“Nella città l’inferno” di Renato Castellani

(Italia, 1959)

Isa Mari (1910-1992), pseudonimo di Luisa Rodriguez, pubblica nel 1953 il romanzo “Roma, Via delle Mantellate” in cui racconta la sua esperienza di detenuta nel carcere femminile di Regina Coeli, che si trovava allora nella storica via delle Mantellate, a Trastevere.

La Mari aveva passato 8 mesi lì per motivi politici, e lì aveva conosciuto l’universo terribile del carcere femminile. Qualche anno dopo lo storico produttore Giuseppe Amato – primo finanziatore nel 1945 del film scritto da Sergio Amidei e diretto da Roberto Rossellini che poi prenderà il titolo di “Roma città aperta”, nonché de “La dolce vita” di Federico Fellini, e che diventerà successivamente il suocero di Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer – ne compra i diritti per fare un film la cui protagonista sarà Anna Magnani.

Come regista Amato sceglie Renato Castellani, che ha già firmato ottime pellicole come lo splendido “Due soldi di speranza” nel 1952. Per la sceneggiatura il produttore si rivolge a una delle colonne portanti del nostro cinema: Suso Cecchi D’Amico, che proprio con Castellani firmò il suo primo script nel secondo dopoguerra.

Per scrivere la sceneggiatura e i dialoghi Cecchi D’Amico, accompagnata da Castellani, si reca numerose volte a Regina Coeli e parla sia con le detenute che con le suore che allora provvedevano alla loro gestione. Nasce così il film che vede, assieme a “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini e “Risate di gioia” di Mario Monicelli, una delle più grandi interpretazioni cinematografiche di Anna Magnani.

L’ingenua Lina (una bravissima Giulietta Masina) dentro un furgone della Questura viene condotta nel Carcere Giudiziario di Regina Coeli. Mentre le altre sono evidentemente consumate alla trafila, lei non riesce a trattenere i singhiozzi dicendo a tutti di essere innocente del furto con scasso di cui è stata accusata.

Le suore, che si occupano delle recluse, la portano nella grande cella che ospita, fra le altre, Egle (una stratosferica e prorompente Anna Magnani che recita per quasi tutto il film in una memorabile sottoveste nera) alla sua ennesima condanna. L’impatto per Lina è devastante ma lentamente la donna, grazie anche proprio ad Egle, riesce ad ambientarsi e a confidare alle compagne di cella il raggiro che ha subito dal suo presunto fidanzato Adone (Alberto Sordi) che la circuita per svaligiare la casa in cui prestava servizio.

Ma la storia di Lina è come quella di molte altre che, vittime degli uomini, non hanno avuto più una scelta, reiette ed escluse dalla società “perbene” che non concede loro una seconda possibilità, in quanto donne peccatrici. Ma alla fine, anche il cuore duro di Egle si addolcirà per aiutare la giovanissima Marietta (Cristina Gajoni) a non finire come lei…

Bellissima pellicola, fiore all’occhiello del nostro grande cinema d’autore, che ci racconta meglio di mille saggi o articoli la società italiana del tempo. Una società profondamente maschilista e patriarcale dove una donna macchiata dalla prigione, una volta uscita, per sopravvivere aveva quasi sempre solo una strada: il marciapiede.

E così invece che redimere la cella, per una donna degli anni Cinquanta, era una vera e propria condanna senza appello trasformandole in facili prede che finivano inesorabilmente in bocca alla bassa criminalità.

Non si può poi parlare delle interpretazioni delle due protagoniste, così caratterialmente differenti, e al tempo stesso così straordinarie. Ma la bravura e la sensualità della Magnani svettano, e donano a Egle una carnalità tragica e al tempo stesso euforica quasi unica nel nostro cinema del tempo e raggiunta, forse, solo decenni dopo.

Nel film, oltre a quello di Sordi, ci sono numerosi e godibilissimi camei come quelli di Renato Salvatori nei panni di Piero il fidanzato di Marietta, Sergio Fantoni in quello del Giudice Istruttore e Saro Urzì nelle vesti del secondino che scheda Lina.

Da vedere.

Per la chicca: Isa Mari, qualche tempo dopo aver pubblicato “Roma, Via delle Mantellate” (che è stato ripubblicato successivamente col titolo “Nella città l’inferno”) ha scritto un altro romanzo adattato poi per il grande schermo: “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata” diretto da Luigi Zampa nel 1971 con, nuovamente, Alberto Sordi e una bellissima Claudia Cardinale.

“Roma” di Federico Fellini

(Italia/Francia, 1972)

A circa trent’anni dal suo effettivo arrivo nella Città Eterna, Federico Fellini decide di raccontarlo nel film che dedica alla metropoli che è ormai diventata la sua terra d’adozione.

Così riprendiamo idealmente la fine de “I vitelloni” in cui Moraldo/Federico sale sul treno lasciando Rimini per cercare fortuna e, soprattutto, se stesso. L’impatto con la capitale dell’Impero – siamo nel 1939 e l’ombra dell’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale si staglia all’orizzonte – già sul marciapiede della stazione è travolgente. Il giovane riminese osserva la flora e l’incredibile fauna che segneranno in maniera indelebile la sua esistenza privata e creativa. Così come l’arrivo nell’edificio che ospita la sua pensione sita in via Albenga, edificio che Fellini fece ricostruire interamente nel suo studio preferito di Cinecittà.

