“L’ereditiera” di William Wyler

(USA, 1949)

Nel 1880 Henry James pubblicò a puntate il romanzo “Washington Square”, ispirato ad un evento realmente accaduto nell’aristocrazia britannica. James sposta la scena a New York e l’ambienta in quella che è considerata una delle piazze più esclusive della città.

Dal romanzo, la coppia di drammaturghi e sceneggiatori Ruth e Augustus Goetz traggono una commedia che sbanca Broadway. William Wyler decide di girare il suo adattamento cinematografico e chiama gli stessi due autori a scrivere la sceneggiatura.

New York, 1850. Austin Sloper (Ralph Richardson) è un facoltoso medico rispettato da tutta la città. Rimasto prematuramente vedovo, non riesce a consolarsi della perdita della moglie che lui reputa ancora l’essere più bello che abbia mai camminato sulla Terra.

Certo non lo consola la sua unica figlia Catherine (una bravissima Olivia de Havilland) scialba, goffa e ingenua, capace solo di realizzare inutili ricami. Grazie però alla rendita di diecimila dollari che le ha lasciato sua madre, Catherine è comunque una ragazza ricca. E lo diverrà ancora di più alla morte del padre che ha stabilito una rendita per lei di ulteriori ventimila dollari.

Nonostante ciò, alle feste a cui viene invitata nessuno sembra notarla, cosa che preoccupa molto suo padre e sua zia Lavinia (Lavinia Penniman). Tutto repentinamente cambia quando ad un party inizia ad essere al centro delle attenzioni del fascinoso Morris Townsend (Montgomery Clift).

Senza aspettare Townsend brucia le tappe del corteggiamento e poco tempo dopo chiede a Catherine di sposarlo. Se lei è fuori di se dalla gioia suo padre, invece, rimane freddo e distaccato. Per lui, infatti, il giovane è solo un cacciatore di dote e mai avrà la sua approvazione.

Nonostante il padre provi in ogni modo a dissuaderla, Catherine è sempre più intenzionata a coronare il suo sogno d’amore, cosa che alla fine provoca uno scontro profondo e irreversibile fra i due.

Per sposare il suo Morris, infatti, lei è disposta a fuggire nella notte e anche a rinunciare ai ventimila dollari in più di rendita, visto che suo padre ha promesso che la diserederà. Ma…

Amarissimo racconto sulle sfortune di una donna che ha la “colpa” di essere “brutta” e “ricca”. Nella storia del cinema è entrata a pieno l’indimenticabile scena finale, che ancora oggi viene scopiazzata.

Wyler dirige superbamente un ottimo cast dove brillano la de Havilland e Clift, che viene consacrato a star di primo livello. Per la sua interpretazione la de Havilland vince, giustamente, l’Oscar come miglior attrice protagonista, il secondo della sua lunga e prolifica carriera.

Per la chicca: solo grazie al successo planetario di questo film, il romanzo originale di Henry James fino ad allora pubblicato solo in inglese, venne tradotto in altre lingue.

“Scandalo a Filadelfia” di George Cukor

(USA, 1940)

Per quanto mi riguarda questa è una delle migliori sophisticated comedy della storia del cinema, di cui i maestri indiscussi sono stati Ernst Lubitsch e, appunto, George Cukor.

Basato sulla commedia teatrale di Philp Barry, con l’ottima sceneggiatura per il grande schermo firmata da Donald Ogden Stewart, “Scandalo a Filadelfia” possiede un cast fra i più affiatati e scintillanti di quegli anni. A partire da Cary Grant, per passare a Katharine Hepburn e arrivando a James Stewart, include anche una serie di grandi caratteristi di Hollywood (come Ruth Hussey, Mary Nash e Ronald Young i cui nomi magari dicono poco, mentre troviamo molto familiari i loro volti) tutti diretti magistralmente da Cukor.

La Filadelfia del titolo è quella delle grandi famiglie dell’upper class americana, che oltre ad ingenti patrimoni hanno dalla loro la “storia”. Sono fra quelle più antiche della città, simbolo dell’Indipendenza dal Regno Unito e quindi faro ed esempio per tutte le altre.

