“L’appartamento” di Billy Wilder

(USA, 1960)

C.C. Baxter (uno straordinario Jack Lemmon) è uno degli oltre trentamila dipendenti della compagnia assicurativa che ha la sua sede in uno dei grattacieli più grandi nel centro di Manhattan. Per evitare inutili e prolissi affollamenti, per tutti i numerosissimi impiegati – che superano in numero gli abitanti di Gallarate… – gli orari di entrata e di uscita sono scaglionati.

Nonostante questo, e perché alla propria anonima scrivania si può lavorare e basta in piena solitudine, uno dei maggiori punti d’incontro fra i dipendenti sono gli ascensori stessi, manovrati da un apposito personale. Baxter, quando ci riesce, preferisce sempre prendere quello alla cui pulsantiera c’è Fran Kubelik (Shirley MacLaine) per la quale non nasconde un debole.

Ma oltre Miss Kubelik, Baxter ha altri importanti progetti, come quello di diventare il prima possibile dirigente. Avendo intuito che le sue capacità probabilmente potrebbero non bastare, Baxter ha trovato, quasi per caso, una strada alternativa.

Visto che non è sposato e vive da solo, presta il suo piccolo appartamento in affitto ad alcuni dirigenti che lì possono consumare i propri incontri extraconiugali. I problemi inizieranno quando l’alto dirigente Jeff D. Sheldrake (Fred MacMurray) gli chiederà l’appartamento per i suoi incontri clandestini proprio con Miss Kubelik…

Billy Wilder scrive, assieme a I.A.L. Diamond, e poi dirige una delle commedie sentimentali più divertenti e al tempo stesse graffianti della seconda metà del Novecento. Perché il grande cineasta punta il dito sull’esasperante omologazione che la nuova rivoluzione industriale del secondo dopoguerra provoca negli individui, che diventano dei semplici e scoloriti numeri di matricola, appartenenti a mastodontiche società i cui vertici sono distanti e sconosciuti da tutti.

Questo calzante punto di vista, tema centrale dell’economia occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta, accomuna questo film al toccante “I giganti uccidono” diretto da Fielder Cook nel 1956, che già nel decennio precedente lo anticipava.

Sempre come ispirazione, lo stesso Wilder dichiarò più di una volta che, fra le varie pellicole, quella che gli aveva fatto venire l’idea del soggetto era stata soprattutto lo splendido “Breve incontro” diretto da David Lean nel 1945, in cui i protagonisti hanno un incontro fugace in un appartamento “prestato” da un collega di lui. 

In originale in soggetto Wilder lo aveva pensato per una commedia teatrale, ma agli inizi degli anni Sessanta era impossibile ricreare in teatro una scenografia così imponente per degli uffici quasi senza fine. Su questo lo stesso Wilder dichiarò, inoltre, che per rendere sconfinato e impersonale il luogo di lavoro di C.C. Baxter, durante le riprese vennero usati specchi, mobili di dimensioni ridotte e persone affette da nanismo.  

La redenzione di C.C. Baxter ha a sua volta ha ispirato molte pellicole, fra le quali spicca senza dubbio “Harry ti presento Sally” diretta da Rob Reiner nel 1989, la cui scena finale calca di fatto, con canzone di fine anno e corsa verso l’amore della propria vita, quella di questo film.

La pellicola riscuote un grande successo di pubblico e vince premi in tutto il mondo: alla Mostra del Cinema di Venezia Shirley MacLaine vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione, così come il Golden Globe assieme a Lemmon. In USA il film colleziona 10 candidature agli Oscar aggiudicandosene 5: miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio e migliore scenografia in bianco e nero.

Infine, non si possono non ricordare nella nostra versione i grandi artisti che donarono le voci ai protagonisti quando il film approdò nelle nostre sale, a partire da Giuseppe Rinaldi che doppia magistralmente Lemmon/C.C. Baxter il cui soprannome in italiano è “Ciccibello” mentre in originale è “Bud”, Maria Pia Di Meo doppia MacLaine/Bubelik e l’immortale Emilio Cigoli MacMurray/Shaldrake.      

