“Un affare di donne” di Claude Chabrol

(Francia, 1988)

Scritto dallo stesso Chabrol assieme a Colo Tavernier – moglie del cineasta Bertrand Tavernier – e liberamente ispirato sia al libro “Un affare di donne” dell’avvocato Francis Szpiner che alle vicende tragiche che portarono Marie-Louise Giraud ad essere una delle ultime donne ghigliottinate in Francia, questo bellissimo film del maestro francese ci parla di due temi già scottanti durante la Seconda Guerra Mondiale e ancora oggi, purtroppo, considerati tabù in troppi ambienti sociali o addirittura in intere nazioni: l’aborto e la pena di morte.

La guerra è entrata ormai nella sua fase più tragica, soprattutto per i francesi che sono alla mercé del regime collaborazionista di Vichy, guidato dal maresciallo Pétain. Marie Latuor (una bravissima Isabelle Huppert) è una giovane donna senza un’istruzione che deve occuparsi dei suoi due figli piccoli e col marito al fronte. Fin da bambina la sua più grande – e ingenua – aspirazione è quella di diventare una cantante, ma ora al massimo si può concedere un’oretta per ballare e cantare al bar sotto casa insieme alla sua amica Rachel.

Un pomeriggio sorprende la sua vicina Ginette intenta a farsi un bagno nella senape, sperando ingenuamente così di provocarsi un aborto, visto che suo marito sta per essere mandato in Germania a lavorare e lei rimarrà completamente sola. Per solidarietà l’aiuta con un vecchio e rude metodo a base di acqua saponata. Nel frattempo, grazie agli accordi tra la Francia di Pétain e il III Reich che prevedono lo scambio di prigionieri e soprattutto la cattura di tutti gli ebrei francesi e il loro immediato espatrio in Germania, suo marito Paul (Francois Cluzet) torna a casa. La sua amica Rachel, invece, proprio perché ebrea viene catturata e spedita in un campo di concentramento.

Il ritorno di Paul per Marie, però, significa solo una bocca in più da sfamare e un uomo depresso, che forse non ha mai amato, accanto tutto il giorno. Ma Ginette ha iniziato a spargere la voce e le donne in stato interessante che non vogliono portare avanti la loro gravidanza iniziano a bussare alla sua porta.

Casualmente, poco dopo, Marie incontra Lulu (Marie Trintignant) una prostituta alla quale inizia ad affittare una camera ad ore. Ma il Governo, lo stesso che manda quotidianamente bambini ebrei francesi nei campi di sterminio, reputa un alto tradimento contro il Paese uccidere un feto e così scaglia tutta la sua ira sulla donna per rinsaldare il suo potere – reazionario e ottusamente maschilista- in realtà già assai traballante. Maria Latour verrà ghigliottinata a Parigi il 30 luglio del 1943.

Splendida pellicola che ci disegna il ritratto di una donna prima di tutto vittima di se stessa, della società, della sua scarsa cultura ed educazione e della sua ingenuità. Ma soprattutto Marie è una vittima degli uomini, come molte donne della sua generazione. E’ una persona pratica ma al tempo stesso molto ingenua, per nulla abituata ad avere tutto il benessere che gli aborti e la stanza a ore improvvisamente le portano, visto che la sua vita fino a quel momento si è consumata nella più grigia miseria. E con i soldi, oltre a sfamare figli e marito, Marie ci si paga delle tanto desiderate lezioni di canto.

E vittime degli uomini sono anche le donne che si rivolgono clandestinamente a lei, donne che hanno da molto tempo il marito al fronte ma che sono rimaste incinte in un rapporto occasionale per amore o per sopravvivere. O donne come lo struggente caso di Jasmine che, seguendo i dettami della religione cattolica, in sette anni di matrimonio ha partorito sei figli e adesso ne aspetta un settimo, visto che il marito è disposto a vivere in nove in una stanza senza bagno, ma mai a rinunciare alla sua dose quotidiana di piacere.