Non è un caso, quindi, che oltre cinquant’anni dopo il primo vero film hollywoodiano di denuncia sulla discriminazioni subite dagli omosessuali affetti dall’HIV (e non) venne ambientato in quella città, simbolo di di tutto il Paese, prendendone anche il titolo: “Philadelphia” di Jonathan Demme, appunto.

Ma torniamo al film di Cukor: proprio per mantenere immacolata la reputazione della sua storica famiglia, Tracy Lord (la Hepburn) decide di non invitare il padre alle sue seconde nozze. Seth Lord (John Halliday) poco tempo prima infatti ha lasciato suo moglie Margaret (Mary Nash) per una giovane e avvenente ballerina, suscitando l’ira incontenibile della figlia maggiore Tracy.

Il giornale scandalistico “Spy” ha in mano un servizio rovente su Seth e la sua amante, e per avere l’esclusiva sul matrimonio di Tracy, ricatta il suo primo marito C.K. Dexter Heaven (Cary Grant) o lui permetterà a un giornalista e una fotoreporter di intrufolarsi come falsi amici alle nozze, o il servizio su Lord senior verrà pubblicato.

Così, il giorno prima delle nozze, arrivano nell’immensa tenuta dei Lord C.K., Macaulay Connor (James Stewart) ed Elizabeth Imbrie (Ruth Hussey). Ma…

Con dialoghi ancora oggi memorabili, soprattutto fra Grant e la Hepburn (forse al massimo del suo fascino) il film viene candidato a sei Oscar: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. La Hepburn viene candidata come migliore attrice protagonista, mentre Stewart e la Hussey come miglior attore e attrice non protagonista. A portare a casa la statuetta saranno solo James Stewart e Donald Ogden Stewart per lo script.

“Lenny” di Bob Fosse

(USA, 1974)

Quando nell’ottobre del 2018 parlai del libro “Come parlare sporco e influenza la gente” di Lenny Bruce, questo bellissimo film era introvabile. Oggi, fortunatamente, è tornato disponibile in dvd.

Il grande Bob Fosse decide di ricordare le fortune e soprattutto le sfortune di uno dei comici più geniali e rivoluzionari del Novecento, considerato il padre della “stand-up comedy”. E lo fa basandosi sulla pièce teatrale omonima scritta da Julian Barry, noto drammaturgo e sceneggiatore americano, che in quel periodo furoreggia a Broadway.

A vestire i panni di Bruce è un bravissimo Dustin Hoffman, e il film – con una serie di flashback concatenati – ricostruisce la vita e l’arte del comico attraverso le interviste alla sua ex moglie Honey (una bravissima Valerie Perrine), a sua madre Sally Marr (Jan Miner) e al suo agente Artie Silver (Stanley Beck).

Quando ancora Bruce è un comico sconosciuto che si esibisce soprattutto in locali di striptease, incontra la provocante Honey, una spogliarellista con una fluente chioma rossa. Scoppia un amore profondo e i due decidono di sposarsi e condividere il palcoscenico.

Ma, sulla strada di Lenny, insieme al successo arrivano anche gli stupefacenti. Grazie alla sua comicità caustica e senza sconti per nessuno, Bruce viene soprannominato la “coscienza d’America”. Cosa che la parte più reazionaria e puritana degli Stati Uniti non gli perdonerà mai, e così il comico verrà travolto da arresti e cause per offese al comune senso del pudore.

Già quando Fosse girò questo film, otto anni dopo la morte di Bruce, le accuse erano ormai considerate ridicole, visto che i termini e soprattutto gli argomenti che molti giudici gli contestarono erano già diventati parte del lessico quotidiano della società. Figuriamoci oggi…

Il film venne giustamente candidato a sei Oscar: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior fotografia (con una pellicola girata totalmente in bianco e nero). Hoffman e la Perrine ottennero la candidatura come miglior attore e attrice protagonista.

Il dvd propone la versione originale fatta quando la pellicola venne distribuita nelle nostre sale con uno stratosferico Gigi Proietti che doppia Hoffman.

