“4 mosche di velluto grigio” di Dario Argento

(Italia/Francia, 1971)

Sul maestro Dario Argento è stato detto e scritto molto, e io che non amo affatto gli horror o gli splatter, soprattutto nelle sue prime cinque pellicole, lo considero comunque uno dei più grandi registi italiani (e non solo) di tutti i tempi.

Per questo meglio di tanti saggi e manuali per aspiranti sceneggiatori, è opportuno rivedere “4 mosche di velluto grigio” per capire come si scrive e realizza un film dal meccanismo perfetto.

Se “Profondo Rosso” – almeno per me – rappresenta l’apice del genio di Argento (oltre ad essere uno dei capolavori della cinematografia mondiale) “4 mosche di velluto grigio” è sempre un gran bel film.

A partire dalla sequenza dei titoli di testa con il ritmo calzante della batteria in parallelo alla lotta di Roberto Tobias (Michael Brandon) con la zanzara che alla fine riesce a schiacciare con i piatti – lotta che ricorda quella del perfido Snaky (l’indimenticabile Jack Elman) nel mitico “C’era una volta il West” del grande Sergio Leone, e scritta qualche anno prima proprio dallo stesso Argento – per arrivare fino alla sequenza finale girata a 18.000 fotogrammi per secondo.

Guardandolo si capisce che grande cinefilo è Dario Argento, che sceglie di chiamare la via in cui abita Tobias (che nella realtà è nel quartiere romano dell’Eur) “F. Lang”, in omaggio al grande cineasta tedesco, maestro dell’espressionismo cinematografico tanto amato dal regista, che lo richiamerà ancora più chiaramente in “Suspiria” del 1977 inserendo, fra l’altro, nel cast Joan Bennett, attrice legata sentimentalmente per anni allo stesso Fritz Lang.

Davvero un gran film.

“Profondo Rosso” di Dario Argento

(Italia, 1975)

Il 7 marzo del 1975 usciva nelle sale italiane uno dei dieci migliori film nella storia della cinematografia mondiale (e se non siete d’accordo è perché avete avuto troppa paura per vederlo bene…).

Io che non sono affatto un amante dell’horror, o peggio dello splatter, non posso che riconoscere come “Profondo Rosso” sia un capolavoro a tutti gli effetti.

Gli interpreti – anche se quasi tutti doppiati – con David Hemmings e Clara Calamai su tutti, la colonna sonora dei Goblin e di Giorgio Gaslini, una città inquietante (composta nella realtà da scorci e palazzi di Roma, Torino e Perugia), ma soprattutto le atmosfere e il terrore puro fanno dell’opera di Dario Argento una vetta artistica del nostro cinema alla pari dei grandi capolavori internazionali.

Scritto dallo stesso Argento assieme a Bernardino Zapponi, questo film rappresenta l’apice irraggiungibile della carriera del cineasta romano che non riuscirà più a toccare una simile perfezione.

Questo non vuol dire che il resto delle opere di Argento sia mediocre, anzi al contrario, ma “Profondo Rosso” resta lì: una spanna sopra tutti gli altri.

Per la serie “la chicca del post” ci sarebbero tanti aneddoti da ricordare, come per esempio che le mani di nero guantate del killer sono in realtà quelle dello stesso Argento, o che la prima scelta del regista per la colonna sonora furono nientepopodimeno che i Pink Floyd; ma quella che amo più in assoluto è un’altra, che avvenne fuori da una arena estiva in una splendida località balneare della Toscana molti anni or sono.

Avviso che l’epilogo di questa storia svela l’identità dell’assassino (ALLARME SVELATRAMA!), per cui chi ancora non ha visto “Profondo Rosso” si fermi qui, faccia un favore a se stesso vedendoselo, e poi riprenda a leggere.

ALLARME SPOILER: da qui in poi non si torna indietro!

Insomma, all’ingresso dell’arena c’era ovviamente la bella e inquietante locandina del film davanti alla quale tutti gli spettatori erano costretti a passare prima di prendere posto per la proiezione. Appena aperto l’ingresso, e quando ancora molti spettatori dovevano entrare, qualche rapidissimo genio malefico scrisse con un grosso e pesante pennarello nero, proprio sopra il titolo: “E’ STATA LA VECCHIA”.