbolento con il sesso che l’ha sempre portata a cercare rapporti occasionali, anche con sconosciuti.

Ovviamente questo lato di Betty, che una volta conclamato è stato ferocemente biasimato da tutti, è stato abbondantemente sfruttato dagli uomini che aveva accanto, come il migliore amico di suo marito, nonché fidato avvocato, che per molto tempo ha intrattenuto con lei una relazione meramente sessuale. Così come suo marito, perfettamente a conoscenza della sua grave fragilità, che invece di affrontarla ha preferito “fare finta di niente” già da prima del matrimonio. E come accade, a “perdere” una donna è sempre un uomo, come suo zio che quando era ancora una bambina le causò quel trauma dal quale lei ancora non è uscita.

Betty è quindi una donna abusata e approfittata dagli uomini, che però proprio perché donna sincera, riesce a rialzarsi…

Splendido romanzo intimista e carnale di Simenon, che è fra i miei preferiti in assoluto. Ad oltre sessant’anni dalla sua pubblicazione è ancora così narrativamente potente e struggente.

Da leggere.

Nel 1991 Claude Chabrol realizza la pellicola “Betty” tratta dal romanzo.

“Tre camere a Manhattan” di Georges Simenon

(Adelphi, 2014)

Questo bellissimo romanzo del maestro Simenon viene pubblicato per la prima volta nel 1946 e si lega indissolubilmente alla vita personale del suo autore.

François Combe è un attore francese che ha lasciato la sua patria perché ferito nell’anima dal tradimento della moglie che pubblicamente lo ha “sostituito” con un altro attore più giovane. In America sperava in una carriera ricca e folgorante ma le sue interpretazioni non vanno oltre quelle del classico caratterista francese.

Per tirare avanti il più a lungo possibile con il limitato capitale che possiede vive in un piccolo e misero appartamento a Manhattan dove non c’è neanche il telefono. Tutto ormai sembra portare Combe ad imboccare un triste quanto misero viale del tramonto quando una sera, per non sentire ancora una volta le smanie sessuali dei suoi rumorosi vicini, esce in strada. Nel suo girovagare incappa casualmente in Kay Miller, una donna che come lui sembra non avere più molte scelte. Il loro amore, che all’inizio è esclusivamente materiale, si consuma in tre piccole, ammobiliate e squallide camere a Manhattan. Amore che però, inaspettatamente e non senza dolore, consentirà loro di ricominciare…

Struggente e appassionato, questo romanzo ci racconta un pezzo intimo della vera vita di Simenon che nel 1945 si stabilisce a New York prima di trasferirsi con moglie e figlio in Canada. Lì inizia a lavorare come sua segretaria Denyse Ouimet, che prima diverrà sua amante e poi sua moglie.

Alla prima parte del loro rapporto si ispira quindi “Tre camere a New York”. E come sempre Simenon ci regala lo splendido ritratto di una donna “perduta” (secondo i canoni etici dell’epoca) e irrisolta che però grazie al suo sentimento puro e sincero riesce ad offrire una nuova opportunità a se stessa e al suo amante, indiscutibilmente molto più fragile e insicuro di lei.

Simenon è sempre Simenon…

Nel 1965 Marcel Carné dirige l’adattamento cinematografico “Tre camere a Manhattan” con protagonisti Maurice Ronet e Annie Girardot, che per la sua interpretazione di Kay vince la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia.

“Le Chat – L’implacabile uomo di Saint Germain” di Pierre Garnier-Deferre

(Francia/Italia, 1971)

Quattro anni dopo l’uscita del libro “Il gatto” di Georges Simenon, il cineasta Pierre Granier-Deferre realizza il suo adattamento cinematografico. La sceneggiatura la scrive insieme a Pascal Jardin, e non sono pochi i cambiamenti che i due decidono di fare rispetto alla trama del romanzo.

A partire dai nomi dei due protagonisti che non sono più Emile e Marguerite, ma Julien Buoin (un grande Jean Gabin) e Clémence (un’altrettanto grandissima Simone Signoret). Sono una coppia non più in seconde nozze (come nel romazo), ma in prime. Julien è un tipografo in pensione, mentre Clémence un artista di circo rimasta claudicante a causa di una caduta durante uno spettacolo.

I due non si parlano più, da quando Marguarite ha ucciso il gatto del marito. Anche se condividono la vecchia casa in affitto che abitano dal giorno delle loro nozze, comunicano solo attraverso dei sintetici e taglienti bigliettini.

Il quartiere dove abitano è diventato un cantiere a cielo aperto, dove numerose imprese edili stanno costruendo enormi palazzi “dormitorio” per la nuova Parigi. Ma su tutto, come nel libro del maestro Simeon, aleggia l’ombra della morte…

Gabin, dopo le pellicole dedicate al commissario Maigret, torna a vestire i panni di un personaggio creato dallo scrittore belga. E, come sempre, lo fa da grande attore. Lo stesso si può dire della Signoret che incarna in maniera sublime una donna ormai “sfiorita” che non riesce a più a comprendere il suo compagno di vita.

Un film triste, duro e nostalgico che vale la pena di vedere anche solo per i suoi due grandi protagonisti.