“A proposito di niente” di Woody Allen

(La Nave di Teseo, 2020)

Beh, gente, qui abbiano davanti 398 pagine esilaranti, struggenti e anche drammatiche.

Uno dei geni indiscussi del cinema americano (e non solo) si racconta senza mezzi termini in questa irresistibile autobiografia.

Allan Stewart Königsberg nasce nel 1935 in una famiglia della piccola borghesia ebrea americana che vive a Brooklyn. La religione dei suoi parenti non è ovviamente rilevante, se non perché lui diventerà uno dei più grandi e divertenti narratori delle dinamiche delle famiglie americane di tradizione israelitica.

Svogliato e pigro a scuola – nonostante il suo alto Q.I. – il giovane Allan ama il baseball (dove è una delle migliori “seconda base” in circolazione) passare i pomeriggi (o le mattine in cui bigia la scuola) nei cinema per vedere i grandi classici di Hollywood, e girovagare per Manhattan. Si appassiona all’illusionismo volendo diventare da grande un prestigiatore, e usa quello che impara per diventare un giocatore implacabile di poker.

Ancora alle superiori, inizia a scrivere battute per gli addetti stampa di grandi star del momento che le usano per mantenere alta l’attenzione del pubblico sui propri beniamini attraverso articoli di giornale dedicati alla vita mondana del jet set. Fra le vincite al poker e il lavoro di battutista Allan già guadagna molto più dei suoi genitori messi insieme. Propio per il suo nuovo lavoro di autore decide di usare uno pseudonimo.

La televisione si interessa di lui e così inizia a lavorare fianco a fianco ad alcuni grandi autori comici del momento con Sid Caesar, Mel Brooks o Danny Simon (fratello di Neil). Quasi per caso, poi, Woody Allen incontra il cinema. Le prime esperienze di sceneggiatore e attore non sono particolarmente entusiasmanti, ma quando riesce ad avere il controllo totale della produzione (gli investitori lo finanziano senza metter bocca nella sceneggiatura o nelle riprese) le cose cambiano…

In parallelo Allen ci racconta la sua lunga vita amorosa fatta di molte relazioni e quattro matrimoni, il penultimo dei quali con l’attrice Mia Farrow. La drammatica separazione con la stessa Farrow è ancora un ghiotto argomento per i tabloid scandalistici, e non solo, e continua ad avere pesanti strascichi anche nella vita artistica dello stesso Allen.

Dio è morto, Marx è morto …ma Woody Allen scrive sempre tanto bene!

Da leggere.

“Assassino senza volto” di Henning Mankell

(Marsilio, 2015)

Lo scrittore svedese Henning Mankell (1948-2015) è considerato, giustamente, uno degli eredi dei maestri Maj Sjöwall e Per Wahlöö, i fondatori dei giallo scandinavo.

Mankell ha iniziato a pubblicare passati i quarant’anni e si è affermato nel panorama editoriale svedese nel 1991, quando ha pubblicato questo romanzo con la prima inchiesta del suo protagonista: il commissario Kurt Wallander.

I punti in comune fra Wallander e il commissario Martin Beck – figlio delle penne di Sjöwall e Wahlöö – non sono pochi. Ma più che somiglianze fisiche o caratteriali fra i due, è lo sguardo disilluso e preoccupato per la società che inesorabilmente sta cambiando, e certo non in meglio, che li unisce e li accomuna.

Così come Beck, Kurt Wallander è un ottimo poliziotto ma ha una vita personale problematica. E’ stato lasciato dalla moglie e con la figlia, poco più che adolescente, non riesce ad avere un rapporto sereno. A differenza di Beck che è a Stoccolma, Wallander vive e lavora a Ystad nella Scania, la parte meridionale della Svezia.

Ed è in una remota località della campagna della Scania, in una fredda alba invernale, che una coppia di anziani contadini viene ritrovata massacrata nella propria casa.

La violenza e la brutalità dei due efferati omicidi sconvolgono tutti, anche il commissario Wallander a cui viene affidato il caso.