Da vedere a intervalli regolari.  

“Prima pagina” di Billy Wilder

(USA, 1974)

Siamo agli inizi degli anni Settanta, e la carta stampata ma soprattutto la televisione plasmano, spesso senza remore, l’opinione pubblica. Così il grande Billy Wilder decide di riportare sul grande schermo la commedia teatrale “The Front Page” scritta da Ben Hecht (fra i più importanti e prolifici sceneggiatori della prima epoca d’oro di Hollywood, autore di script come “Scarface – Lo sfregiato”, “Pericolo pubblico n.1”, “Ombre rosse”, “Notorius – L’amante perduta” o “Nulla di serio“) e Charles MacArthur nel 1928, che già vanta numerosi adattamenti cinematografici a partire dall’omonimo “The Front Page” di Lewis Milestone del 1931, passando per il divertente “La signora del venerdì” diretto da Howard Hawks nel 1940 con Cary Grant e Rosalind Russell.

Quest’ultimo cambia il protagonista da Hildebrand ‘Hildy’ Johnson in Hildegard “Hildy” Johnson, facendone vestire i panni alla Russell, scelta narrativa importante e ispirata a Nellie Bly (1864-1922) la grande giornalista americana, collaboratrice di fiducia di Joseph Pultizer. Con lo stesso cambio narrativo, e ambientandolo direttamente negli studi di un network televisivo, Ted Kotcheff dirige nel 1988 “Cambio marito” con Burt Reynolds, nel ruolo del direttore, Kathleen Turner in quello della sua giornalista di punta – nonché sua ex moglie – e Christopher Reeve in quello del suo nuovo e ingenuo aspirante marito.

Billy Wilder, invece, assieme al suo fidato coscenaggiatore I.A.L. Diamond decide di rimanere fedele all’opera originale di Hecht e MacArthur, ambientandola l’anno dopo in cui venne per la prima volta rappresentata, il 1929. Chicago, per le 7.00 della mattina del 6 giugno è stata fissata l’esecuzione di Earl Williams (Austin Pendleton) condannato all’impiccagione per l’uccisione di un poliziotto, avvenuta mentre questi lo stava arrestando perché distribuiva volantini a favore dell’organizzazione anarchica e sinistrorsa “Friends of American Liberty”.

Anche se il colpo è partito involontariamente durante la colluttazione, Williams è stato condannato molto rapidamente, così da programmare la sua esecuzione proprio a ridosso delle elezioni. Il sindaco (Harold Gould) e lo sceriffo (Vincent Gardenia) hanno fatto di tutto per accelerare il processo proprio per poter sfruttare al meglio la situazione, visto poi che il poliziotto deceduto era di colore, si sono trovati fra le mani l’occasione per prendere anche i voti della comunità afroamericana della città.

Walter Burns (un arcigno e perfido Walter Matthau) direttore del “Chicago Examiner” ha messo sull’esecuzione il suo uomo migliore Hildebrand “Hildy” Johnson (Jack Lemmon) che però si è reso incredibilmente introvabile. Quando finalmente Hildy torna al giornale lo fa per presentare le sue dimissioni: la sera stessa partirà per Philadelphia per poi sposarsi nei giorni successivi con la candida Peggy (Susan Sarandon).

Burns sarà disposto a tutto, anche a mentire e truffare, pur di non perdere il suo miglior cronista, ma a mettere davvero nei guai Hildy sarà proprio il suo viscerale amore per il giornalismo…

Wilder dirige una commedia divertente e graffiante, atto d’accusa contro un certo tipo di giornalismo aggressivo e spietato, soprattutto con coloro che usa e poi getta via, come: ” …la prima pagina di un quotidiano che quando esce può fare molto scalpore, ma il giorno dopo è usata tranquillamente per incartare il pesce al mercato”, frase che lo stesso Burns pronuncia a Hildy.

