“Harry ti presento Sally” di Rob Reiner

(USA, 1989)

La storia d’amore fra Harry Burns (Billy Crystal) e Sally Allbright (Meg Ryan) è di quelle che hanno segnato la storia del cinema. Eppure l’idea del film nacque da un dramma personale vissuto proprio dal regista Rob Reiner che nella seconda metà degli anni Ottanta dovette affrontare un divorzio.

Lo stesso Reiner, in un’intervista, raccontò come i disagi nel tornare single e frequentare donne anche solo per un’avventura lo portarono a pensare a un film sul tema. Così, insieme al produttore e amico Andrew Scheinman, contattò la sceneggiatrice Nora Ephron alla quale propose il progetto. La Ephron iniziò a scrivere la sceneggiatura ispirandosi soprattuto ai racconti personali che lo stesso Reiner le faceva, ma anche al suo vissuto, soprattutto quello legato al suo matrimonio con Carl Bernstein, col quale fu sposata dal 1976 al 1980, giornalista che insieme a Bob Woodward svelò i retroscena del caso “Watergate” che portò alle dimissioni del Presidente americano Richard Nixon, vincendo il premio Pulitzer nel 1973.

Così presero vita e corpo Harry Burns, alter ego del regista, e Sally Allbright, alter ego della sceneggiatrice. A partire dai loro cognomi capiamo subito il loro carattere e il loro modo di approcciarsi al mondo: “Burns” che si può tradurre in “ustioni” o “scottature” e Allbright in “tutto bene” o “tutto a posto”.

Sulla trama e sul loro incontro e scontro che dura all’incirca dodici anni c’è poco da aggiungere, con scene intramontabili e battute immortali. Ma Reiner ebbe anche il merito di rinnovare il modo concepire la colonna sonora. Su indicazione dello stesso Crystal, infatti, chiamò Marc Shaiman – che suonava le tastiere nelle dirette del “Saturday Night Live” mentre lo stesso Crystal interpretava i suoi monologhi – che riarrangiò alcuni grandi classici della musica jazz e swing americana dando alla pellicola un tocco davvero magico.

Reiner, inoltre, fu estremamente bravo nello scegliere il cast, oltre a Crystal suo storico e intimo amico, scelse Bruno Kirby – altra sua personale frequentazione – per il ruolo di Jess l’amico di Harry, l’indimenticabile Carrie Fisher in quello di Marie l’amica della protagonista, e soprattutto Meg Ryan in quello di Sally.

La Ryan, nonostante la sua giovane età, veniva da una lunga gavetta in televisione e al cinema dove aveva avuto solo ruoli secondari, ma Reiner, nonostante anche la visibile differenza di età rispetto a Crystal e al resto del cast, le diede fiducia offrendole il primo ruolo da protagonista assoluta. Anche per questo il film è una alchimia cinematografica perfetta, grazie anche alla fotografia diretta da Barry Sonnenfeld, che a partire dagli anni Novanta diventerà uno dei registi più visionari di Hollywood.

Non sono per il revisionismo storico o per il politically correct estremista, ma bisogna riconoscere che ci sono delle grandi opere d’arte che subiscono le influenze – non sempre sane – del momento storico in cui vengono realizzate. Così è doveroso riconoscere che ci sono grandi film, che io amo profondamente, che possiedono toni o semplici accenni sessisti, come questo che oggi vedrebbe – giustamente! – ferocemente criticato e additato il suo protagonista come arrogante maschilista.

Godiamocelo lo stesso, pensando a quanto la società è fortunatamente andata avanti.

Per la chicca: nella famigerata scena del ristorante in cui Sally finge di avere un orgasmo per dimostrare a Harry che tutte le donne prima o poi hanno finto anche con lui, la cliente che pronuncia la battuta finale è la vera madre di Rob Reiner. La cosa è ancora più divertente se consideriamo che, come raccontò lo stesso Crystal, il regista impersonò Sally simulando un rumoroso e incontenibile orgasmo per mostrare alla Ryan come affrontare la scena. E mentre si preparavano a girare la scena, Reiner sussurrò imbarazzato all’amico: “…Billy ho appena avuto un’orgasmo davanti a mia madre!”.