Vittime, infine, sono anche i bambini: quelli non nati così come quelli nati o cresciuti durante la guerra, come i figli di Marie. Così, mentre i gendarmi la portano sulla ghigliottina, la voce fuori campo di suo figlio, ormai adulto, ci racconta di come venne crudelmente a sapere dell’esecuzione della madre attraverso gli insulti e le risa di alcuni suoi coetanei. Il film si chiude con la frase “Abbiate pietà per i figli dei condannati”.

Purtroppo sono passati oltre trent’anni dall’uscita nelle sale di questo film e quasi ottanta dall’esecuzione della Giraud, ma i temi dell’aborto e della pena di morte sono ancora spinosi in troppi angoli del nostro Pianeta. E Chabrol ci ricorda come, per molti ben pensati, l’aborto dovrebbe essere solo “un affare di donne” che però gli uomini hanno tutto il diritto di giudicare e condannare. Non è un caso quindi che questa pellicola abbia avuto molti problemi prima di arrivare negli Stati Uniti, dove il produttore francese è stato costretto a creare una società ad hoc per la sua proiezione nelle sale, non trovando alcun distributore americano disposto a farlo.

La Huppert vince giustamente la coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia per la sua splendida interpretazione.

Per la chicca: il personaggio del giovane e arrogante collaborazionista francese, esperto nel rastrellamento e nell’individuazione di ebrei fuggiaschi, interpretato da Nils Tavernier (figlio di Colo e Bertrand Tavernier) di cui Marie si invaghisce si chiama non a caso Lucien, come il protagonista del bellissimo “Cognome e nome: Lancombe Lucien” diretto da Louis Malle nel 1974 e ambientato sempre nella Francia di Pétain degli stessi anni.

Da vedere.

“Betty” di Claude Chabrol

(Francia, 1992)

Oltre trent’anni dopo la prima pubblicazione dello splendido romanzo del maestro Georges Simenon “Betty“, pubblicato per la prima volta nel 1961, Claude Chabrol realizza il suo affascinante adattamento cinematografico.

Fra i numerosi registi che hanno portato sul grande schermo le opere di Simenon, Chabrol è senza dubbio fra quelli che hanno corde narrative molto simili a quelle dello scrittore. Non è un caso quindi che i suoi due adattamenti, “I fantasmi del cappellaio” del 1982 e “Betty”, siano fra i migliori in assoluto realizzati per il grande schermo dalle opere immortali dello scrittore belga.

Nell’anonimo locale “La Buca” di Versailles viene portata dal suo accompagnatore, la giovane e in evidente stato di ebrezza Betty (Marie Trintignant). L’uomo, un ex medico cocainomane, sembra essere preda d’improvvise nevrosi che vengono contenute da Mario, il proprietario del locale. Betty, sempre più in preda all’alcol, chiede all’uomo ancora da bere, mentre al suo tavolo si siede un’altra avventrice del locale, Laure (Stéphane Audran) per ascoltare la sua storia. Storia che però Betty non riesce a raccontare perché sviene ferendosi ad una mano.

Laure chiede a Mario di portarla nell’albergo dove lei risiede ormai da qualche anno, e la fa sistemare nella camera accanto alla sua. La stessa Laure è stata per molti anni la moglie di un famoso medico e così, dopo aver lavato Betty, le cura la mano e la fa assumere alcuni tranquillanti.

Appena la ragazza si risveglia la sua ospite chiama un medico per visitarla, medico che conferma le cure di Laure e raccomanda assoluto riposi per vari giorni. Così Betty inizia a raccontare alla sua nuova amica la propria storia. Fino a pochi giorni prima era la moglie di uno dei rampolli di una delle famiglie più aristocratiche di Parigi, gli Etamble. Ma il suo carattere e soprattutto la sua sessualità irrisolta l’hanno portata alla “rovina”, costringendola ad abbondare le sue due figlie piccole.

