“I fratelli De Filippo” di Sergio Rubini

(Italia, 2021)

Eduardo De Filippo è il nostro secondo drammaturgo più tradotto e rappresentato al mondo, dopo Luigi Pirandello e prima del Nobel Dario Fo.

Sulle sue opere immortali e “drammaticamente” sempre attuali sono stati scritti numerosi libri e saggi, ma soprattutto le possiamo rivedere e apprezzare tutte le volte che vogliamo visto che lui fu il primo grande autore che comprese l’importanza della televisione sin dai suoi albori, mettendo in scena appositamente per la neonata RAI Radiotelevisione Italiana la commedia “Miseria e nobiltà” proprio per festeggiare i cento anni dalla nascita di Eduardo Scarpetta e poi, nel corso degli anni, registrò quasi tutte le sue opere grazie anche alla collaborazione dell’allora delegato RAI Andrea Camilleri.

Ma sulla sua dura infanzia e sui suoi inizi artistici non sono molte le opere, a parte questo film scritto dallo stesso Rubini assieme a Carla Cavalluzzi (che con Rubini ha scritto “Dobbiamo Parlare”) e Angelo Pasquini, che ci racconta la storia dei tre fratelli De Filippo dal momento della loro unione alla prima assoluta della splendida “Natale in Casa Cupiello” avvenuta proprio la sera del Natale del 1931 a Napoli.

Alla soglia del secondo decennio del secolo scorso il piccolo Peppino De Filippo viene portato dalla balia, con la quale è cresciuto, a casa di sua madre Luisa De Filippo (Susy Del Giudice) dove incontra per la prima volta i suoi fratelli maggiori Titina e Eduardo. I bambini e la loro mamma vivono mantenuti dallo “zio” Eduardo Scarpetta (Giancarlo Giannini), il più famoso autore e attore teatrale napoletano del momento.

Anche se durante le festività comandate i tre, assieme alla madre, possono sedersi al tavolo degli Scarpetta, nessuno – compreso lo stesso grande attore – si astiene dal ricordare loro di essere degli estranei di rango “inferiore” appena tollerati.

Quando i piccoli fratelli scopriranno loro malgrado che lo “zio” è in realtà il loro padre naturale la
situazione non cambierà affatto. Se il grande attore non dona loro il suo cognome, passa però ai tre piccoli l’amore e l’arte per il teatro facendoli recitare accanto a lui sul palcoscenico da subito. Ma il nome della compagnia è Scarpetta e col passare degli anni a prenderne le redini è Vincenzo (Biagio Izzo) erede ufficiale di Eduardo, che lo sostituisce quando questo si ritira definitivamente dalle scene.

La parte dell’attor giovane viene quindi affidata a Eduardo De Filippo (Mario Autore) che brilla subito quasi come il padre, cosa che suscita non poche indivie in suo fratello Peppino (Domenico Pinelli) come nel suo fratellastro Vincenzo. Ma Eduardo sente di dovere andare oltre la classica farsa, tipica del teatro leggero dell’Ottocento e di cui suo padre era maestro, soprattutto dopo aver visto “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello.

Così accetta un ingaggio a Milano nel teatro classico, cosa che di fatto apre la porta a Peppino che lo sostituisce nella compagna Scarpetta. Ma l’ambiente e il teatro nel capoluogo lombardo non sono adatti al giovane napoletano che si sente un pesce fuor d’acqua e così, cospargendosi il capo di cenere, chiede al fratellastro di tornare a lavorare nella compagnia di famiglia anche solo come autore. Vincenzo lo accetta a braccia aperte, conoscendo bene il suo talento, ma non gli risparmia umiliazioni e vessazioni pubbliche.