Così come i suoi maestri Sjöwall e Wahlöö, Henning attraverso un enigma giallo ci racconta l’evolversi di una società perbenista che vuole fare finta di non accorgersi dei propri angoli più oscuri e fuori controllo.

“La strada scarlatta” di Fritz Lang

(USA, 1945)

Il maestro Fritz Lang dirige il secondo adattamento cinematografico del romanzo “La Chienne” di Georges de La Fouchardière edito nel 1930, e portato sullo schermo per la prima volta l’anno successivo dal maestro Jean Renoir con l’omonimo titolo.

A quindici anni dalla sua pubblicazione, l’opera di de La Fouchardière è ancora molto graffiante e scandalosa, e così Lang decide di portarla sullo schermo per inaugurare la sua nuova casa di produzione creata, tra gli altri, insieme a Walter Wanger e sua moglie Joan Bennet.

L’impresa è ardua (il grande Lubitsch, per esempio, non ci è riuscito), soprattutto perché, già a partire dal titolo, il romanzo è considerato molto scabroso e la censura farà di tutto per ostacolarlo. Ma Lang, cambiandolo e modificando alcuni elementi, ci riesce e realizza il primo film americano dove il “colpevole” riesce a farla franca.

Siamo a New York, in uno dei numerosi locali del Greenwich Village, dove si stanno festeggiando i venticinque anni di inappuntabile carriera da contabile di Christopher Cross (un bravissimo Edward G. Robinson). Il padrone della ditta, che lo stima molto, gli regala un prezioso orologio d’oro con dedica, e poi abbandona il simposio per seguire una delle giovane e appariscenti ragazze che frequenta ogni sera.

Cross, che ha osservato non senza invidia il suo capo allontanarsi con una giovane che ha forse un terzo dei suoi anni, se ne torna placidamente a casa a piedi. Pochi minuti dopo s’imbatte in un bruto che sta picchiando una giovane e le presta soccorso colpendo l’aggressore col suo ombrello. L’uomo cade a terra privo di sensi e allora lui corre a chiamare una agente di ronda.

Al suo ritorno torva solo la ragazza, che si chiama Kitty (Joan Bennett) e che impacciata conferma al poliziotto l’aggressione subita da parte di uno sconosciuto. Cross si offre di accompagnarla a casa invitandola a bere un ultimo bicchiere prima di rientrare.

Kitty accetta, sempre più in imbarazzo, fino a quando Cross non estrae il nuovo orologio per guardare l’ora. Fra il bel vestito, il prezioso cipollone d’oro, le piccole bugie che lui le ha raccontato e parlandogli della pittura la sua unica e vera passione (omettendo però di dire di essere sposato e costretto a dipingere nel bagno perché sua moglie non vuole “pastrocchi” in giro per casa…) Kitty si convince di avere davanti un ricco, celibe e ingenuo pittore molto quotato.

Tornata a casa racconta a Johnny (Dan Duryea) il suo fidanzato-sfruttatore l’epilogo della serata. Era lui quello che Cross ha abbattuto col suo ombrello e che, per evitare guai, è scappato vedendo arrivare la Polizia.

Johnny non crede che quel grigio e banale omuncolo possa essere un artista, ma convince la donna a sfruttarlo al massimo. Così in breve tempo Cross affitta un appartamento per la “sua” Kitty nel Village dove poi trasferisce il suo “studio”. I soldi li prende nella cassaforte della ditta, adesso finalmente anche lui si può permettere una bella e giovane amante.

Per tenersi sempre più stretta Kitty, che si sta abituando troppo alla gentilezza di Cross, Johnny tenta in ogni modo di screditarlo e così porta ad una bancharella alcuni suoi quadri, che però vengono notati e acquistati subito da un noto critico d’arte che vuole conoscere l’autore. Johnny, fiutati nuovi soldi, afferma che a dipingerli è stata la stessa Kitty e presto viene organizzata una mostra a lei dedicata.

