“Le tentazioni del dottor Antonio” di Federico Fellini

(Italia, 1962)

Cesare Zavattini propone a Carlo Ponti un film ad episodi diretti dai quattro fra i più importanti registi italiani di allora: Mario Monicelli, Federico Fellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica, rispettivamente con “Renzo e Luciana“, “Le tentazioni del dottor Antonio”, “Il lavoro” e “La riffa“.

Federico Fellini sceglie di raccontare la parte più bigotta e ipocrita della società italiana del tempo che, con feroce violenza, si era scagliata solo qualche anno prima contro di lui ed i suoi film “La dolce vita” prima e “8 e 1/2” poi.

Il nostro Paese, da ormai quasi due decenni è guidato politicamente dalla Democrazia Cristiana che è per molti un punto di riferimento culturale e sociale, oltre che incarnare gli ideali cattolici della Chiesa Romana che in quegli anni ha un’ingerenza pesante nel nostro quotidiano.

E così all’uscita, ma soprattutto al clamoroso successo internazionale de “La dolce vita”, i più integerrimi benpensanti italici, convinti di essere gli unici detentori della “morale” e del “decente”, si scagliarono ferocemente, fregiandosi dello scudo crociato, contro il regista gli autori e gli attori. Oggi, fortunatamente, può far sorridere tale circostanza, ma in quegli anni essere “scomunicato” dal Vaticano aveva comunque le sue ripercussioni anche nella vita quotidiana.

Per esempio, più o meno nello stesso periodo, la grande Mina veniva insultata da alcuni passanti in strada, mentre faceva la spesa, solo perché aveva avuto l’ardire e la spudoratezza di fare un figlio con un uomo sposato e non vergognarsi pubblicamente…

Così Fellini, assieme ai suoi autori preferiti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, incarnano tutti questi tipici atteggiamenti italioti perbenisti ed ipocriti nell’integerrimo dottor Antonio Mazzuolo (un bravissimo Peppino De Filippo) custode e tutore dell’ordine morale, tanto da non avere scrupoli nello schiaffeggiare una sconosciuta in un bar solo perché questa indossava un abito leggermente scollato.

E proprio davanti alla finestra di casa Mazzuolo viene affisso un enorme cartellone pubblicitario con la bellissima e prosperosa Anita Ekberg che in uno abito da sera scollato, sdraiata, pubblicizza il latte.

Il dottor Antonio, turbato e scandalizzato cerca in ogni modo di farlo coprire, anche rivolgendosi ai politici di riferimento, ma la sua rabbia nasconde in realtà una morbosa e indicibile voglia di possedere quel corpo così procace e sessuale, voglia che alla fine riesce a dare vita al manifesto…

Per comprendere al meglio la nostra società di allora basta ricordare anche l’episodio dello schiaffo accadde veramente ai danni di una signora straniera che si era, da sola, seduta in un bar del centro di Roma per prendere un caffè e che venne aggredita e colpita da un giovane puritano Oscar Luigi Scalfaro – che poi diventerà Presidente della Repubblica – cosa che oggi, giustamente, sarebbe impensabile senza dure e implacabili conseguenze.

Fortunatamente non tutta l’Italia, allora, era così e ci furono molte parole pubbliche di biasimo che ebbero il loro culmine nel guanto di sfida che lanciò realmente il grande Antonio De Curtis in arte Totò, sfidando ufficialmente a duello Scalfaro per difendere l’onore della povera e innocente malcapitata. Duello che però, fortunatamente per tutti, non ebbe luogo.

Tornando all’episodio diretto da Fellini, che ha praticamente la durata di un film breve, colpisce ancora oggi la sua satira e la sua ironia verso una parte del nostro Paese che è dura a morire e che spesso, per mere ragioni elettorali, alcuni politici fomentano.

“Renzo e Luciana” di Mario Monicelli

(Italia, 1962)

Il film “Boccaccio ’70” prodotto da Carlo Ponti nasce da un’idea di Cesare Zavattini, che prevedeva quattro differenti episodi: “Il lavoro” diretto da Luchino Visconti, “La riffa” diretto da Vittorio De Sica, “Le tentazioni del dottor Antonio” diretto da Federico Fellini e “Renzo e Luciana” diretto da Mario Monicelli.