A quasi cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nelle sale americane, “Prima pagina” rimane sempre un’ottima commedia, vittima però di mode e superficialità che oggi sarebbero, giustamente, inaccettabili. Come la bassa stereotipizzazione dell’omosessualità del giornalista Bensiger (interpretato da David Wayne) che risulta ancora più evidente dalla grande dignità che Wilder e Diamond donano a Molly Malloy (interpretata da Carol Burnett) la prostituta dei bassi fondi innamorata di Williams.

Se Molly, che rappresenta gli ultimi della società, è il personaggio più puro e sincero del film – che ricorda molto quelli cantanti magistralmente dal grande Fabrizio De Andrè – Bensinger è “solo” un personaggio secondario bizzoso e antipatico, dai modi “strani” dei quali tutti possono ridere. D’altronde in Gran Bretagna solo sette anni prima la realizzazione di questo film l’omosessualità smise di essere reato.

I duetti fra Lemmon e Matthau sono comunque sempre irresistibili e indimenticabili, grazie anche agli attori di supporto, tutti grandi artisti, come i già citati Gardenia e Gould, a cui si aggiungono Charles Durning e Herb Edelman nei ruoli di alcuni giornalisti colleghi di Hildy.

Nella nostra versione a doppiare Matthau non è il grande Renato Turi, ma un altrettanto bravissimo Ferruccio Amendola, mentre Giuseppe Rinaldi dona come sempre magistralmente la voce a Lemmon.

“Non per soldi… ma per denaro” di Billy Wilder

(USA, 1966)

Se nel nostro immaginario lo stereotipo dell’avvocato arraffone e opportunista è l’Azzeccagarbugli de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, nella cultura americana è senza dubbio lo scaltro Willie Gringrich – il cui cognome significa letteralmente “diventa ricco” – interpretato superbamente in questo film da un eccezionale Walter Matthau, che non a caso vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Siamo a metà degli anni Sessanta e la società americana, come quella di tutto l’Occidente, sta cambiando molto rapidamente. Questo soprattutto – o purtroppo, dipende dai punti di vista… – grazie al nuovo mezzo di comunicazione di massa che è diventata la televisione. Nella storia della civiltà umana, dopo i racconti verbali tramandati per millenni, solo la radio era riuscita ad entrare capillarmente in ogni focolare domestico. Ma la scatola dei sogni ha anche le immagini e così sbaraglia ogni concorrenza e, soprattutto, ogni resistenza.

Altro grande pilastro sociale negli Stati Uniti è da sempre lo sport, e proprio in quegli anni, molto prima che da noi, qualcuno ha già pensato ai ricchi profitti che il connubio tv/sport può alimentare. E così approdiamo a Cleveland, la patria della squadra di football americano dei Cleveland Browns, proprio durante una partita del massimo campionato ripresa in diretta dalla CBS.

A riprendere i giocatori da bordo campo c’è l’esperto cameraman Harry Hinkle (Jack Lemmon) che proprio alla fine di un’azione di gioco viene travolto involontariamente dal giocatore dei Browns Luther “Boom Boom” Jackson (Ron Rich). Harry, rovinando sulla matassa del telo che copre il campo, perde conoscenza e viene portato in ospedale.

Al suo capezzale si precipitano sua madre (Lurene Tuttle) sua sorella Charlotte (Marge Redmond) e suo marito Willie Gringrich che sente subito l’odore di un risarcimento a sei zeri. Appena ripresosi Harry si sente solo indolenzito, ma Willie lo convince a fingere di avere perso l’uso di una gamba e di un braccio proprio a causa del trauma, visto poi che Charlotte gli ha raccontato che da bambino lui, cadendo dal tetto, si è incrinato una vertebra.