E proprio dopo una di queste, assieme a Peppino, alla sorella Titina (Anna Ferraioli Ravel) e a suo marito Pietro Carloni (Francesco Maccarinelli) decide di fondare la compagnia del “Teatro Umoristico i De Filippo” usando quel cognome da sempre schiacciato e umiliato da quello degli Scarpetta…

Sfiziosa pellicola sulla vita di alcune delle figure più rilevanti del nostro Novecento troppo spesso, tranne naturalmente lo stesso Eduardo, associate solo all’ambito comico come Titina e soprattutto Peppino che forse sul palcoscenico sapeva fare ridere ancora di più del fratello. La colonna sonora è firmata da Nicola Piovani per la quale il musicista ha vinto il David di Donatello.

“Il giovane Wallander” di Ben Harris

(UK, 2020)

Nel 1991 viene pubblicato in Svezia “Assassinio senza volto” di Henning Mankell, in cui appare per la pima volta fra le righe di un libro il commissario Kurt Wallander. Dopo Martin Beck, nato dalla penna geniale della coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö, Kurt Wallander è senza dubbio il commissario più famoso della Scandinavia, protagonista di una dozzina di libri che nel corso degli anni sono stati tradotti in quasi tutte le lingue.

Purtroppo Mankell è scomparso nel 2015 dopo aver combattuto strenuamente contro un cancro, facendo fede al credo del suo personaggio più famoso: “…non arrendersi mai”. Così, noi tristi lettori, ci eravamo già rassegnati a non vivere più una nuova indagine del suo commissario, ma dallo scorso 3 settembre è disponibile su Netflix la serie, di produzione inglese e in sei puntate, “Il giovane Wallander” ideata da Ben Harris.

Sulla scia del maestro Andrea Camilleri che in maniera geniale ha donato nuovo spunto e fascino al suo già intramontabile commissario televisivo ideando “Il giovane Montalbano”, Harris torna alle origini. La serie inizia infatti quando il “giovane” Kurt è ancora un semplice agente della Polizia svedese che ha scelto di vivere in una delle periferie più disagiate di Malmö, nella Scania meridionale.

Una sera, proprio sotto il piccolo e solitario appartamento in cui vive Wallander (Adam Pålsson), davanti ai suoi occhi, viene fatta esplodere una granata nella bocca di un ragazzo. La tragedia non fa altro che alimentare la feroce e reazionaria protesta di alcuni svedesi, che vedono negli immigrati che la città sta accogliendo la ragione di ogni male e violenza nel loro Paese.

Proprio perché sul posto al momento del delitto e residente nel quartiere, Wallander viene trasferito quasi di peso nella sezione Grandi Crimini della Polizia di Malmö. A volerlo è il responsabile, il sovrintendete Hemberg (Richard Dillane) che per primo intravede nel giovane le sue grandi doti investigative. Ma…

Gradevole e intrigante serie giallo/noir che centra l’animo del Wallander di Mankell, che in “Assassino senza volto” esterna il suo credo: “Il concetto di giustizia non significa solo che le persone che commettono reati vengano condannate. Significa anche non arrendersi mai”. Così come all’attenzione che Mankell poneva in favore dei più deboli della società come gli immigrati o il sub proletariato urbano.

Ottimo connubio artistico fra la Gran Bretagna e la Svezia che di fatto sono i genitori storici del grande giallo europeo.

“La famosa invasione degli orsi in Sicilia” di Lorenzo Mattotti

(Francia/Italia, 2019)

Dopo quasi settantacinque anni arriva un ottimo adattamento cinematografico del romanzo – edito per la prima volta a puntate sul “Corriere di Piccoli” nel 1945 – “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” di Dino Buzzati.

A scrivere la sceneggiatura sono lo stesso Lorenzo Mattotti, Thomas Bidegain (già coautore dello script dell’ottimo “La famiglia Bélier” di Eric Lartigau) e Jean-Luc Fromental. La storia di Re Leonzio e del suo popolo di diecimila orsi che dalle montagne scende a valle in una onirica Sicilia del passato, si dipana abbastanza fedelmente allo scritto di Buzzati.