Al Festival di Cannes, dove il film sarebbe stato presentato in anteprima mondiale fuori concorso, Ponti decise di tagliare il segmento di Monicelli perché la pellicola risultava troppo lunga e non commerciabile all’estero secondo gli standard cinematografici di allora. In realtà, secondo le cronache e le testimonianze dell’epoca, fra cui quella dello stesso Monicelli, il suo episodio era quello più graffiante e al tempo stesso malinconico, con un cast sconosciuto – per questo poco vendibile all’estero – e una critica dura alla nostra società tanto ingenuamente ancora incantata dal Boom economico.

Così lo stesso regista si rivolse ad un magistrato francese che obbligò il Festival a proiettare la pellicola nella sua versione integrale, così come era stata presentata. Poche ore prima della proiezione però, Ponti riuscì ad impugnare la vertenza, con l’appoggio dell’organizzazione del Festival, e il film venne presentato senza “Renzo e Luciana”.

La cosa provocò non poche proteste, tanto che altri registi presenti a Cannes con un loro film, per solidarietà a Monicelli, non parteciparono alla kermesse e non rilasciarono interviste come Michelangelo Antonioni con il suo “La notte” e Pietro Germi con “Divorzio all’italiana”. A pensare oggi a quel 1962, con la situazione del nostro cinema contemporaneo …vengono le coliche.

Sulla scia delle polemiche, che alla fine fecero un’enorme pubblicità, nelle nostre sale il film arrivò con tutti e quattro gli episodi, e si apre proprio con “Renzo e Luciana” scritto dalla grande Suso Cecchi D’Amico, Italo Calvino, Gianni Arpino e lo stesso Monicelli.

Luciana (Marisa Solinas) e Renzo (Germano Gilioli) lavorano in una grande ditta a Milano. Lei è una addetta alla computisteria mentre lui è un magazziniere. Nella loro azienda però è vietato sposarsi fra colleghi e, per una donna, rimanere incinta: pena il licenziamento immediato.

Così i due nascondono a tutti i loro amore e, soprattutto, il loro matrimonio “clandestino” avvenuto nella pausa pranzo di un giorno feriale, nella baracca che ospita provvisoriamente la parrocchia del loro quartiere cantiere che si sta espandendo in maniera esponenziale.

Luciana ha fatto tutti i calcoli al centesimo e così, anche prima del matrimonio, i due sono riusciti a comprare, dopo aver firmato una montagna di cambiali, i mobili e gli elettrodomestici per il loro nido d’amore. Ma senza una base economica non si possono permettere ancora un appartamento.

La volitiva Luciana è riuscita, comunque, a convincere i suoi genitori a cedere loro la camera da letto, ma a partire proprio dalla prima notte di nozze la convivenza sembra molto difficile. Un forte ritardo fa temere a Luciana di essere incinta, e a complicare definitivamente le cose ci si mette il Ragioniere capo di Luciana – un prepotente arrogante ed antipatico Don Rodrigo dal colletto bianco – che, convinto che lei sia ancora nubile e senza fidanzato, inizia a farle insistentemente la corte.

I due, così, dovranno scegliere fra la loro dignità o un lavoro ben retribuito…

Tratto dal racconto “L’avventura di due sposi” scritto da Calvino nel 1958 e che appartiene alla prima parte de “Gli amori difficili”, questo “Renzo e Luciana” richiama, con ironia, l’opera massima di Alessandro Manzoni. Ma se “I promessi sposi” si chiude con il coronamento del sogno d’amore di Renzo e Lucia che ottimisti guardano al loro futuro, i loro successori Renzo e Luciana vengono fagocitati dal Boom.

Il profitto e il capitalismo spinto all’eccesso, rendono loro delle “semplici” forza lavoro ad uso e consumo di chi ha in mano i cordoni della borsa del nostro Paese. E così per loro l’importante non è più vivere il loro sogno d’amore, ma arrivare a fine mese, senza poter pensare ad altro.

Sono passati oltre sessant’anni dalla realizzazione di questa pellicola, e in questo lasso di tempo nel nostro Paese sono accadute molte cose. Ci sono state rivoluzioni ma nulla è cambiato, e forse le cose sono pure peggiorate, è crollato il Muro di Berlino, è cambiato drasticamente il panorama politico e si sono succeduti Governi di colori differenti.