Hinkle si rifiuta categoricamente di mentire, ma il suo diabolico cognato alla fine riesce a convincerlo che il suo stato certamente farebbe tornare la sua ex moglie Sandy (Judi West), scappata un anno prima con un musicista per far decollare la sua carriera di cantante. Intanto, all’ospedale arriva trafelato e turbato “Boom Boom” Jackson, che non riesce a perdonarsi le gravi menomazioni che ha apparentemente causato a Harry.

Nonostante il prestigioso ed esperto studio legale – con tanto di investigatore privato fornito di macchina da presa e microfoni perimetrali – incaricato dall’assicurazione di verificare l’autenticità dei danni subiti da Hinkle, Willie Gringrich riesce ad organizzare un piano a prova di bomba. L’avvocato ha pensato proprio a tutto, tranne all’anima di suo cognato che è un illuso sì, ma onesto…

Superba commedia firmata dal grande Billy Wilder maestro indiscusso del genere hollywoodiano, che rappresenta una neanche troppo velata critica alla televisione e soprattutto al lato voyeuristico e opportunistico che questa fomenta nella società. Ne sono un esempio il morboso spionaggio di Chester Purkey (Cliff Osmond), l’investigatore privato che riprende ed ascolta 24 ore su 24 Hinkle per conto dello studio legale dell’assicurazione; e l’illusione di Sandy di poter diventare un’artista famosa solamente presentandosi “come si deve” in televisione.

Come tutte le opere del maestro Billy Wilder: graffiante e sempre attuale. La pellicola sancisce la definitiva ascesa di Walter Matthau nell’olimpo delle stelle di prima grandezza del firmamento del cinema americano. La bravura di Matthau, in questo ruolo, oscura anche quella del grandissimo Lemmon.

Per la chicca: il titolo originale del film è “The Fortune Cookie” e si riferisce al biscotto della fortuna che Harry apre e nel quale c’è la famosa frase di Abraham Lincoln – che lo stesso Willie Grigrich definisce: “un ottimo presidente, ma un pessimo avvocato…” – che dice: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Frase che forse Wilder e I.A.L. Diamond, autori della sceneggiatura, volevano riferire anche alla televisione? …Ai posteri l’ardua sentenza.

Da ricordare, nella nostra versione, gli stratosferici Renato Turi ed Emilio Cigoli che donano, come sempre superbamente, le voci rispettivamente e Walter Matthau e Jack Lemmon.

“Matrimonio in quattro” di Ernst Lubitsch

(USA, 1924)

Ernst Lubitsch (1892-1947) è considerato giustamente il padre fondatore della sophisticated comedy hollywoodiana che toccherà il suo apice negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, e che definirà il genere commedia nei decenni successivi. Nato a Berlino e figlio di un sarto, Lubitsch già adolescente si innamora del palcoscenico e decide di fare l’attore comico. Nel 1912 approda al cinema come apprendista e dall’anno successivo recita ruoli in alcune commedie di successo che gli iniziano a dargli una certa popolarità.

Intanto comincia a scrivere delle sceneggiature e nel 1918 esordisce dietro la macchina da presa col film “Gli occhi della mummia” che, a dispetto del genere per cui verrà ricordato nella storia del cinema, è un dramma. E’ nel 1919 che Lubitsch acquista notorietà internazionale con la commedia graffiante e ironica “La principessa delle ostriche”, dove interpreta anche una piccola parte.

All’inizio degli anni Venti si reca negli Stati Uniti per promuovere il suo film “Das Weib des Pharao”. Hollywood non si lascia scappare uno dei registi più sofisticati mitteleuropei e così viene assunto per dirigere due film: “Rosita” con Mary Pickford – allora star di prima grandezza – nel 1923 e “Un matrimonio in quattro” l’anno successivo.

Ed è soprattutto con quest’ultimo che Lubitsch pone la basi della grande sophisticated comedy americana. Grazie alla sua strepitosa regia – che ancora oggi viene studiata nelle scuole di cinema di tutto il mondo – Lubitsch crea un’atmosfera leggera ma la tempo stesso colma di allusioni, soprattutto sessuali, metafore e satira pungente che porta lo spettatore a seguire i protagonisti fino all’ultimo fotogramma, nonostante la totale assenza del sonoro che verrà collaudato solo tre anni dopo.