Sulla strada per Caltabellotta (nei pressi di Agrigento) il cantastorie Gedeone (nella nostra versione doppiato da Antonio Albanese) e la sua giovanissima assistente Almerina (Linda Caridi) si rifugiano in una grotta per passare la notte.

Scoprono però che l’antro è occupato da un vecchissimo orso (la cui voce è quella indimenticabile del maestro Andrea Camilleri) e, per non essere mangiati, i due gli raccontano la storia della famosa invasione degli orsi avvenuta quando la Sicilia era piena di altissime montagne.

Con deliziosi disegni che ricordano splendide e immortali opere come quelle di Dalì o di De Chirico, riviviamo la ricerca disperata che Leonzio (con la voce di Toni Servillo) fa di suo figlio Tonio, rapito da alcuni cacciatori.

Assistiamo agli assalti vili e crudeli che il Granduca lancia contro il popolo degli orsi, a come gli orsi poi riescano a sconfiggerlo e, soprattutto, a come Re Leonzio ritrovi suo figlio e diventi il sovrano di tutta l’isola, fino a quando il suo braccio destro Salnitro (doppiato stupendamente da Corrado Guzzanti) clandestinamente…

Davvero una bellissima pellicola d’animazione di alta qualità, dove tutto – i disegni come la colonna sonora – si armonizza col racconto fantastico (in tutti i sensi!) di Buzzati.

Da vedere.

“Il cuoco dell’Alcyon” di Andrea Camilleri

(Sellerio, 2019)

Ecco, ci siamo. Questo è il primo romanzo del Commissario Montalbano che finisco senza il suo creatore, il Maestro Andrea Camillieri, scomparso poche settimane fa.

La sensazione è strana, tutto – o forse è più giusto dire quasi tutto… – il nostro Paese si è stretto nel cordoglio per la perdita di uno dei più letti autori italiani degli ultimi vent’anni, oltre che un grande intellettuale.

Camilleri ha pubblicato oltre 100 libri, e pensare che il suo primo romanzo fu rifiutato da molte delle nostre più rilevanti case editrici (come raccontò lui stesso in un’intervista al “Resto del Carlino” nel 1999) le stesse che oggi lo osannano. E se non fosse stata per l’autopubblicazione e la televisione Montalbano non sarebbe mai stato pubblicato. Ma questo è un altro discorso…

Torniamo a quest’ultima opera – al momento pubblicata – del grande scrittore siciliano. Nasce dallo sviluppo, come ci confida l’autore nelle noti finali, della sceneggiatura di un film che sarebbe dovuto essere coprodotto fra Italia e Stati Uniti.

E così troviamo il sessantenne Salvo Montalbano alle prese con la vecchiaia e con la vaga idea di andare in pensione. Ma quando le cose sembrano davvero portarlo al “riposo”, al commissario di Vigatà gli cominciano davvero a girare i cabasisi…

Crepuscolare, ma alquanto movimentata, deliziosa avventura di Montalbano che di fatto ci congeda dal suo autore che se ne è andato ultranovantenne, ma certamente molto più giovane di tanti suoi connazionali iscritti all’anagrafe decenni dopo di lui.

Come sempre, quando se ne vanno le grandi personalità della cultura, siamo tutti più poveri. Ma almeno ci sono rimasti i suoi libri (nonostante la lungimiranza di alcune brillanti e capaci menti della nostra più importante editoria).

“L’altro capo del filo” di Andrea Camilleri

(Sellerio, 2016)

Mentre la sua Vigàta è meta quotidiana di sbarchi notturni di poveri e disperati migranti, che attraversano il mare in cerca di una speranza che troppo spesso si trasforma in un abisso senza fondo – che inghiotte soprattutto donne e bambini – o in centri d’accoglienza, il Commissario Montalbano è quasi testimone del brutale assassinio di Elena, un’avvenente sarta da qualche anno trasferitasi in città.