Ma Betty, proprio nel locale “La Buca” ha toccato il suo “fondo”, e adesso non può fare altro che risalire…

Molto fedele al romanzo di Simenon, questo film di Chabrol è davvero uno dei migliori girati negli anni Novanta. Infatti, il regista francese, riesce a farne un’opera a se stante, che si basa sul romanzo di Simenon, ma che al tempo se ne distacca, toccando nuove leve emotive. Lo stesso Chabrol, per esempio, ha affermato che se nel libro originale Simenon, proprio per sottolineare la carnalità della storia, inserisce in continuazione carezze, abbracci e palpate amichevoli, lui li ha volutamente evitati. Perché, da vero artigiano del cinema quale era, sapeva bene che un conto è leggere una cosa, un altro assai differente è vederla. E così il senso di carnalità nel film lo ha ricreato attraverso non solo ai corpi, ai comportamenti e ai dialoghi fra i personaggi, ma anche con i rumori, la colonna sonora e i movimenti della macchina da presa, per non parlare dei continui flashback che ci raccontano frammentata e apparentemente incomprensibile la storia di Betty.

Per la chicca: all’inizio dei flashback ambientati nella austera magione degli Etamble, la suocera di Betty, matriarca della famiglia e volitiva vedova del generale Etamble, parla sdegnosa di un film “indegnamente” scandaloso appena visto al cinema. Si tratta del bellissimo “Un affare di donne” che lo stesso Chabrol diresse nel 1988, film che provocò non poche polemiche negli ambienti più reazionari della società francese.

Purtroppo, guardando questo film, non si può non pensare al vero tragico epilogo della vita dell’attrice Marie Trintignant, figlia del grande attore Jean-Louis Trintignant. Nella notte fra il 26 e 27 luglio del 2003 – mentre era a Vilnius, in Lituania, per girare un film – venne massacrata di botte dal suo “compagno” il cantante Bertrand Cantat, frontman del gruppo Noir Désir. Per le gravi lesioni la donna entrò in coma e morì il 1° agosto dopo due vani interventi chirurgici. Il destino volle, inoltre, che questo infame delitto si consumasse in una stanza d’albergo, ambiente in cui si svolge la maggior parte del film “Betty”.

“Gli innocenti dalle mani sporche” di Claude Chabrol

(Francia/Italia/Germania Ovest, 1975)

Claude Chabrol (1930/2010) è considerato uno dei maestri del giallo cinematografico, e fra gli eredi principali di quell’Henri-Georges Clouzot (1907/1977), primo grande regista di suspense del cinema d’oltralpe.

A Saint Tropez i coniugi Wormser vivono appartati nella loro lussuosa villa acquistata da Louis (Rod Steiger) manager di successo che, dopo aver avuto un infarto, ha venduto la sua ricca azienda per godersi l’agiatezza assieme a Julie (una bellissima e davvero sensuale come poche Romy Schneider).

Ma Louis, proprio dopo l’infarto, non è più quello di prima e col passare del tempo è diventato alcolista. Così, quando casualmente Julie incontra il giovane e avvenente scrittore squattrinato Jeff Marle, accetta facilmente la sua corte.

La relazione fra i due diventa sempre più profonda e Louis sempre più “inutile”. E così i due amanti decidono di eliminarlo per poi godersi i suoi soldi. Ma quando, la mattina dopo la notte in cui suo marito sarebbe dovuto perire per mano di Jeff in quello che avrebbe dovuto sembrare un banale incidente in barca, entrambi scompaiono: tutti i sospetti e le accuse cadono su Julie…

Scritto dallo stesso Chabrol – e tratto dal romanzo di Richard Neely – “Gli innocenti dalle mani sporche” è un giallo-noir d’annata, che esplora – nella grande tradizione del suo regista – i lati oscuri dell’animo umano.

Sequenza iniziale mozzafiato con la Schneider che senza veli prende il sole nel giardino della sua villa mentre un aquilone – a forma di uccello rosso fuoco …e non dico altro – le fa ombra per poi posarsi delicatamente sul suo splendido sedere.

Godibilissima parte secondaria per Jean Rochefort nei panni del rampante avvocato che difende Julie, e che alla fine del film le ricorda come “la Giustizia è una cosa fatta dagli uomini e per gli uomini!” e non per le donne…