I passaggi e i movimenti seguono gli attori che si muovono nelle scenografie come se la macchina da presa fosse la partecipante ad uno dei classici e opulenti balli che in quegli anni si tenevano nell’Europa più altolocata. Lubitsch diventa quindi il più grande narratore di quell’idea decadente del vecchio continente che sogna e immagina il pubblico americano.

Così se Eric von Stroheim, negli stessi anni, racconta agli Stati Uniti in maniera più lucida e cruda la decadenza morale dell’Europa che inesorabilmente sta andando verso la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, Lubitsch la descrive con i toni classici della commedia colmi di ironia e satira.

Non è un caso quindi che la pellicola si svolga a Vienna, e non solo per rispettare l’opera originale.
Il Dottor Josef Stock (Adolphe Menjou) è stanco del suo matrimonio con Mizzi (Marie Prevost) e cerca in ogni modo di trovare una scusa per poter divorziare. Quando Charlotte Braun (Florence Vidor) le presenta suo marito il Dottor Franz Braun (Monte Blue) Mizzi se ne invaghisce subito e tenta in ogni modo di sedurlo. Ma Franz è perdutamente innamorato di Charlotte, anche se…

La sceneggiatura è scritta da Paul Bern ed è tratta dalla commedia teatrale – che ricorda in toni molto più leggeri “Girotondo” di Arthur Schnitzler – “Soltanto un sogno” di Lothar Schmidt (1862-1931) con una classica e intricata trama a base di equivoci e malintesi amorosi tipica dell’operetta, che però il regista tedesco riesce a trasformare superbamente in una pellicola divertente e graffiante che castiga i vizi e le ipocrisie dell’alta borghesia, non solo quella austriaca. Lubitsch girerà nel 1931 un’ottima versione sonora, sempre tratta dall’opera di Schmidt, con Maurice Chevalier come protagonista e come aiuto regista un giovane, e non accreditato, George Cukor.

Per comprendere al meglio l’impatto di Lubitsch nel cinema contemporaneo e la sua eredità in quello a lui successivo, basta rileggere ciò che uno dei suoi giovani assistenti, che molti considerano giustamente il suo erede, disse di lui in varie interviste.

Nel bellissimo “Conversazioni con Billy Wilder” di Cameron Crowe, per esempio, è lo stesso Wilder a raccontarci come Lubitsch fosse un regista quasi maniacale e che per ogni scena studiasse le soluzioni migliori e più incisive anche per i particolari meno rilevanti, sempre per rendere ogni fotogramma ricco di ironia e allusioni. Per questo lo stesso Wilder, divenuto sceneggiatore e regista, per risolvere problemi di scrittura o dubbi dietro la macchina da presa si chiedeva sibillino: “…Come la farebbe Lubitsch?”

“Mancia competente” di Ernst Lubitsch

(USA, 1932)

Sebbene l’era del cinema sonoro fosse iniziata solo da un lustro scarso, “Mancia competente” è ancora oggi – che si avvicina a festeggiare le novanta candeline – una delle pietre miliari della cinematografia planetaria.

Perché apre ufficialmente il filone della vera e propria commedia cinematografia, genere che fino ad allora era rappresentato soprattutto da spettacoli teatrali di successo adattati per il grande schermo. Il maestro Lubitsch è, infatti, fra i primi ad usare in maniera sublime il linguaggio cinematografico: le immagini, le voci ed i suoni sono parte integrante della storia e del suo sviluppo. Ma non solo: allo stesso tempo lascia piccoli misteri ed eventi dissimulati nel racconto, che creano un fascino unico in ogni sua pellicola, il famoso “Tocco alla Lubitsch”.