A mandarlo da Elena, pochi giorni prima del delitto, è stata Livia. I due sono invitati ad una cerimonia e Salvo aveva bisogno di un vestito nuovo.

Montalbano così si trova attore principale – come sempre – nell’indagine dell’omicidio della donna, che da viva era davvero molto affascinante, ma nascondeva un fitto mistero alle spalle…

Con il maestro Camilleri, il semplice incastro investigativo ha forse poca importanza, quello che conta e che rende unico il “poliziotto” di Vigàta, sono le atmosfere, i personaggi disegnati e gli occhi di Montalbano che sanno guardare il mondo come pochi altri…

Da leggere. Come sempre.

“Il giovane Montalbano” di Andrea Camilleri

(Italia, dal 2012)

Il commissario Salvo Montalbano, grazie al genio di Andrea Camilleri – coadiuvato da Francesco Bruni – alla bravura di Luca Zingaretti e alla regia di Alberto Sironi, è diventato uno dei – pochi… – simboli positivi recenti del nostro Paese. Tanto che ogni qualvolta viene trasmessa una puntata in prima o in replica, gli ascolti (come si diceva una volta) sono sempre ottimi.

Non era facile mettere le mani su una serie così di successo, ma il grande Camilleri ha trovato il colpo di genio. Partendo dalla semplice domanda: “com’era Salvo, prima di diventare Montalbano?” Camilleri ha ideato una serie dedicata agli inizi della carriera di commissario del suo protagonista.

Arriviamo così a Vigata agli inizi degli anni Novanta, quando Montalbano, vice commissario in un piccolo paesino dell’entroterra, viene promosso e assegnato nella città in cui è nato. Il suo Commissariato è stato appena inaugurato e lui ne prende possesso non senza preoccupazioni.

Oltre ai casi verticali, che trovano la loro conclusione nella stessa puntata, nel corso di tutta la serie scopriamo lentamente l’arrivo di ogni personaggio che poi diventerà fondamentale nella serie con Zingaretti. Assistiamo magicamente ai primi incontri di Montalbano con Catarella, Fazio, Augello, Pasquano e ovviamente Livia.

Oltre alla “solita” bravura della coppia di sceneggiatori Camilleri-Bruni, bisogna riconosce quella dietro la macchina da presa di Gianluca Maria Tavarelli, e soprattutto quella di Michele Riodino che, nonostante la scarsa somiglianza con Zingaretti e la folta e riccia chioma, prende in pieno Montalbano, arrivando a farci credere tranquillamente di essere lo stesso che poi interpreterà l’attore romano.

“Le avventure di Laura Storm” di Leo Chiosso e Camillo Mastrocinque

(Italia, 1965/66)

Questa serie poliziesca, con un forte accento di commedia, nasce come risposta a quella molto bogartiana de “Il tentente Sheridan” con Ubaldo Lay. Ma, nonostante ciò, a distanza di cinquant’anni possiede ancora elementi particolari e innovativi che quella con Lay non ha.

Ideata da Leo Chiosso – uno dei più famosi parolieri del nostro Novecento – e Camillo Mastrocinque – uno dei maestri della grande commedia all’italiana – questa serie è andata in onda in otto puntate dal 1965 al 1966.

Laura Perrucchetti (una affascinante quanto brava Lauretta Masiero) lavora come giornalista presso il giornale “L’Eco della Notte” usando lo pseudonimo di Laura Storm per firmare i suoi articoli, incentrati sempre sulla moda e la mondanità. Ma Laura è una donna molto particolare: ama le arti marziali, è indipendente, fuma e ha una relazione fatta di alti e bassi col suo direttore Carlo Steni (Aldo Giuffrè). Lei vorrebbe dedicarsi alla cronaca nera, ma Steni si oppone fino a quando la stessa Storm non è implicata direttamente in un misterioso delitto.