La moglie di Cross, passando casualmente davanti alla galleria, nota i quadri di suo marito a firma di una donna, e furente torna a casa…

Lang ritrae un’indimenticabile discesa agli inferi di un uomo grigio, pavido e banale, vittima di se stesso, della sua viltà e, soprattutto, della sua ira. Ottima interpretazione della Bennett, che per ragioni di censura non fa esplicitamente la prostituta, come nel romanzo di de La Fouchardière, ma è un ex modella pigra che non vuole più lavorare, ma che mantiene – non si sa come… – il suo Johnny.

Fra i “tocchi” di Lang c’è anche quello dei nomi dei protagonisti, a partire da quello di Christopher Cross che in italiano sarebbe Cristoforo Croce, e che segna implacabilmente il suo portatore.

“Vite vendute” di Henri-Georges Clouzot

(Francia/Italia, 1953)

Tratto dal romanzo semi autobiografico “Il salario della paura” di Georges Arnaud (che nel secondo dopoguerra fece davvero il camionista nell’America Latina) questo splendido film è forse uno dei più crudi diretti dal maestro Henri-Georges Clouzot.

La Seconda Guerra Mondiale è finita ormai da qualche anno e a Las Piedras, una piccola cittadina del Sud America in mezzo al nulla, vivono – o meglio sopravvivono – alcuni europei. Fra loro ci sono il francese Mario Livi (Yves Montand) e l’italiano Luigi (Folco Lulli) che condividono una baracca. Al gruppo, un giorno, si unisce il francese Mister Jo (Charles Vanel) col quale Mario lega subito. Tutti sognano di tornare nella loro patria, ma nessuno possiede i mezzi per farlo.

L’economia della piccola località ruota intorno alle attività di una compagnia petrolifera americana che, a cinquecento chilometri da Las Pedras, possiede alcuni pozzi petroliferi. Proprio uno di questi prende fuoco, uccidendo alcuni operai. O’Brian (WIlliam Tubbs), responsabile a Las Pedras della compagnia, per spegnere l’incendio del pozzo e farlo tornare a produrre greggio, deve assolutamente portare in loco una tonnellata di nitroglicerina.

Passerebbero settimane prima dell’arrivo degli elicotteri, e per un aereo è impossibile atterrare nei pressi dei pozzi. L’unica soluzione è portare l’esplosivo con un camion, anzi meglio con due così si raddoppiano le possibilità di riuscita. Perché la strada che collega Las Pedras ai pozzi è poco più che una pista sterrata piena di buche e crepe.

O’Brian organizza una sorta di “gara” fra i disperati che vivono a Las Pedras per scegliere i quattro autisti per i due camion ai quali andranno duemila dollari ciascuno. Alla fine “vincono” la gara Mario, Luigi, Mister Jo e uno scandinavo soprannominato “Bimba”.

Poco prima dell’alba parte il primo camion con a bordo Mister Jo e Mario, mezz’ora dopo parte quello con Luigi e “Bimba”, la distanza è necessaria per evitare che l’esplosione di uno coinvolga anche l’altro…

Il maestro Clouzot ci descrive in maniera davvero terribile la disperazione che divora i “senza patria” e i reietti pronti a morire senza pietà pur di potersi comprare un biglietto per tornare a casa. Nonostante il film sia stato realizzato con mezzi limitati, si può apprezzare lo stesso la maniacale perfezione del regista che traspare in ogni scena, anche in quelle meno rilevanti. Perfezione maniacale del tutto simile a quella di Stanley Kubrick.

Quando Clouzot decise di realizzare l’adattamento cinematografico, l’autore del romanzo Arnaud gli propose uno script scritto da lui stesso. Ma Clouzot (anche in questo molto simile a Kubrick che, per esempio, ignorò qualsiasi suggerimento di Stephen King per realizzare “Shining”) senza troppe cerimonie la rifiutò per scriverla lui stesso insieme al suo fidato collaboratore Jérôme Géronimi.

Nonostante gli anni passati dalla sua realizzazione, questo film – come molti altri del suo autore – lascia ancora il segno.