A fare gli onori di casa e a introdurre il giovane Federico nella sua nuova città ci sono le donne, e non solo quelle romane: ma tutte quelle che a Roma – come lui stesso – hanno scelto o dovuto vivere, loro malgrado. Come la sua enorme padrona di casa immobilizzata a letto, la cameriera tuttofare della pensione, la pensionante accanto alla quale mangia in trattoria, le “ragazze” che lavorano nelle terribili case di tolleranza, o la principessa decaduta che ormai vive solo di ricordi.

Fellini così ci sottolinea che Roma è donna: amata ma al tempo stesso usata, abusata e sfruttata dagli uomini. Ma che nonostante ciò sopravvive, soddisfa e “allatta” tutti, anche gli uomini che in quel momento sono impegnati ed eccitati nei loro giochi sanguinari di guerra. L’incarnazione della Città Eterna, è infatti per il geniale cineasta riminese, una prostituta di mezza età, matrona dalle grandi forme, col trucco pesante e dallo sguardo rassegnato ma attento, che scende nel cuore della notte dall’ennesima automobile sulla passeggiata archeologica. Volto su cui il regista basa la locandina del film.

E la voce a Roma la dà l’immensa Anna Magnani – che Fellini conosce personalmente dai tempi di “Roma Città Aperta”, e che purtroppo è alla sua ultima apparizione cinematografica – che alle domande fuori campo dello stesso regista sull’essenza della città risponde laconica e sorridendo: “a Federì và a dormì: …nun me fido”.

Capolavoro assoluto della cinematografia, dove le immagini hanno la prevalenza sui dialoghi, con delle scene ancora oggi – a distanza di cinquant’anni – potenti e struggenti. Scritto dallo stesso Fellini assieme a Bernandino Zapponi, questo film è ancora un ritratto affascinante e al tempo stesso attuale della città che da millenni muore e rinasce sdraiata sui sette colli. L’omaggio dichiarato di Paolo Sorrentino nel suo “La grande bellezza” ne è l’ennesima dimostrazione.

Di diritto nella storia del cinema il segmento dedicato al teatrino della Barafonda che coglie, come poche altre pellicole hanno saputo fare, l’anima sorniona e cruda non solo dei romani, ma di tutti gli italiani.

Da vedere, naturalmente.

Federico Fellini

A vent’anni dalla morte del grande Federico Fellini è ancora viva e fertile la sua eredità.

Al cinema, come molti della mia generazione, in realtà ne ho viste poche di opere felliniane: “E la nave va” (1983) con la mia scuola media, “Ginger e Fred”(1986), ”Intervista”(1987) e “La voce della Luna”(1990).

Il resto della sua cinematografia  – tranne poi in qualche rara retrospettiva in pellicola – solo attraverso il piccolo schermo.

E nonostante questo, film come “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “La dolce vita”, il grande “8 e ½” e “Amarcord” mi hanno stregato e affascinato.

Del suo genio, soprattutto oggi, tutti ne parlano sviscerandone ogni piccolo elemento ma, oltre a queste cose, io vorrei semplicemente ricordare la grande ironia che impregna ogni sua opera. Non è un caso che fosse nato come autore di battute e gag, fra gli altri di Aldo Fabrizi, lavoro per il quale incontrerà Sergio Amidei, Roberto Rossellini e Anna Magnani sul set di “Roma Città Aperta”.

Film per il quale firma due scene memorabili: l’imbarazzo di don Pietro (interpretato da Fabrizi) davanti alla statua di una ninfa nuda e la fantastica battuta: “ammappelà Don Piè che padellata che j’avete dato!” che poco dopo dice un ragazzino alla stesso don Pietro.

Di battute e sketch esilaranti sono pieni tutti i suoi film, ma io ne preferisco due su tutte: la ricostruzione di una sera all’avanspettacolo durante la Seconda Guerra Mondiale in “Roma”, e i due pittori sospesi sulla grande scenografia in “Intervista”.

Un ultima cosa: leggendo di come Fellini fosse stato e sia tutt’ora un monumento alla cultura italiana, l’emblema di come il genio italico possa essere amato e preso ad esempio nel mondo mi chiedo – oggi come vent’anni fa – ma perché allora aveva tutti quei problemi per trovare produttori disposti a finanziargli un film?

Mi ricordo bene, infatti, che alla fine degli anni Ottanta, fra gli addetti ai lavori, ci si lamentava di questo. E’ vero, il cinema italiano a causa della televisione era economicamente – e non solo! – in crisi.

Ma era davvero così complicato e rischioso produrre un film che certamente poi si sarebbe stato venduto in tutto il mondo? I più maligni imputavano la cosa non tanto a ragioni di distribuzione, ma a una specie di ripicca nata dal film “Ginger & Fred”.

Nel film una vecchia coppia di ballerini viene richiamata sulla ribalta per partecipare a uno show revival presso una televisione privata, il cui proprietario è uno strano commendatore che vanta di avere un passato artistico di nome Lombardoni …ma certamente si tratta di cattiverie, solo cattiverie!