Altro elemento focale del Tocco è il sesso. In questo film, come in tutti gli altri diretti da Lubitsch, non c’è fotogramma privo di sfacciate o ammiccanti allusioni sessuali. D’altronde il suo alunno più famoso, il maestro Billy Wilder in “Conversazioni con Billy Wilder” di Cameron Crowe, racconta di come Lubitsch fosse particolarmente attratto dal sesso, cosa che ne provocò anche la scomparsa nel 1947, ufficialmente attribuita ad un poco chiaro attacco cardiaco (il secondo in pochi anni).

Ma attenzione: le allusioni sessuali più o meno marcate dei film di Lubitsch non hanno mai nulla di volgare o becero. Tutto è incentrato elegantemente sul piacere, sul desiderio, la delusione e sopratutto sull’ironia più graffiante. Non è un caso quindi che lo stesso Wilder, durante tutta la sua carriera, quando si trovava davanti ad un bivio creativo si poneva sempre la fatidica domanda: questa scena come la farebbe Lubitsch?

Il film si apre con un classico gondoliere veneziano che però, invece di cantare romanticamente alla Luna, canta scaricando un bidone di immondizia su un piccolo battello colmo di altri rifiuti. Scena che magistralmente ci introduce immediatamente nell’anima della storia: anche in una delle città più belle e famose della pianeta ci sono rifiuti da smaltire.

E così, attraverso un Venezia da cartolina (e di cartone visto che gli esterni sono evidentemente girati in studio) entriamo in un lussuoso appartamento di uno dei più esclusivi alberghi della città, dove un uomo è stato appena aggredito e un altro è fuggito dalla finestra.

In un’altra suite, un’affascinante rappresentante della più alta aristocrazia europea prepara il suo incontro galante con una sua pari che finalmente ha ceduto alla sua corte. Il rendez-vous viene interrotto bruscamente dalla Polizia: nell’albergo è stato commesso un furto e qualcuno si è dileguato con una grande somma di denaro. Ma le Forze dell’Ordine, assicuratesi che i due ospiti non hanno informazioni utili, li lasciano soli. Riprende così la loro amorosa singolar tenzone con un nuovo elemento che la renderà ancora più passionale: il malloppo appena rubato.

Perché i due aristocratici non son altro che il ladro internazionale Gaston Monuscu (Herbert Marshall) e la borseggiatrice Lily Vautier (Miriam Hopkins) che sotto mentite spoglie cercavano l’uno di derubare l’altra. Scatta così l’amore a prima vita e Gaston e Lily diventano una della coppie di ladri d’alto rango più inafferrabili del mondo. Questo fino a quando non approdano a Parigi, dove incappano nella ricca e bella vedova M.me Mariette Colet (Kay Francis), unica proprietaria dell’impero di prodotti di cosmesi Colet. Perché il fascino sensuale della Colet complicherà non poco le cose…

Tratto dalla commedia “The Honest Finder” dell’ungherese Aladar Laszlo e adattata per lo schermo da Grover Jones, “Mancia competente” – il cui titolo originale è “Trouble in Paradise” – possiede ancora integra tutta la sua sublime potenza narrativa e la sua immortale ironia, legata soprattutto all’ottusa voglia di tanti di voler apparire piuttosto che essere.

Da tenere nella propria videoteca.

“Vita privata di Sherlock Holmes” di Billy Wilder

(UK, 1970)

Il sette volte premio Oscar Billy Wilder decide di parlare di uno dei personaggi più famosi della letteratura – e del cinema – mondiale, Sherlock Holmes. Insieme al suo stretto collaboratore I.A.L. Diamond scrive questa avventura-disavventura del detetcive più famoso di sempre.

Ma già dalla prima scena – e da quella finale – capiano che il vero protagonista del film è il Dottor John H. Watson, o meglio lui in qualità di scrittore che “romanza” i fatti che vedono protagonsta il suo amico. Nell’ironia del dottor Watson (interpretato da un bravo Colin Blakely) possiamo riconoscere facilmente una parte dello stesso Wilder che non può vivere senza raccontare e soprattutto senza “accomodare” gli eventi al fine di renderli più interessanti per il lettore (spettatore).