Ma nell’ultimo periodo la maggior parte delle famiglie italiane, soprattutto negli ultimi due anni, ha lavorato soprattutto per pagare le utenze arrivando in bilico a fine mese. E pure siamo uno degli 8 paesi più industrializzati del Pianeta. E allora come è possibile?

Forse perché alla fine la famigerata “lotta di classe” l’hanno vinta i “ricchi”, molti dei quali protestavano ferocemente in strada nel ’68. E quello che rende immortale questo episodio è proprio la sua incredibile lungimiranza, anche prima della “contestazione” e dell’inizio “ufficiale” della lotta di classe, Cecchi D’Amico, Calvino, Arpino e lo stesso Monicelli lo avevano lucidamente intuito. Forse per questo venne così osteggiato alla sua presentazione.

A fare da sfondo a questa storia così tristemente attuale, c’è una Milano in piena espansione, un grande cantiere a cielo aperto pieno di sogni e pronto ad accogliere chi è convinto di trovare nella città meneghina un futuro migliore.

Non è un caso, quindi, se Monicelli inserisce nella colonna sonora del film “La ballata del Cerutti” interpretata da Giorgio Gaber e scritta da questo assieme a Umberto Simonetta, che è una delle canzoni simbolo di quegli anni, anni in cui Milano si trasforma, senza controllo, in una metropoli con i suoi lati positivi e purtroppo negativi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Totò” di Franca Faldini e Goffredo Fofi

(Tullio Pironti Editore, 1987)

La prima edizione di questo libro, dal titolo “Totò: l’uomo e la maschera”, è uscita nel 1977 in occasione del decimo anniversario della scomparsa del grande attore. Per il ventennale viene ampliato con articoli di grandi artisti italiani che con lo stesso Totò lavorarono.

Il volume si apre col racconto dei quindici anni passati assieme ad Antonio De Curtis di Franca Faldini, sua ultima compagna di vita. Fra i due c’erano circa 33 anni di differenza e soprattutto nessun vincolo legale tra loro, cosa che alla lunga, soprattutto quando la Faldini era rimasta incinta, scandalizzò l’opinione pubblica del Belpaese.

Così la coppia fu “costretta” a raccontare alla stampa che la loro unione era stata sancita all’estero, cosa – assolutamente non vera – che fece tornare nelle grazie della morale italica i due. Purtroppo il loro figlio Massenzio visse solo poche ore, senza lasciare al principe De Curtis un erede maschio, ma solo la tanto amata figlia femmina Liliana nata dal suo precedente matrimonio.

Ma la Faldini ci racconta soprattutto dell’anima di Totò, e di come “il principe della risata” riuscisse a convivere con “Totò”, figlio della strada e della fame atavica degli ultimi, solo grazie al quale poteva permettersi una vita assai agiata e di lusso.

Il libro prosegue con alcuni articoli a firma dello stesso Fofi incentrati sulla “riscoperta” dell’attore da parte delle nuove generazioni, articoli che oggi appaiono ormai alquanto datati. Ci sono poi alcuni scritti e ricordi dello stesso De Curtis sulla sua arte e sulla sua carriera, seguiti da testi delle sue macchiette e gag più famose, fra cui la nascita della frase: “Siamo uomini o caporali?”.

Infine, preziosissimi, sono presenti articoli a firma di grandi autori e registi italiani del Novecento dedicati al “principe della risata”. Le firme sono quelle, tanto per citarne alcune, di Age, Scarpelli, Mario Mattoli, Sergio Corbucci, Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Cesare Zavattini o Pier Paolo Pasolini.

Fondamentali sono quelli di Dario Fo e Federico Fellini. Il primo descrive e commenta l’arte geniale di Totò, arte che ha segnato indelebilmente il nostro spettacolo in tutti i sensi, e lo fa nel 1977 quando solo i “giovani” iniziavano ad accorgersi di Totò. La critica ufficiale lo considerava ancora un semplice e banale giullare (cosa che la dice lunga sull’acume di alcuni nostri critici).

Il secondo ricorda invece gli incontri avuti dal grande regista riminese con Totò, il primo dei quali avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale quando Fellini era un semplice “vice” di un piccolissimo giornalino dedicato al mondo dello spettacolo. Proprio per quel piccolo foglio Fellini intervistò Totò – allora già famosissimo – che lo prese subito in simpatia e gli fece assistere gratis allo spettacolo. Molti anni dopo, quando ormai Fellini era stato universalmente riconosciuto quale maestro del cinema, i due si rincontrarono e Totò, ormai completamente cieco, lo salutò dicendogli “…ormai sei diventato un registone!”.