Nel cast fisso appaiono anche Oreste Lionello e Stefano Sibaldi. E Andrea Camilleri, così come nelle “Inchieste del Commissario Maigret” con Cervi, è il delegato della produzione. Ma al di là dei casi gialli specifici, che spesso sono molto semplici, ciò che ancora colpisce è la modernità della figura della protagonista, che spesso le dà di santa ragione a maschi bruti e prepotenti.

Si può solo immaginare la reazione indignata di molti ben pensanti che vedendola in tv sbuffarono furenti. La RAI la trasmise in seconda serata. Non ci scordiamo che noi, fino a non troppi anni fa, eravamo il Paese del delitto d’onore, dove la Legge cancellava le condanne per stupro se l’aguzzino accettava di sposare la sua vittima. E’ importante ricordare pure che nel 1965 non c’era ancora il divorzio, e l’aborto era vergognosamente ancora illegale.

Nei dialoghi si respira l’aria di quella rivoluzione sociale che sta per arrivare (ma che poi cambierà molto poco rispetto a quello che aveva promesso) grazie alla quale le donne finalmente pretenderanno i loro diritti. Davvero un documento sulla nostra società che stava cambiando. Da vedere, ovviamente solo in rete, visto che è introvabile altrove.

Per la chicca: la sigla finale, scritta da Chiosso e Dorelli, allora compagno della Masiero, è cantata da un giovane Fausto Leali.

“Il Commissario Montalbano” di Alberto Sironi

(Italia, dal 1999 al 2021)

Ho avuto la fortuna di bazzicare, per un corso, la RAI proprio nelle settimane in cui vennero trasmesse, nel 1999, le puntate della prima serie ispirata al personaggio creato da Andrea Camilleri.

L’aria che si respirava intorno alla serie – già in post produzione considerata “troppo” innovativa per la nostra televisione – era quella di limitare i danni (in termini di ascolti) della fiction “L’ispettore Giusti” con Enrico Montesano, che il giovedì sera trasmetteva Mediaset in risposta al grande successo “Il maresciallo Rocca” delle stagioni precedenti.

La storia, e soprattutto lo share, ci hanno detto chi preferì il pubblico quei giovedì, e che a distanza di ormai 15 anni continua a preferire.

Il segreto del successo sta in numerosi elementi, il più evidente è Luca Zingaretti (che Camilleri ha sempre considerato lontano anni luce dal “suo” Montalbano), ma forse i più importanti sono le sceneggiature e la regia.

Per le prime il merito deve andare allo stesso Camilleri (che si è fatto le ossa, fra l’altro, partecipando all’indimenticabile produzione RAI “Le inchieste del Commissario Maigret” con Gino Cervi) e poi anche alla freschezza e alla bravura di Francesco Bruni.

Per la regia, invece, si deve riconoscere ad Alberto Sironi di aver portato in televisione un linguaggio visivo incalzante, innovativo e soprattutto efficace, sapendo scegliere anche le attrici e gli attori nei ruoli principali come in quelli marginali molto bravi e credibili.

Davvero una bellissima serie tutta italiana.

“A ciascuno il suo” di Leonardo Sciascia

(Adelphi, 1988)

Quando il 20 novembre del 1989 Leonardo Sciascia ci lasciava, ammetto che non compresi davvero l’entità della perdita che la cultura italiana stava affrontando.

Oggi parlare di mafia è considerato un dovere e un diritto, ma Sciascia, durante la sua vita, dovette confrontarsi con una società e, soprattutto, con uno Stato che granitico affermava indignato che: ”LA MAFIA NON ESISTE!”.

Ma oltre a questo grande merito sociale, di cui non si parla mai abbastanza, i libri di Sciascia sono sublimati dall’ironia, quell’ironia che è uno degli indiscutibili pregi della Sicilia, che ha contribuito a rendere così famoso anche il commissario Montalbano di Camilleri (che di Sciascia si è sempre dichiarato un discepolo).

Tutta l’ironia di “A ciascuno il suo” – ma soprattutto quella della sua ultima pagina – rappresenta uno degli apici della nostra letteratura.