Per la chicca: lo statunitense William Tubbs, che qui veste i panni di O’Brien, è stato un attore molto amato da alcuni nostri grandi cineasti come Roberto Rossellini che lo volle in “Paisà”, “La macchina ammazzacattivi” e “Europa ’51”, o Steno e Monicelli che lo diressero in “Guardie e ladri” e “Al diavolo al celebrità”.

“Il Centodelitti” di Giorgio Scerbanenco

(La Nave di Teseo, 2019)

Ci troviamo davanti ad una delle antologie di racconti più belle e struggenti della storia della letteratura del Novecento.

A comporla fu nel 1970 Oreste del Buono che selezionò una serie di racconti scritti dal grande Giorgio Scerbanenco – scomparso l’anno precedente – e pubblicati soprattutto da “Novella” nel 1963, rivista della quale lo stesso Scerbanenco in quell’anno era condirettore, mentre era direttore di “Bella” e collaboratore di “Annabella”, tutte riviste femminili della Rizzoli.

Sempre in quel periodo, con lo pseudonimo di Adrian o di Valentino, Scerbanenco rispondeva ai problemi di cuore e di morale che inviano le lettrici alle tre testate. Leggendo quelle lettere vere, e forse spesso anche ingenue, Scerbanenco assorbì storie e drammi quotidiani che divennero materiale per i suoi racconti e poi per i suoi romanzi che lo consacrano indiscutibilmente il creatore del noir italiano.

I racconti raccolti in questo splendido volume hanno lunghezze e soggettive differenti, da poche pagine a molte. Ciò che li unisce sono i delitti che in essi si compiono, spesso fisici ma a volte anche solo morali. Grandi e piccoli delitti che ci raccontano – come pochi altri scritti contemporanei – la nostra società appena travolta dal Boom economico. E Scerbanenco lo fa magistralmente attraverso le “misere” vite degli individui che, costretti ai margini, fanno disperatamente di tutto per sopravvivere.

Con un occhio crudelmente sincero, ma al tempo stesso pieno d’amore e compassione – così come quello di Fabrizio De André – Scerbanenco ci regala dei ritratti indimenticabili di vittime e carnefici che sono una pietra miliare della nostra letteratura.

E pure c’è oggi qualche genio illuminato che considera il formato dei racconti editorialmente poco vendibile, soprattutto se l’autore è italiano. A casa, magari, nella sua libreria sfoggia l’intera collezione delle raccolte di racconti di Raymond Carver, Michael Chabon o David Foster Wallace (esattamente come me, sia chiaro, visto che sono tre grandissimi e immortali autori di racconti) ma, vi prego, non parlategli di racconti …italiani. Per favore!

Certamente questo ipotetico personaggio – visto poi che è frutto della mia fantasia… – non lavorerà certo presso la casa editrice che possedeva i diritti di questo libro. Ma sta di fatto che per quasi quarant’anni questo monumento delle nostra letteratura è stato “chiuso in un cassetto” e non pubblicato. Le ragioni? … Ai posteri (dei posteri) l’ardua sentenza.

Intanto possiamo godercelo in tutto il suo splendore grazie a La Nave di Teseo che lo ha ripubblicato (sia in versione digitale che in quella cartacea) con un’utile introduzione firmata da Cecilia Scerbanenco, figlia di Giorgio.

Da leggere.

“La profezia delle ranocchie” di Jacques-Rémy Girerd

(Francia, 2003)

Prima di dirigere il divertente e originale “Mià e il Migù” nel 2008, Jacques-Rémy Girerd realizza questo lungometraggio animato che, nella versione originale, ha nel cast attori come Michel Piccoli e Annie Girardot.

In una piccola località nella vasta campagna francese vivono Ferdinand – un ex marinaio – sua moglie Juliette – che discende da un’antica stirpe di maghe africane – e il piccolo Tom, il piccolo che i due hanno adottato.

Non lontano abitano i Lamotte, genitori di Lili, una bambina coetanea di Tom. I Lamotte possiedono anche un piccolo zoo e visto che partono alla ricerca di una coppia di coccodrilli, lasciano Lili ai loro vicini.