Wilder e Diamond partono da quello che lo stesso Arthur Conan Doyle ci accenna come tallone di Achille del segugio di Baker Street: le donne. Tema che poi sarà ripreso in vari altri film – e libri – a lui dedicati.

Una fredda sera nebbiosa, al 221b di Baker Street bussa alla porta un arcigno vetturino con fra le braccia una donna in evidente stato di choc. L’uomo asserisce di averla salvata dalle acque del Tamigi e, non avendo documenti, l’ha portata all’indirizzo scritto nel biglietto che aveva in mano.

Sherlock Holmes (interpretato da Robert Stephens) e il Dottor Watson deducono che la donna sia stata aggredita, rapinata e gettata nel fiume, visto che lei è colpita da una tremenda amnesia…

Nei panni del Mycroft Holmes c’è il grande Christopher Lee che insieme a Geneviève Page (nei panni della smemorata) compone un cast davvero di prim’ordine. Basta pensare che Stephens è stato considerato l’erede del suo maestro Laurence Olivier, la Page si è formata alla Comédie-Française, e Blakely vestì i panni di Domenico Soriano nella prima rappresentazione britannica di “Filumena Marturano” del maestro Eduardo De Filippo.

Wilder si è sempre dichiarato molto legato a questa sua opera, che considerava una delle più “eleganti” da lui firmate. Ma le riprese vennero funestate dal tentato suicidio dello stesso Stephens, allora marito di Maggie Smith.

“L’asso nella manica” di Billy Wilder

(USA, 1951)

Il maestro Billy Wilder firma uno dei migliori film sul giornalismo della storia del cinema.

Charles Tatum (un duro e arcigno Kirk Douglas, in una delle sue migliori interpretazioni di sempre) è un giornalista d’assalto, pronto a tutto pur di avere uno scoop. Ma il suo carattere aggressivo e la sua passione per l’alcol e le donne lo hanno allontanato dalle testate più importanti della nazione.

Così sbarca ad Albuquerque, nel New Mexico, dove riesce a farsi assumere nel piccolo quotidiano locale. Il progetto di Tatum è quello di trovare il grande scoop per tornare a lavorare presso gli stessi giornali che lo hanno cacciato.

Ma per un intero anno ad Albuquerque non accade nulla, fino a quando Tatum non viene mandato a realizzare un servizio su un’esposizione di serpenti fuori città. Sulla strada, nei pressi di un’area di sosta, il giornalista si imbatte in un’ambulanza a sirene spiegate.

D’istinto la segue e scopre che il giovane proprietario dell’aria di servizio Leo Minosa è rimasto vittima di una frana che lo tiene bloccato in un’antica grotta indiana. Il malcapitato non è raggiungibile, il cunicolo in cui è intrappolato è mezzo franato. Charles può guardalo e parlargli da pochi metri, ma niente di più.

Tatum ha un sussulto: finalmente il fato gli offre quell’occasione di rivalsa che lui tanto brama. In pochi minuti avvisa il suo giornale e gli altri mezzi di comunicazione. Poche ore dopo l’area desertica intorno alla caverna inizia a riempirsi di curiosi e giornalisti.

Per avere la totale esclusiva, il giornalista promette allo sceriffo locale di appoggiarlo alle prossime elezioni. E così quando il responsabile degli scavi chiamato per salvare Leo illustra il suo piano che puntellando il cunicolo in circa sedici ore lo libererebbe, lo sceriffo, su indicazione di Tatum, lo obbliga invece ad iniziare a scavare direttamente dalla cima della collina, scelta che porterà alla salvezza di Leo in non meno di cinque o addirittura sei giorni.

