“Homecoming” di Eli Horowitz e Micah Bloomberg

(USA, dal 2018)

Il reinserimento dei giovani reduci che tornano dal fronte mediorientale senza particolari traumi fisici ma con gravi problemi psichici ed emotivi, è ancora un grande impegno sociale negli Stati Uniti.

Oltre a tutte le iniziative legate direttamente al Governo, ci sono molte che nascono da enti o società private come la “Homecoming”, creata in piena riservatezza dalla Geist, una delle più importanti industrie americane di detersivi.

A dirigere la Homecoming, in un centro ai bordi di una grande palude della Florida, è la dottoressa Heidi Bergman (una bravissima Julia Roberts) che accoglie e incontra quotidianamente i giovani soldati, instaurando con loro un percorso analitico di sei settimane, supportato da farmaci anti depressivi sperimentali.

Heidi è stata selezionata da Colin Belfast (un altrettanto bravo Bobby Cannavale, nipote nella realtà dell’italiano Enzo) alto dirigente della Geist, un uomo deciso e volitivo, pronto a tutto per fare carriera. Sulla scrivania del diligente impiegato dell’Ispettorato della Difesa Thomas Carrasco (Shane Whigham), però arriva uno strano reclamo anonimo relativo proprio alla Homecoming.

Carrasco, come sempre in casi simili, inizia le indagini d’ufficio. In breve tempo rintraccia la Bergman, che fa la cameriera in un piccolo ristorante, e che afferma di non ricordare nulla del progetto…

Ottima serie scritta, diretta e interpretata davvero bene, con una Roberts che dimostra sempre più la sua caratura d’attrice. Con accenti inquietati alla “Lost”, “Homecoming” ci parla del nuovo corso dell’America di Trump molto – o forse troppo? – simile a quella di Reagan.

Per la chicca: in alcune puntate appare anche Dermot Mulroney nel ruolo del compagno di Heidi, attore che nel 1997 era lo scapolo conteso fra la stessa Roberts e Cameron Diaz ne “Il matrimonio del mio migliore amico”.

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