Non a caso, la premessa che la stessa Faldini fa all’inizio del suo racconto si chiude con la frase: “Antonio De Curtis, in arte Totò, era un uomo umano”.

Da leggere …a prescindere!

“Roma” di Federico Fellini

(Italia/Francia, 1972)

A circa trent’anni dal suo effettivo arrivo nella Città Eterna, Federico Fellini decide di raccontarlo nel film che dedica alla metropoli che è ormai diventata la sua terra d’adozione.

Così riprendiamo idealmente la fine de “I vitelloni” in cui Moraldo/Federico sale sul treno lasciando Rimini per cercare fortuna e, soprattutto, se stesso. L’impatto con la capitale dell’Impero – siamo nel 1939 e l’ombra dell’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale si staglia all’orizzonte – già sul marciapiede della stazione è travolgente. Il giovane riminese osserva la flora e l’incredibile fauna che segneranno in maniera indelebile la sua esistenza privata e creativa. Così come l’arrivo nell’edificio che ospita la sua pensione sita in via Albenga, edificio che Fellini fece ricostruire interamente nel suo studio preferito di Cinecittà.

A fare gli onori di casa e a introdurre il giovane Federico nella sua nuova città ci sono le donne, e non solo quelle romane: ma tutte quelle che a Roma – come lui stesso – hanno scelto o dovuto vivere, loro malgrado. Come la sua enorme padrona di casa immobilizzata a letto, la cameriera tuttofare della pensione, la pensionante accanto alla quale mangia in trattoria, le “ragazze” che lavorano nelle terribili case di tolleranza, o la principessa decaduta che ormai vive solo di ricordi.

Fellini così ci sottolinea che Roma è donna: amata ma al tempo stesso usata, abusata e sfruttata dagli uomini. Ma che nonostante ciò sopravvive, soddisfa e “allatta” tutti, anche gli uomini che in quel momento sono impegnati ed eccitati nei loro giochi sanguinari di guerra. L’incarnazione della Città Eterna, è infatti per il geniale cineasta riminese, una prostituta di mezza età, matrona dalle grandi forme, col trucco pesante e dallo sguardo rassegnato ma attento, che scende nel cuore della notte dall’ennesima automobile sulla passeggiata archeologica. Volto su cui il regista basa la locandina del film.

E la voce a Roma la dà l’immensa Anna Magnani – che Fellini conosce personalmente dai tempi di “Roma Città Aperta”, e che purtroppo è alla sua ultima apparizione cinematografica – che alle domande fuori campo dello stesso regista sull’essenza della città risponde laconica e sorridendo: “a Federì và a dormì: …nun me fido”.

Capolavoro assoluto della cinematografia, dove le immagini hanno la prevalenza sui dialoghi, con delle scene ancora oggi – a distanza di cinquant’anni – potenti e struggenti. Scritto dallo stesso Fellini assieme a Bernandino Zapponi, questo film è ancora un ritratto affascinante e al tempo stesso attuale della città che da millenni muore e rinasce sdraiata sui sette colli. L’omaggio dichiarato di Paolo Sorrentino nel suo “La grande bellezza” ne è l’ennesima dimostrazione.

Di diritto nella storia del cinema il segmento dedicato al teatrino della Barafonda che coglie, come poche altre pellicole hanno saputo fare, l’anima sorniona e cruda non solo dei romani, ma di tutti gli italiani.

Da vedere, naturalmente.

“Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata” di Bob Fosse

(USA, 1969)

Il nostro grande cinema ha fatto scuola in tutto il mondo, e spesso è stato apprezzato prima e molto più all’estero, dove ne è stato coltivato il rispetto in maniera più duratura rispetto a quello del suo Paese natale.

E’ il caso del capolavoro mondiale del maestro Federico Fellini “Le notti di Cabiria” (scritto assieme a Ennio Flaiano e Tullio Pinelli), che nel 1957 vince l’Oscar come miglior film straniero, che un altro genio assoluto del Novecento come Bob Fosse decide di portare sul palcoscenico facendolo diventare un musical.

