“Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle

(Italia/Francia/Germania Ovest, 1974)

Agli inizi degli anni Sessanta Louis Malle si trovava in Algeria per seguire le vicende finali di quella che comunemente è chiamata la Guerra d’Algeria, e che portò all’indipendenza dai suoi storici colonizzatori d’oltralpe il Paese magrebino.

Una notte, racconta lo stesso Malle, divise la stanza con un anonimo uomo con gli occhiali e dall’aspetto grigio e insignificante, tipico da “impiegato del Catasto” (direbbe qualcuno ignorando colpevolmente i solerti lavoratori presso tali uffici). Questo ometto senza il minimo carisma lavorava per il Governo francese, per il quale “recuperava” informazioni dai prigionieri. Ovvero era un torturatore a tutti gli effetti. Quello che più impressionò Malle era la terrificante banalità del male che quell’uomo incarnava.

Decise così di girare un film sull’argomento, ma la Guerra d’Algeria si stava allora chiudendo e lui era a conoscenza soprattutto delle “ragioni” francesi. Scelse così l’epoca finale del regime filo nazista di Vichy, quello presieduto dal maresciallo Pétain nella Francia spaccata del 1944.

Lucien (un bravo Pierre Blaise che perirà in un incidente automobilistico pochi mesi dopo aver concluso le riprese, vicenda la sua simile a quella di Alessandro Momo dopo “Profumo di donna” di Risi) è un diciassettenne che lavora come sguattero nell’ospizio di una piccola cittadina nel sud ovest, nei pressi del confine con la Spagna. Suo padre è stato fatto prigioniero dai tedeschi e un pomeriggio, tornando nel paesino dove i suoi genitori gestiscono una fattoria, scopre che sua madre ha una relazione col padrone delle terre.

Senza più nessun punto di riferimento, il giovane decide di abbandonare tutto e raggiungere i partigiani, sperando così in un’affermazione personale e in una vera e propria identità sociale. Ma il maestro di scuola del paesino, che clandestinamente è anche uno dei capi locali della Resistenza, lo rifiuta perché troppo giovane, ignorante e scostante.

Sconsolato, Lucien decide tornare in città ma sulla strada buca una gomma della bicicletta, cosa che lo fa arrivare a destinazione ore dopo il coprifuoco. Il giovane così, passando davanti all’albergo occupato dal comando cittadino della Gestapo, viene fermato. I collaborazionisti intuiscono subito la sua ingenuità e lo seducono ostentando il loro potere, la bella vita, le donne e i soldi facili. Lucien così racconta loro del maestro di scuola del suo paesino che subito viene arrestato.

Il giovane Lacombe viene reclutato ufficialmente nella Polizia tedesca che subito gli regala un distintivo e una pistola. Seguendo uno dei suoi capi, Lucien s’imbatte nel sarto parigino Albert Horn (il bravissimo Holger Löwenadler), e soprattutto in sua figlia adolescente France (Aurore Clément).

Gli Horn, di religione ebraica, fuggendo da Parigi si sono rifugiati clandestinamente nella piccola città di provincia. Lucien s’invaghisce di France e così inizia a frequentare sempre più spesso la casa del sarto. Ma gli Alleati sbarcano in Normandia e la guerra sembra finalmente volgere al termine…

Splendido film del maestro francese Malle che racconta superbamente la storia di un giovane semplice e rozzo, che viene sedotto dal lato feroce e oscuro della società proprio per la sua ingenuità, che gli farà compiere atti atroci e ignobili. Cosa che tragicamente è tornata tanto attuale.

Scritto dallo stesso Malle assieme a Patrick Modiano, Fabio Rinaudo e Margherete von Trotta “Cognome e nome: Lacombe Lucien” è davvero un film immortale che venne candidato all’Oscar come miglior pellicola straniera, e battuto solo dall’”Amarcord” di Fellini.

Deve essere ricordato, inoltre, il produttore Franco Cristaldi, forse il più geniale e illuminato del nostro cinema, senza nulla togliere a Ponti e De Laurentiis. Nel cast appare anche una bravissima Ave Nichi, tanto per farci tornare in mente quanto fosse brava e la sua recitazione davvero internazionale.

“Totò e le donne” di Steno e Mario Monicelli

(Italia, 1952)

Scritto da Steno, Mario Monicelli, Age e Furio Scarpelli (ma diretto solo da Steno, anche se nei titoli di testa appare accanto il nome di Monicelli) questo film segna uno dei punti di svolta del nostro cinema: arriva la grande commedia all’italiana.

Se è vero che sono presenti alcuni elementi ben riconoscibili del Neorealismo, è vero anche che questa pellicola punta dritta sulla commedia pura, abbandonando definitivamente i tratti della semplice parodia o della farsa tipica di quegli anni. Gli sceneggiatori e il regista sono quelli che diventeranno fra i protagonisti della grande commedia, così come il suo attore principale che dà prova delle sue stratosferiche capacità recitative.

L’Italia si sta rialzando dopo l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, e se ancora non è arrivato il Boom, sta tornando la voglia di ridere, soprattutto di se stessi. E’ l’Italia delle piccole e “normali” famiglie, quelle che poi fanno la storia del Paese. E’ l’Italia delle maggiorate e delle Miss. Ed è l’Italia del Cav. Filippo Scaparro (altro che principe, l’Imperatore delle risate all’italiana Antonio De Curtis in arte Totò) che è vittima della moglie (una straordinaria come sempre Ave Ninchi) e della figlia (la maggiorata Giovanna Pala) intenta a fidanzarsi col promettente medico Paolo Desideri (un sempre eccezionale Peppino De Filippo).

Ed è l’Italia delle donne, che solo qualche anno prima hanno ottenuto il diritto al voto, e proprio sul rapporto fra i due sessi gira il motore del film. Ma la visione delle donne non è falsamente perbenista e soprattutto maschilista come nella stragrande maggioranza dei film contemporanei (in una sequenza, non a caso, sono prese in giro le pellicole “strappalacrime” e al tempo stesso “morbose” il cui protagonista principale era quasi sempre Amedeo Nazzari).

Infatti, la visione intollerante e misogina del Cav. Scaparro – che in soffitta ha un altarino con tanto di cero dedicato a Landru – alla fine naufraga contro il profondo amore che nutre per la moglie e dalla quale è ricambiato. La lite fra i due, che provoca una temporanea separazione, anche se con toni da commedia, è fra le prime del cinema italiano in cui si da voce alle donne, alle loro insoddisfazioni e alle loro difficoltà quotidiane (Ava Gardner vs Gregorio Pecco…).

Anche la scena in cui Scaparro, senza moglie e figlia che sono in vacanza, tenta di passare una serata con una donnina allegra (così come si chiamavo in maniera ipocrita allora le prostitute) il Cav. incontra Ginetta (Lea Padovani) che lo rende, suo malgrado, partecipe di tutti i suoi guai.

Insomma, in questa memorabile pellicola le donne sono reali, possiedono un’anima e una parola, e non sono più banalmente innocenti, colpevoli, caste o peccatrici. Sono donne.