Da vedere ad intervalli regolari.

“Cartoline dall’inferno” di Mike Nichols

(USA, 1990)

Il mondo dello spettacolo, e del cinema nello specifico, è stato raccontato ottimamente da se stesso più di una volta, anche nei lati più oscuri. Non sono pochi, infatti, i film che ci parlano di come il successo e la fama esplosa sul grande schermo possano divorare la vita di un attore.

Questo film, diretto dal maestro del cinema intimista americano Mike Nichols, si ispira al best seller della fine degli anni Ottanta “Cartoline dall’inferno”, autobiografia di Carrie Fisher, che per tutti – e anche suo malgrado… – rimarrà per sempre la principessa Leia.

Suzanne Vale (una – …c’è bisogno di dirlo? – bravissima Meryl Streep) è una giovane attrice di successo che però sta mandando a rotoli la sua carriera – e la sua vita – a causa della sua tossicodipendenza.

Dopo una notte passata con un avvenente sconosciuto, viene ricoverata d’urgenza per un’overdose. Al suo risveglio dovrà affrontare la realtà: la sua tossicodipendenza e, soprattutto, il suo rapporto conflittuale e irrisolto con la madre Doris Mann (una altrettanto bravissima Shirley MacLaine), famosissima stella del cinema e del teatro di qualche decennio prima.

Suzanne è a un bivio: reagire e tentare di superare o quanto meno di imparare a convivere con le proprie debolezze, o tornare a fuggire nella droga…

Grandissima prova d’attrice di due stelle del cinema americano – e non solo – che ci fanno arrabbiare e poi commuovere proprio come la vita. Grande mano di Nichols che superbamente non cade mai nel patetico. Autrice della sceneggiatura è la stessa Carrie Fisher. Fra i numerosi camei che costellano il film, c’è anche quello di Rob Reiner, che diresse la Fisher in “Harry ti presento Sally…”.

Vedere oggi questo bel film ha un sapore particolare rispetto a quando uscì nelle sale. Carrie Fisher è scomparsa il 27 dicembre del 2016, a 60 anni, a causa delle conseguenze di un infarto. Sua madre Debbie Reynolds è deceduta per un ictus il girono dopo, sussurrando il nome della figlia.

“Cercando la Garbo” di Sidney Lumet

(USA, 1984)

Estelle Rolfe (una grande Anne Bancroft) è una signora volitiva, pronta a combattere ogni tipo di ingiustizia nel mondo.

Questo suo carattere le è costato molte cose nella vita, fra cui il marito che da un decennio si è risposato, ma non l’amore del suo unico figlio Gilbert (Ron Silver), mite contabile in una grande società, e sposato con la viziata ed egocentrica Lisa (un’antipatica quanto brava Carrie Fisher).

L’equilibrio nella vita di Gilbert viene però travolto da una tremenda scoperta: la madre ha un cancro al cervello non operabile, e le rimangono pochi mesi di vita. Arrabbiata, ma non disperata, Estelle ha un solo desiderio prima di morire: conoscere Greta Garbo, il mito della sua vita.

Per accontentarla Gilbert sarà costretto a fare un viaggio, soprattutto dentro se stesso, che lo cambierà per sempre.

Il maestro Sidney Lumet firma questa deliziosa e malinconica pellicola sull’amore materno, sul senso della vita e suoi sogni che ognuno coltiva nell’intimo, ma anche su uno dei più grandi miti del Novecento: la divina Greta Garbo.

Sono passati più di settant’anni dall’uscita dell’ultimo film interpretato dalla diva svedese, ma il suo fascino da dea è ancora intatto.

Provate a rivedere la scena delle risate in “Ninotchka” senza alzare involontariamente il sopracciglio, e ne riparliamo…