Fellini aveva anticipato, in anni impensabili, la dignità e il rispetto verso l’anima pura di una donna che per la società di allora proprio non ne poteva avere: una “battona” delle borgate. E Fosse, con la collaborazione al testo di un terzo genio quale Neil Simon, porta sul palcoscenico un musical che sbanca ai botteghini.

Sono gli anni Sessanta e il ruolo della donna comincia ad essere al centro delle lotte sociali. Cosi Cabiria, che è diventata Charity Hope Valentine, diventa il simbolo sul palcoscenico dell’emancipazione della donna, da troppo succube dell’arroganza, del potere e delle debolezze dell’uomo.

Hollywood decide di portare sul grande schermo il musical dove a vestire i panni della protagonista è una bravissima Shriley MacLaine. La regia e le coreografie rimangono nelle mani del mago Fosse che crea una pietra miliare del cinema. Per capire la grandezza assoluta di Bob Fosse come coreografo basta riguardare le scene di ballo più famose, che ancora oggi lasciano di stucco.

Da ricordare anche la partecipazione del grande Sammy Davis Jr. nel ruolo secondario di Big Daddy Brubeck.

Per la chicca: in un ruolo ancora più marginale, ma con il nome nei titoli di testa, c’è una eterea e fascinosa Barbara Bouchet che pochi anni dopo, nel nostro Paese sarebbe divenuta un’icona sexy – e forse non tanto dell’emancipazione femminile … – con film come “Donne sopra, femmine sotto”, “Racconti proibiti… di niente vestiti” o “Una cavalla tutta nuda”.

25 anni dalla morte di Aldo Fabrizi

Il 2 aprile del 1990 scompariva Aldo Fabrizi a Roma, nella stessa città dove era nato nel 1905.

La grande vena artistica di Fabrizi esplose in giovanissima età, ma l’indigenza della sua famiglia lo costrinse ad adattarsi a fare tutti i lavori più umili per mantenere madre e sorelle.

Il primo riconoscimento del suo genio arriva nel 1928 con la pubblicazione di “Lucciche ar sole”, una raccolta di poesie in dialetto romano.

Qualche anno dopo arriva anche l’esordio sul palcoscenico come macchiettista, sul quale era salito per la prima volta per recitare le proprie opere. Le sue enormi capacità istrioniche e il grande senso del comico lo portano quasi subito ad avere successo.

Nel 1942 esordisce al cinema con “Avanti c’è posto” di Mario Bonnard con il quale collabora anche alla sceneggiatura, così come accadrà per quasi tutti i film in cui reciterà negli anni successivi.

Come quando nel 1945 interpreta don Pappagallo in “Roma Città Aperta” di Roberto Rossellini, al quale impone il suo giovane e semi sconosciuto battutista Federico Fellini, come coautore alla sceneggiatura.

Nel 1948 arriva un nuovo esordio: dietro la macchina da presa con “Emigrantes”, girato in occasione di una turné teatrale nel sud America.

Da attore simbolo del Neorealismo, col passare degli anni, Aldo Fabrizi comincia a diventare un emblema della grande commedia all’Italiana.

I titoli sono numerosi, ma fra i più amati e rappresentativi non si possono non ricordare “La famiglia Passaguai” (da lui stesso diretto nel 1951), “Guardie e ladri” (1951) di Mario Monicelli, “Hanno rubato un tram” (sempre da lui diretto nel 1954), “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) di Mauro Bolognini, e “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” (1960) di Mario Mattoli.

Nel 1974 partecipa a quello che, oltre a essere un capolavoro della cinematografia mondiale, è considerato il canto del cigno della grande Commedia all’Italiana: “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola.

Parallelamente alla carriera cinematografica, Fabrizi prosegue quella teatrale nella quale spicca il suo Mastro Titta nel pluripremiato “Rugantino” di Garinei e Giovannini del 1962.

Ma Fabrizi è anche fra i pionieri della sua generazione in televisione, dove partecipa a trasmissioni di sempre maggior successo fino ai suoi mitici sketch nel varietà del sabato sera “Speciale per noi” (1969) di Antonello Falqui.

A un quarto di secolo dalla sua scomparsa, Aldo Fabrizi merita di essere ricordato come uno dei grandi artisti italiani del Novecento, e non solo come straordinario attore comico.