Poche ore dopo le ranocchie, dopo una riunione tenutasi nella palude, comprendono che a breve si scatenerà un nuovo diluvio universale e avvisano gli unici che posso credergli: Tom e Lili. Mentre Ferdinand e Juliette ascoltano stupiti la “profezia” che raccontano loro i due bambini, il cielo improvvisamente si annuvola e inizia a tuonare.

Ferdinand corre subito allo zoo per liberare gli animali, e tutti si rifugiano nel grande granaio che grazie a Tom è diventato una vera e propria arca. Ma la vita sull’originale natante affollato deve essere regolata da sani ed equi principi, che vengono rispettati fino a quando nell’immenso mare formato dalle acque piovane non viene ripescata una strana tartaruga…

Delizioso cartone animato all’insegna della tolleranza, del rispetto della natura e dell’amore per gli altri, che farà passare 86 minuti di sano divertimento ai bambini (di tutte le età). Nella nostra versione possiamo – fortunatamente – goderci l’indimenticabile Anna Marchesini che dona la voce alla tartaruga.

A questo film collabora anche Michaël Dudok de Wit (regista del bellissimo corto d’animazione premio Oscar “Father and Daughter” del 2000 e del lungometraggio “La tartaruga rossa” del 2016) occupandosi dell’animazione di uno dei due elefanti imbarcati sul granaio.

“Grammatica della fantasia – Introduzione all’arte di inventare storie” di Gianni Rodari

(Einaudi, 2016/1997)

Non è un caso che questo splendido libro di uno degli autori più amati della mia generazione (e ovviamente non solo) sia dedicato alla città di Reggio Emilia.

Perché dal 6 al 10 marzo del 1972 Gianni Rodari venne invitato come “esperto” ad una storica serie di incontri per docenti delle scuole elementari organizzato dal comune della città emiliana. Quello che veniva teorizzato il pomeriggio fra i docenti e gli esperti, la mattina seguente veniva subito messo in pratica nelle aule con i piccoli alunni.

Raccogliendo i suoi interventi e i suoi precedenti scritti – come il “Quaderno della Fantasia” – Rodari pubblicò nel 1973 questo prezioso volume che contribuì di fatto a cambiare nel profondo il concetto di educazione scolastica.

“Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare” ci dice Rodari per il quale coltivare ed alimentare la fantasia dei bambini assecondando a lei il programma didattico – e non il contrario – è fondamentale per creare donne e uomini liberi.

Ma non solo, questo libro è un eccezionale “manuale” per chi ama inventare e raccontare storie, anche se non è più un bambino. Rodari ci parla di Vladimir Propp i cui studi e soprattutto il testo “Morfologia della fiaba” è ancora un capo saldo dello studio della creazione delle storie.

Per comprendere al meglio quanto questo scritto di Rodari – come molti altri – sia attuale basta ricordare che Propp è uno degli autori – l’altro è Joseph Campbell – a cui si ispira Christoper Vogler per scrivere il suo saggio “Il viaggio dell’eroe” che riassume e descrive i passaggi principali comuni a tutte le fiabe e leggende tradizionali del nostro Pianeta. A questo testo (e a quello di Propp), tanto per fare un esempio, si è ispirato George Lucas per scrivere la sceneggiatura di “Guerre Stellari”.

Ma la lungimiranza di Rodari non si ferma lì. Siamo nel 1973, nel nostro Paese esistono solo due canali televisivi, le cui trasmissioni sono molto formali ed austere, con poche eccezioni fra cui “Carosello”. Ma di lì a poco le cose cambieranno, verranno liberalizzate le frequenze televisive e nasceranno, come funghi, le televisioni private. E allora Rodari ci dice perplesso: “Non si può mai essere sicuri di quello che un bambino impara guardando la televisione”.

Su questo immortale testo, come su tutta l’opera di Rodari, ci sarebbe da scrivere ancora tanto altro, ma limito solo a citare una frase del libro che, se ce ne fosse bisogno, evidenzia il suo amore e il suo rispetto per i più piccoli: “I bambini ne sanno una più della grammatica”.