In quei cinque o sei giorni, Tatum è convinto infatti, che tutto il mondo finirà col seguire il salvataggio, e lui potrà finalmente tornare nell’Olimpo della carta stampata…

Eccelsa riflessione sul giornalismo d’assalto e sulla sua più cinica spettacolarizzazione. Probabilmente nel 1951 nel nostro Paese – a differenza degli Stati Uniti – il giornalismo non era ancora stato vittima di tale triste fenomeno, eravamo probabilmente troppo preoccupati a leccarci le tragiche ferite della Seconda Guerra Mondiale appena persa.

Ma di lì a poco (nel 1954) in Italia sarebbe arrivata la televisione che, suo malgrado, avrebbe cambiato, oltre il modo di vedere le notizie, anche quello di farle.

Scritto dallo stesso Wilder assieme a Walter Newman e Lesser Samuels “L’asso nella manica” è ancora un grande capolavoro.

Da vedere.

“Testimone d’accusa” di Billy Wilder

(USA, 1957)

Questo film, che è uno dei migliori adattamenti cinematografici in assoluto fra tutte le opere di Agatha Christie, per l’intensità e i colpi di scena è stato spesso attribuito ad Alfred Hitchcock, ma a firmarlo invece è uno dei maestri indiscussi della commedia: Billy Wilder, che dimostra ancora una volta tutte le sue doti dietro la MDP.

Se un bravissimo Tyrone Power ci regala uno dei suoi rarissimi personaggi oscuri, Marlene Dietrich incarna una dark lady memorabile.

Ma in questa pellicola ad incastro perfetto spicca a un palmo sopra agli altri il grande e indimenticabile Charles Laughton – primo attore inglese nella storia ad essere ammesso alla Comédie-Française, e uno dei massimi interpreti e conoscitori delle opere di William Shakespeare, con il quale, per esempio, si confrontava anche Vittorio Gassman per le sue regie teatrali – che veste i panni di Sir Wilfred avvocato difensore di Leonard Vole/Tyrone Power.

A Laughton viene assegnato il David di Donatello come miglior attore straniero dell’anno, mentre  ad Elsa Lanchester sua moglie nella vita, nel ruolo della combattiva infermiera che se ne prende cura, il Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Da vedere e rivedere anche se già si conosce il finale!

“Smashed” di James Ponsoldt

(USA, 2012)

Il dramma dell’alcolismo non è mai stato facile da portare sul grande schermo, eccezion fatta per il grande Billy Wilder – in tempi in cui non era riconosciuto neanche come una vera e propria malattia – con il suo “Giorni perduti” del 1945.

Ma questa piccola pellicola – nel senso di “produzione indipendente” e con un cast non di grido – riesce a farci entrare nella vita e nella pelle di un’alcolista, nelle sue menzogne quotidiane e nell’oblio irresponsabile che l’alcol provoca.

E, come accade nella realtà, la strada che porta alla sobrietà passa anche per l’umiliazione e il dolore: per salvarsi bisogna cambiare vita. Radicalmente.

Con una bravissima Mary Elizabeth Winstead “Smashed” – che vuol dire sbronzo e allo stesso tempo rotto – è da vedere, soprattutto per quelli che sottovalutano il dramma, proprio o altrui, dell’alcolismo.

Premio Speciale della Giuria del Sundance Film Festival 2012.

“A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder

(USA, 1959)

Dite quello che vi pare, ma qui parliamo semplicemente di un caposaldo della cinematografia planetaria.

Nonostante i numerosi decenni passati, e le mode che al momento non sembrano favorire le donne con le curve, Marilyn “Zucchero Kandisky” Monroe è una delle figure più sensuali di tutti i tempi.

Fra i primi casi di “travestimento” nel cinema hollywoodiano, soprattutto quello di un macho sex symbol come era allora Tony Curtis, il film di Billy Wilder (scritto assieme a I.A.L. Diamond) è una commedia perfetta, come poche altre.

E poi la scena finale col “Nessuno è perfetto!” e la faccia sconsolata di Jack Lemmon …inarrivabile.