“La verità” di Henri-Georges Clouzot

(Francia, 1960)

Con questo film Brigitte Bardot entra ufficialmente nel firmamento delle stelle del cinema. Ma non è certo questo il suo pregio più importate. Dietro la macchina da presa, infatti, c’è Henri-Georges Clouzot, uno dei migliori registi noir transalpini (che ebbe un periodo oscuro alla fine della Seconda Guerra Mondiale e venne accusato, con il suo “Il corvo” di fare propaganda al nazifascismo, ma che poi molti intellettuali francesi – soprattutto di sinistra – riabilitarono permettendogli di tornare a lavorare, motivo per cui nella locandina del film è assente il cognome Clouzot) che tanti paragonano giustamente al maestro Alfred Hitchcock.

Scritto dallo stesso Clouzot insieme ad altri cinque autori – fra cui sua moglie Vera Clouzot e la scrittrice femminista Christiane Rochefort, nota per i suoi libri dedicati alla sessualità femminile e alla lotta per l’emancipazione delle donne – “La verità” ci racconta la tortuosa vita di Dominique Marceau (la Bardot) accusata dell’omicidio di Gilbert, suo amante e fidanzato di sua sorella Annie.

In un classico Courtroom Drama in bianco e nero ripercorriamo con una serie di flashback e di testimonianze la vita – che molti considerano semplicemente “dissoluta” – della giovane e la sua relazione con il morto.

Attraverso poi gli occhi cinici dell’avvocato Eparvier (Paul Meurisse) che rappresenta la madre di Gilbert, e quelli dell’avvocato Guérin (Charles Vanel) che difende l’imputata, cogliamo il perbenismo più ipocrita della società francese di quegli anni.

Perché la colpa più grande e inaccettabile di Dominique è quella di voler vivere libera e fuori dalle “bigotte” regole sociali e, soprattutto, quello di essere bella e prorompente come la Bardot, che tutti volenti o nolenti vorrebbero possedere…

Il dvd contiene la versione integrale del film, con le scene “troppo scabrose” per il mercato italiano che vennero censurate e quindi non doppiate, ma che ancora oggi ci fanno capire perché “…tutto il mondo sospirò!” quando BB apparve sullo schermo. Negli extra è presente una breve scheda sulla pellicola.

“Star Wars: L’ascesa di Skywalker” di J.J. Abrams

(USA, 2019)

Ecco, ci siamo…

dopo 42 anni si chiude una delle saghe del cinema più famose di sempre (non ci possiamo scordare, infatti, quella dell’agente segreto 007 James Bond che da quasi sessant’anni furoreggia al botteghino).

La terza trilogia della saga sembra definitivamente conclusa. E con quest’ultima fatica del geniale J.J Abrams scopriamo il posto nell’Universo – o forse sarebbe meglio dire …nella Galassia – di ognuno dei personaggi. Ci sono quelli che scompaiono e quelli che rimangono, quelli che fanno scelte oltre i propri limiti e quelli che accettano l’inevitabile.

Se la seconda trilogia ha deluso molti (compreso me) questa riporta “Star Wars” a livello della prima, che ha rinnovato e cambiato il cinema di fantascienza, e non solo. Così non ci dobbiamo stupire se la Forza trova la sua pedina più forte e coraggiosa in una ragazza, o se assistiamo al primo bacio lesbo consumatosi tanto tempo fa in una galassia lontana lontana…

Abrams rinnova la saga, la rende attuale e contemporaneamente senza tempo, così come è la prima. E se ci rattristiamo per la sua fine annunciata, aggrappiamoci alla speranza che gli incassi superino i record di quelli precedenti tanto da “costringere” la Disney a mettere in lavorazione – oltre ai film della serie “A Star Wars Story” – una nuova trilogia.

Comunque vada …che la Forza sia con voi!

“Il cardellino” di John Crowley

(USA, 2019)

Del bel romanzo di Donna Tartt ne ho già parlato e come sempre, dopo aver letto l’opera originale letteraria, ero molto curioso di vedere la sua riduzione cinematografica.

Non è mai facile ricreare al cinema ambienti, situazioni ed emozioni che nascono fra le pagine di un libro. Ma bisogna avere ben presente che un romanzo e un film sono due opere artistiche completamente diverse, anche se narrano la stessa storia.

