“La donna, il sesso e il superuomo” di Sergio Spina

(Italia/Francia, 1967)

Negli ultimi decenni la produzione cinematografica nel nostro Paese si è concentrata soprattutto sui generi della commedia e del thriller.

Ma negli anni Sessanta, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, il cinema italiano rappresentava una delle eccellenze più attive e produttive del pianeta producendo non solo i capolavori immortali di grandi artisti come Rossellini, Fellini, Visconti, Antonioni o Monicelli. Così, oltre al mostro sacro della commedia all’italiana, venivano realizzate pellicole che toccavano tutti i generi, anche quelli meno usuali.

Questo “La donna, il sesso e il superuomo” è uno degli esempi più originali e particolari. Scritta dal giornalista Furio Colombo, Ottavio Jemma e lo stesso Sergio Spina (che qualche anno dopo diventerà il regista del programma televisivo “Mixer”), attraverso il genere della fantascienza, questa pellicola è una fotografia molto particolare della nostra società di allora.

Richard Werner (Richard Harrison) è un uomo di bell’aspetto e con un fisico invidiabile. Vive godendosi i piaceri della propria esistenza assieme alla sua compagna, la fotomodella Deborah Sandor (Judi West). Un giorno però viene rapito da alcuni uomini che lo portano in un laboratorio segreto.

Lì fa la conoscenza del perfido e glaciale Karl Maria von Beethoven (un cattivissimo Adolfo Celi) proprietario della “Fantabulous”, una multinazionale che grazie all’aiuto del professor Krohne (Gustavo D’Arpe) ha creato un super cervellone elettronico il quale, attraverso ad un transistor – che goduria riscrivere un termine ormai così arcaico! – impiantato alla base del cervello di un essere umano, oltre a controllarlo, lo rende un vero e proprio super eroe invincibile.

Non ci mette tanto Werner a capire che lui è stato rapito per diventare il 17esimo esperimento umano, visto che i primi sedici sono morti durante l’intervento e che: “…ci vuole un mediocre per fare un superuomo”. Nonostante le proteste e i tentativi di fuga, a Werner viene impiantato il transistor e così diventa “Fantabulous” il nuovo e moderno supereroe capace di conquistare tutti i mercati globali.

Ma Beethoven e Krohne non hanno calcolato due cose: la prima è che Fantabulous ogni volta che vede Deborah torna ad essere Werner mandando in tilt il cervellone elettronico. E la seconda è l’interesse, molto particolare, di tutte le potenze economiche e militari del mondo che, scoperto “Fantabulos”, lo vorrebbero dalla loro parte per riportare l’ordine in un mondo dove ci sono troppi “cervelli pensanti”, cosa che le rende disposte a pagare qualsiasi cifra e usare qualsiasi mezzo.
Per questo il fascino di Deborah e soprattutto l’incontenibile attrazione sessuale che emana agli occhi del suo fidanzato complicano i piani un po’ di tutti…

Pellicola girata nello stile più psichedelico e caotico degli anni Sessanta, con numerosi inserti di fumetti e immagini reali, accompagnati da dialoghi e scene appositamente sopra le righe – con toni che appariranno anche nello strepitoso “VIP, mio fratello superuomo” di Bruno Bozzetto – che di fatto aprono le porte a quel ’68 che tanto prometteva e così poco ha mantenuto.

Ma il messaggio contro il più feroce capitalismo e militarismo è ben chiaro ed efficace, grazie anche a un bravissimo – come sempre – Celi che richiama per il cognome e soprattutto per la sua folta chioma bianca a quell’Herbert von Karajan che molti in quegli anni accostavano – giustamente o ingiustamente la storia non lo ha detto ancora con certezza – ai “nostalgici” del III Reich.

Come la nostra cultura di allora purtroppo pure questo film, anche se così originale, sconta un approccio grezzo e rozzo alle diversità, tanto da usare più di una volta l’abominevole termine “mongoloide” come insulto a chi non appare così sveglio e lesto. Ma d’altronde, che ci piaccia o no, noi eravamo anche – ma certamente non solo – così. Il che aiuta a spiegare alcune determinanti svolte della storia recente e anche di quella recentissima del nostro Paese.

Adolfo Celi

Il 19 febbraio del 1986 se ne andava Adolfo Celi.