I volumi da lui pubblicati, molti dei quali dedicati alla gastronomia, ci testimoniano la grande versatilità del suo genio. Chi lo ha frequentato personalmente (fu grande e intimo amico dell’immenso Totò) lo ha sempre ricordato come un uomo dal carattere duro ed estremamente esigente, a volte persino arrogante.

Proprio questa sua indole difficile, e soprattutto la sua dichiarata simpatia verso l’allora destra nostalgica italiana (partecipò in prima fila all’esequie di Giorgio Almirante) contribuirono a oscurare la sua arte negli anni successivi alla morte.

Lungi da me entrare nel merito di una discussione politica, visto che poi non l’ho mai pensata come Fabrizi, ma è un dato di fatto che una certa cultura “fighetta” e radical chic degli anni Novanta lo ha indiscutibilmente gettato nel dimenticatoio per le sue idee politiche.

Allora semmai dovremmo aprire un dibattito su come e se le idee politiche e i comportamenti personali di un artista (che come Fabrizi seppe anche farsi gioco degli aspetti più risibili di quel mondo a cui poi era politicamente legato come in “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” e “Gerarchi si muore”) debbano essere considerati rispetto alla sua arte: ma entreremmo in un ambito davvero difficile da circoscrivere che io, sinceramente, proprio non ho voglia di affrontare qui.

Quello che so è che ogni volta che c’è un film o uno sketch con Fabrizi (lo sciatore o lo scolaro su tutti), anche se lo conosco a memoria, lo rivedo sempre sghignazzando di gusto.

“L’altra parte” di Alfred Kubin

(Adelphi, 2001)

Questo romanzo, scritto nel 1908, è uno dei più fantastici ed enigmatici che abbia mai letto.

Alfred Kubin (1877-1959) disegnatore, illustratore e ovviamente anche scrittore austriaco, firma un racconto onirico e fantastico che segnerà il Novecento.

Leggendolo sono evidenti spunti e visioni che verranno poi sviluppati straordinariamente da geni come Franz Kafka, Gustav Meyrink (autore de “Il Golem”) e tutto il movimento Surrealista, e vi si trovano allo stesso tempo atmosfere e riferimenti a Edgar Allan Poe, autore che lo stesso Kubin aveva più volte illustrato.

La trama è apparentemente semplice: un illustratore viene invitato da Patera, un suo vecchio compagno di scuola, a trasferirsi nel misterioso Stato del Sogno, sconosciuto e invisibile ai profani.

Patera ha fatto fortuna e col suo immenso patrimonio ha fondato uno stato nel cuore oscuro dell’Asia, in cui si può accedere solo per invito. L’uomo, assieme alla moglie, accetta l’invito ma la vita nel nuovo e sconosciuto Paese gli riserverà inquietanti e terrificanti sorprese.

Visionario come pochi, “L’altra parte” è per chi ama viaggiare nel mare abissale della fantasia, senza paura di annegare.

Altro grande motivo per leggere questo libro sta nel fatto che vi sono, evidentissime e incantevoli, tante attinenze fra le visioni oniriche di Kubin e quelle del grande Federico Fellini, noto lettore dell’Adelphi.

Per la chicca: nel 1973 è uscito, nell’allora Germania Ovest, “Traumstadt” diretto da Johannes Schaaf e ispirato al libro di Kubin, ma del tutto introvabile visto che non è uscito nel nostro Paese.

“Che strano chiamarsi Federico” di Ettore Scola

(Italia, 2013)

Il grande Ettore Scola firma un imperdibile e intimo ritratto di quello che è stato uno dei più grandi autori cinematografici del Novecento, nonché suo amico, Federico Fellini.

I rispettivi nipoti dei due grandi registi impersonano i giovani cineasti che si conobbero nella redazione della rivista “Marc’Aurelio”, a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, fucina dei più grandi autori comici e satirici italiani dell’epoca come Ruggero Maccari, Marcello Marchesi, Stefano Vanzina, Vittorio Metz, Age e Furio Scarpelli, tanto per dirne alcuni.

Il film ripercorrere la loro amicizia fatta anche di notti passate in automobile nel ventre di Roma oltre che dietro la macchina da presa.

Il tutto ricostruito nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, luogo nel quale Fellini giro’ quasi tutti i suoi film, costruendo set indimenticabili, e dove infine gli venne allestita la camera ardente.

Ma bando alla commozione, Fellini – e questo lo raccontano tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo – non era affatto un “bravo ragazzo”: per lui la bugia era arte.

E così Scola lo ricorda come un anziano Pinocchio sempre in fuga dai Carabinieri…

Da vedere.

Federico Fellini

A vent’anni dalla morte del grande Federico Fellini è ancora viva e fertile la sua eredità.

Al cinema, come molti della mia generazione, in realtà ne ho viste poche di opere felliniane: “E la nave va” (1983) con la mia scuola media, “Ginger e Fred”(1986), ”Intervista”(1987) e “La voce della Luna”(1990).

Il resto della sua cinematografia  – tranne poi in qualche rara retrospettiva in pellicola – solo attraverso il piccolo schermo.

E nonostante questo, film come “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “La dolce vita”, il grande “8 e ½” e “Amarcord” mi hanno stregato e affascinato.

Del suo genio, soprattutto oggi, tutti ne parlano sviscerandone ogni piccolo elemento ma, oltre a queste cose, io vorrei semplicemente ricordare la grande ironia che impregna ogni sua opera. Non è un caso che fosse nato come autore di battute e gag, fra gli altri di Aldo Fabrizi, lavoro per il quale incontrerà Sergio Amidei, Roberto Rossellini e Anna Magnani sul set di “Roma Città Aperta”.

Film per il quale firma due scene memorabili: l’imbarazzo di don Pietro (interpretato da Fabrizi) davanti alla statua di una ninfa nuda e la fantastica battuta: “ammappelà Don Piè che padellata che j’avete dato!” che poco dopo dice un ragazzino alla stesso don Pietro.

Di battute e sketch esilaranti sono pieni tutti i suoi film, ma io ne preferisco due su tutte: la ricostruzione di una sera all’avanspettacolo durante la Seconda Guerra Mondiale in “Roma”, e i due pittori sospesi sulla grande scenografia in “Intervista”.

Un ultima cosa: leggendo di come Fellini fosse stato e sia tutt’ora un monumento alla cultura italiana, l’emblema di come il genio italico possa essere amato e preso ad esempio nel mondo mi chiedo – oggi come vent’anni fa – ma perché allora aveva tutti quei problemi per trovare produttori disposti a finanziargli un film?

Mi ricordo bene, infatti, che alla fine degli anni Ottanta, fra gli addetti ai lavori, ci si lamentava di questo. E’ vero, il cinema italiano a causa della televisione era economicamente – e non solo! – in crisi.

Ma era davvero così complicato e rischioso produrre un film che certamente poi si sarebbe stato venduto in tutto il mondo? I più maligni imputavano la cosa non tanto a ragioni di distribuzione, ma a una specie di ripicca nata dal film “Ginger & Fred”.

Nel film una vecchia coppia di ballerini viene richiamata sulla ribalta per partecipare a uno show revival presso una televisione privata, il cui proprietario è uno strano commendatore che vanta di avere un passato artistico di nome Lombardoni …ma certamente si tratta di cattiverie, solo cattiverie!

“Amarcord” di Federico Fellini

(Italia/Francia, 1973)

Federico Fellini lo ha sempre detto: la musica nella vita, come nel cinema, ha un ruolo fondamentale.

Il riferimento al suo grande amico e collaboratore Nino Rota è fin troppo palese. Infatti, non si può pensare a questo capolavoro di Fellini senza pensare alla musica scritta da Rota.

I ricordi giovanili di Fellini, scritti assieme a Tonino Guerra – la piccola e grande Rimini del Ventennio, l’arrivo dell’adolescenza e le infinite dinamiche familiari – si mischiano splendidamente con le note di Rota, tanto da diventare tutt’uno nel nostro immaginario.

Con alcune delle scene più belle della storia del cinema, come quella con zio Teo (interpretato da un bravissimo Ciccio Ingrassia) che sale su albero gridando “Voglio una donna!” o il passaggio del mitico transatlantico “Rex”, “Amarcord” è davvero un capolavoro assoluto e fa parte indiscutibilmente del patrimonio dell’umanità.

Non mi stanco mai di rivedere il racconto di un mondo che è scomparso decenni prima che io nascessi, ma che rimane sempre così attuale.