John Crowley (regista irlandese molto noto a Broadway e con al suo attivo alcuni film fra cui “Brooklyn” del 2015) riesce nell’impresa di mantenere le aspettative del libro e dirige un bel film con un cast davvero di primo livello.

La storia dell’infanzia e della dura adolescenza di Theodore Decker (interpretato prima da Oakes Fegley e poi da Ansel Elgort) ci colpisce al cuore, così come ci commuove il suo doloroso rapporto con “Il Cardellino”, il famoso quadro dipinto nel 1654 dal taletuoso olandese Carel Fabritius, uno dei più dotati allievi di Rembrandt.

A proposito di cast deve essere sottolineata l’interpretazione di Nicole Kidman che, grazie al trucco e alla computer grafica, incarna negli anni Mrs. Barbour (la facoltosa madre di un compagno di scuola di Theo, con la quale lui avrà un rapporto molto profondo) in maniera davvero eccellente.

Da ricordare anche l’ottima prova della bravissima Sarah Paulson, nei panni della provocante compagna del padre di Theo, ruolo molto lontano da quelli interpretati di solito dall’attrice. Così come l’interpretazione di Finn Wolfhard (già protagonista della serie “Stranger Things”) nel ruolo del giovane Boris, punto centrale sentimentale ed emotivo dell’adolescenza di Theo.

Insomma, quest’ottima trasposizione cinematografica de “Il cardellino” della Tartt, scritta da Peter Straughan (autore di ottimi script come quello de “Il debito” di John Madden) può essere vista e goduta da chi ha letto il romanzo, e da chi – purtroppo per lui! – non lo ha ancora fatto.

“Alike” di Daniel Martìnez Lara e Rafa Cano Méndez

(Spagna, 2015)

Fra i significati che il vocabolario Treccani assegna al termine omologazione c’è anche: “Uniformazione, riduzione a un determinato modello, con appiattimento delle differenze e delle peculiarità prima esistenti…”.

Se è vero che noi esseri umani siamo animali sociali, e per vivere in una società il più possibile equilibrata c’è bisogno di regole di diritti e di doveri; è anche vero che fra le cose che hanno fatto della nostra specie quella dominante sul pianeta (…ammesso che la cosa sia davvero positiva…) ci sono indiscutibilmente le peculiarità individuali.

Peculiarità come quelle di Archimede, di Leonardo da Vinci o semplicemente di quell’essere umano (il cui nome rimarrà per sempre nell’oblio ma nonostante questo in molti sono convinti, inspiegabilmente, che sia per forza un uomo…) che ha intuito la potenza rivoluzionaria di una ruota.

Se è giusto, quindi, insegnare ai bambini l’importanza delle regole, è altrettanto fondamentale permettergli di coltivare e sviluppare i propri sogni e le proprie caratteristiche. Perché ci sono doti e qualità che non si possono “contenere”: o si lasciano germogliare o muoiono per sempre.       

Di questo focale aspetto della nostra società ci parla con una deliziosa metafora questo cortometraggio di soli 8 minuti, che ha vinto meritatamente più di ottanta premi in tutto il mondo.

“C’era una volta a… Hollywood” di Quentin Tarantino

(USA, 2019)

Quel genio folle e unico di Quentin Tarantino non sbaglia un colpo. Alla suo nona prova da regista ci regala un grande film sul cinema, sulla televisione e sulle loro reciproche contaminazioni nella vita reale.

Nato come un romanzo, “C’era una volta a…Hollywood” è diventato un film dopo quasi cinque anni di lavorazione; e ci racconta la storia di Rick Dalton (un bravissimo Leonardo DiCaprio) e della sua fedele controfigura Cliff Booth (un altrettanto bravo Brad Pitt).

Siamo alla fine degli anni Sessanta e la citta è Los Angeles. Dalton è un attore la cui carriera, dopo una serie tv Western di successo, è ormai in fase calante. L’unico vero amico che ha, oltre all’alcol, è Cliff che 24 ore al giorno gli guarda le spalle.

Ma Rick Dalton possiede un’altra peculiarità: abita accanto al 10500 di Cielo Drive, dove da qualche tempo risiedono i Polanski: il geniale ed eclettico regista di origine polacche Roman e la sua giovane moglie Sharon Tate (Margot Robbie).  