Nato a Messina il 27 luglio del 1922 Celi, figlio di un prefetto, cresce girando l’Italia e nel 1942 approda all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica – che poi prenderà il nome del suo fondatore Silvio D’Amico – assieme a quelli che diventeranno alcuni dei più grandi attori teatrali italiani del secondo Novecento come per esempio Vittorio Gassman, con il quale allaccerà una profonda amicizia per tutta la vita.

Con il suo sguardo tagliente e l’espressione arcigna Celi approda anche al cinema, dove però gli vengono affidati solo ruoli secondari e da classico antipatico. La svolta, sia nella vita che nella carriera, arriva nel 1949 quando Aldo Fabrizi, approfittando di una propria tournée in America Latina gira “Emigrantes” – dedicato ai nostri connazionali che in quegli anni tentano la fortuna nel “nuovo Mondo” – e lo vuole nel cast.

Dopo le riprese Celi decide di stabilirsi in Brasile dove reciterà in teatro diventando direttore di vari teatri pubblici, ed esordendo alla regia anche nel cinema. Agli inizi degli anni Sessanta arriva una nuova svolta: il francese Philippe de Broca, dopo averlo notato proprio in Brasile, lo vuole come antagonista di Jean-Paul Belmondo nel suo “L’uomo di Rio”, film che ottiene un buon successo internazionale e porta Celi a tornare in Italia dopo quindici anni di assenza.

Grazie al film di de Broca, Celi viene chiamato a recitare in numerose pellicole tra cui “Il tormento e l’estasi” di Carol Reed dedicato al genio di Michelangelo Buonarroti, e “E venne un uomo” di Ermanno Olmi sulla vita di Papa Giovanni XXIII.

Ma è nel 1965 che Adolfo Celi impersona il cattivo che lo renderà famoso in tutto il mondo: è suo, infatti, il volto del perfido Emilio Largo, numero 2 della Spectre, antagonista di James Bond-Connery in “Agente 007 – Operazione Tuono (Thunderball)” di Terence Young.

Il successo è planetario, e i ruoli per Celi si moltiplicano, molti dei quali sempre secondari o in film di poco valore, ma alcuni invece che gli permettono di lavorare con grandi registi come Mario Monicelli in “Brancaleone alle crociate”, Luis Buñuel ne “Il fantasma della libertà”, Franco Zeffirelli in “Fratello sole, sorella luna”, Damiano Damiani ne “Il sorriso del grande tentatore”, o Nanni Loy in “Cafè Express”.

Celi torna anche dietro la macchina da presa nel 1969 con il film “L’alibi”, co-diretto con gli amici Vittorio Gassman e Luciano Lucignani.

Per quanto mi riguarda, sono il 1975 e il 1976 gli anni in cui Adolfo Celi lascia il suo segno indelebile nell’immaginario collettivo con alcuni ruoli che, anche se da comprimario, rimangono per sempre stratosferici.

Il primo è quello del perfido e glaciale professor Alfeo Sassaroli nel mitico “Amici miei” di Mario Monicelli. Il secondo è quello dello spietato alfiere della Compagnia delle Indie, il rajah Lord James Brooke che tenta in ogni modo di sopprimere il mito della mia infanzia, la sola e grande Tigre di Mompracem Sandokan, nell’omonimo – stellare, e se è tanto che non lo vedete, riguardatelo perché davvero merita – sceneggiato televisivo diretto da Sergio Sollima nel ‘76.

Lo stesso anno Celi, nel ruolo del giudice, partecipa anche a quello che ormai è considerato cronologicamente l’ultimo esemplare della commedia all’italiana: “Febbre da cavallo” di Steno. Potete pure arricciare il naso, peggio per voi, perché la pellicola di Steno ha davvero momenti di sfiziosa comicità e lascia intravedere profeticamente quello che diventerà la nostra società negli anni successivi.

Nonostante la florida carriera cinematografica, Celi non abbandona mai il teatro nel quale partecipa, da protagonista, a grandi e importanti allestimenti.

Poche ore prima della rappresentazione a Siena de “I Misteri di San Pietroburgo” tratto dall’opera di Fëdor Dostoevskij, Celi accusa un malore tale da dover essere ricoverato d’urgenza. Sul palco lo sostituisce l’amico Vittorio Gassman, che dello spettacolo è il regista.

Dopo alcune lunghe ore d’agonia, il 19 febbraio del 1986 Adolfo Celi muore per un attacco cardiaco. Quel giorno scompare uno dei più grandi attori italiani del Novecento, fra i pochi ad avere avuto una caratura internazionale, nel quale è stato secondo solo a Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi.