“Prendimi l’anima” di Roberto Faenza

(Italia/Francia/UK, 2003)

La storia di Sabina Nikolaevna Špil’rejn, il cui nome poi è stato translitterato in Sabina Spielrein, e soprattutto il suo ruolo nello sviluppo della psicoanalisi e negli studi di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung sono stati riconosciuti solo da pochi decenni. E Roberto Faenza ce li racconta, scrivendo e dirigendo questo bellissimo film, ispirato agli eventi reali che hanno caratterizzato la vita della donna e di coloro i quali con lei si sono confrontati, come Jung.

Nell’estate del 1904 la diciannovenne Sabina (interpretata da una bravissima Emilia Fox) viene ricoverata nell’ospedale di Burghölzli, nei pressi di Zurigo, perché affetta da una grave forma di isteria (ovviamente con isteria allora si intendeva tutto, e niente). Nell’istituto lavora il giovane Carl Gustav Jung (Iain Glen) – pupillo di Freud e come lui pioniere della psicoanalisi – che prende in cura la ragazza abbandonando i metodi classici, come docce ghiacciate camicie di forza o bavagli, e sostituendoli con dei “semplici” scambi di parole.

Dopo le prime difficoltà la terapia funziona e Sabina guarisce dalla sua “isteria”, che era legata alla sua sensibilità particolare, ai traumi della sua infanzia dettati da un padre molto duro, e dalla morte della piccola sorella minore. Entusiasta della cura, Sabina si iscrive a Medicina e contemporaneamente inizia una relazione sentimentale con Jung, del quale si è profondamente innamorata. Ma lo psichiatra è sposato, e nell’austera società svizzera dei primi del Novecento uno scandalo del genere potrebbe rovinargli la carriera.

L’uomo così propone alla donna di diventare ufficialmente amica della moglie e sedare le voci del loro tradimento. Ma Sabina è una donna libera e preferisce allontanarsi. Terminati gli studi si trasferisce a Vienna e diventa membro della Società Psicoanalitica (dove conoscerà lo stesso Freud).

La Russia, dove lei è nata, è diventata l’Unione Sovietica e Lenin sta facendo le nuove riforme per forgiare una nuova nazione. Con questo sogno Sabina, che intanto si è sposata, torna nel suo Paese natale e a Mosca fonda, diventandone anche direttrice, l’Asilo Bianco: il primo in assoluto in cui i bambini vengono educati ad essere, secondo le nuove dottrine, persone libere.

Fra i piccoli alunni c’è sotto falso nome Vasilij, uno dei figli di Stalin. Lo stesso Stalin però, una volta preso il potere assoluto, fa sciogliere la Società Psicoanalitica del Paese ritenendola una disciplina indegna della Medicina. L’Asilo Bianco chiude e Sabina, con la sua famiglia, sopravvive facendo il medico scolastico, ritirandosi poi a Rostov sul Don, sua città natale.

Nell’estate del 1942, poco prima che riesca ad abbandonare la città occupata dai tedeschi, in quanto ebrea Sabina viene arrestata e portata nella sinagoga della città. Lì, assieme alla giovane figlia e al resto della comunità israelitica della cittadina, viene fucilata.      

Ancora oggi la sua impronta nella psicoanalisi è molto forte, venendo continuamente studiata e sviluppata. La sua storia è venuta alla luce solo nel 1980 quando Aldo Carotenuto ha pubblicato il libro “Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud”, fonte di ispirazione del film di Faenza e di molti altri, come “A Dangerous Method” diretto da David Cronenberg nel 2011.   

Al di là della indiscutibile valenza scientifica delle teorie e degli studi della Spielrein, la domanda che sorge spontanea è un altra: ma quante e quali altre donne hanno determinato e influenzato le arti e le scienze nel corso dei secoli e, solo perché donne, sono rimaste sconosciute o dimenticate?