Purtroppo sappiamo tutti cosa accadde tragicamente la notte fra l’8 e il 9 agosto del 1969, grazie alla follia omicida allucinata di Charlie Manson e della sua Family che massacrarono la Tate e altre quattro persone. Ma Quentin Tarantino non ci sta, la magia del cinema glielo consente, e così come solo davanti alla macchina da presa, su un palcoscenico o in un libro è possibile fare: cambia la storia.

I vili aguzzini della Family commetteranno quindi l’errore di sbagliare casa…

Per noi italiani questo film ha anche un altro merito: quello di omaggiare la nostra grande cinematografia passata. A partire dal titolo, Tarantino cita e onora alcuni nostri grandi cineasti, che invece da noi, per molti, sono caduti da anni nel dimenticatoio.

Per la chicca: ad impersonare Linda Kasabian, una delle ragazze della Family che però fugge al momento della strage – e che poi nella realtà sarà il testimone chiave nei processi contro Manson e i suoi – è Maya Hawke, figlia di Ethan Hawke e …Uma Thurman.  

“I Goonies” di Richard Donner

(USA, 1985)

Chi, come me, ha vissuto la propria adolescenza negli inesorabili anni Ottanta, non può che essere legato a questo film frutto del genio di Steven Spielberg.

Perché proprio a Spielberg viene l’idea del soggetto – che ha molti riferimenti al suo “E.T. L’extraterrestre” – poi sviluppato da Chris Columbus (che diverrà successivamente il regista di blockbuster come “Mamma, ho perso l’aereo” o “Harry Potter e la Pietra Filosofale”) e girato da Donner (regista della prima saga di “Superman” e di quella di “Arma letale”). Un mix esplosivo il cui risultato è un vero e proprio film cult.

C’è poi il cast che annovera alcuni giovani attori che poi sarebbero diventati icone del cinema hollywoodiano di oggi, come Josh Brolin (“Men in Black 3” nonché Thanos nelle pellicole degli Avengers, solo per citarne alcuni) nella parte di Brad Walsh, e Sean Astin in quella di suo fratello minore Mickey, protagonista del film, che poi vestirà i panni di Samvise Gamgee nella trilogia de “Il Signore degli Anelli “ di Peter Jackson.

Lo stesso Astin ci indica che eredità ha lasciato questo film nell’immaginario contemporaneo visto che, non a caso, è stato inserito nel cast della seconda stagione di una delle serie televisive di più successo degli ultimi anni come “Stranger Things”.

La storia che si consuma nelle caverne sotterranee di Astoria, una piccola cittadina dell’Oregon, è una di quelle che hanno segnato gli anni Ottanta, e non solo.

Nel video della canzone, e colonna sonora del film, “The Goonies ‘R’ Good Enough” cantata da Cindy Lauper, appare la stessa cantante sulle tracce dei giovani protagonista e, sospesa sotto una cascata come quella del film, dice al pubblico disperata: “…E’ tutta colpa di Steven Spielberg!”. Il regista poi appare, perplesso, seduto al tavolo di montaggio osservando la Lauper in difficoltà…

Insomma: gli Ottanta non sono morti, ma vivono e combattono con noi!

“Non rimpiango la mia giovinezza” di Akira Kurosawa

(Giappone, 1946)

Com’è vivere una vita senza rimpianti? Secondo Ryukichi Noge, uno dei protagonisti di questo film giovanile del maestro Akira Kurosawa, è essere disposti a tutto per difendere la libertà del proprio Paese.

Giappone, 1933. All’Università Imperiale di Kyoto sono famose le lezioni liberali del professor Yagihara. Fra gli studenti che frequentano la sua casa ci sono Noge e Itokawa, due ragazzi che hanno caratteri opposti. Il primo è impulsivo e dichiaratamente di sinistra, mentre il secondo è più riflessivo e moderato. I due sono comunque attratti da Yukie, figlia unica del professore e loro coetanea.

Quando le truppe imperiali nipponiche invadono la Manciuria, gli studenti dell’Università organizzano un’imponente manifestazione contro il proprio Governo. Tra i docenti più attivi contro l’atteggiamento fascista del Giappone c’è Yagihara, che per questo viene rimosso dalla sua cattedra. Durante gli scontri con le Forze dell’Ordine, Noge viene arrestato mentre Itokawa, grazie alla sua moderazione, non solo termina gli studi ma diventa anche procuratore del Governo. Una sera, a cena dagli Yagihara, Itokawa rivela che dopo quattro anni Noge è finalmente uscito di prigione e al momento è a Tokyo dove conduce una vita pacifica e ordinaria: la detenzione lo ha “finalmente” convertito.

Yukie, da sempre attratta da Noge, parte per la città in cerca del ragazzo incredula del suo cambiamento. Infatti, rintracciatolo, scopre che l’uomo conduce una pericolosissima doppia vita: è in contatto con l’U.R.S.S. per tentare si fermare la deriva nazista e fascista verso la quale il suo Paese sta andando, ed evitare in ogni modo un possibile e catastrifico conflitto mondiale. I due si sposano ma Noge lascia fuori dalla sua attività clandestina la moglie.

Una notte però la Polizia irrompe nella loro casa arrestandoli e separandoli. Yukie viene interrogata e torturata, ma non fornisce alcuna informazione ai suoi aguzzini. Il giorno del bombardamento giapponese di Pearl Harbour la donna, grazie all’intervento di Itokawa, viene liberata. Ad aspettarla fuori dal carcere ci sono i suoi genitori che chiedono allo stesso Itokawa notizie di Noge. Il procuratore del Governo rivela agli Yagihara che il marito di Yukie è morto la sera precedente.

La guerra si consuma tragicamente, mentre Yukie è prostrata dal dolore. L’unica cosa che si sente di fare è portare le ceneri del marito ai suoi genitori, due umili contadini residenti in una delle prefetture più povere del Giappone. Se il suocero la rifiuta, la madre di Noge l’accoglie con cortesia invitandola però ad andarsene subito perché loro due sono ormai additati e maltrattati da tutta la cittadina per essere i genitori di una spia. Yukie si oppone e decide di rimanere per dare una mano lavorando nelle risaie, lavoro che per la vergogna e le vessazioni continue deve essere fatto di notte. Ma la determinazione granitica di Yukie…

Ispirata alla vera vicenda che vide protagonista il professor Takikawa e il suo allievo Hidemi Ozaki (unico giapponese impiccato dal proprio Governo durante la Seconda Guerra Mondiale), questa pellicola già ci mostra le grandi doti narrative e soprattutto visive di Kurosawa.

Con chiari riferimenti all’Espressionismo tedesco di Fritz Lang e alla “drammaturgia della forma” di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Kurosawa ci racconta una storia di amore e di onore in uno degli anni più difficili nella storia del suo Paese che, straziato dalla tragedia della guerra, tenta di risollevarsi.

Nel dvd la qualità del filmato – per ragioni storiche – non è ottimale, e il doppiaggio presente è quello recente perché quest’opera non fu distribuita in Italia. Il titolo in italiano che appare all’inizio è “Nessun rimpianto per la nostra giovinezza”. Negli extra è possibile ripercorrere una sintetica biografia del grande cineasta giapponese assieme a quelle di alcuni degli interpreti del film.

“Circe” di Madeline Miller

(Sonzogno, 2019)

La figura mitologica di Circe è da sempre associata a quella di una maga perfida e gelosa che usa la sua arte per trasformare gli uomini in maiali o trasfigurare le sue belle antagoniste in terrificanti mostri ingordi, come Scilla. Almeno così’ Omero ha iniziato a raccontarla, e nel corso dei secoli la sua fama oscura è stata da molti altri autori ampliata e romanzata.

La Miller, invece, ci narra di una dea che ha avuto la “colpa” di nascere donna, non particolarmente attraente e con una voce sgraziata. Caratteristiche che la pongono ai margini della vita sociale nel palazzo di suo padre, lo splendente Elios. Quando però Circe scopre di avere sorprendenti doti da maga, la situazione precipita. Se il mondo può tollerare – non senza sbeffeggiarla continuamente – una donna poco piacevole, certo non può sopportare una donna che con le sue pozioni può tramutare o ghermire anche il più potente degli dei.

E allora Circe, che comunque non può essere eliminata per i suoi stessi natali, viene confinata per l’eternità nell’isola di Eea, in piena solitudine. Ma su quelle sponde giungerà un giorno un mortale dalle doti intellettuali molto speciali, che sarà il primo a comprendere e apprezzare veramente le doti di Circe. Un mortale dal nome Odisseo…

Ottimo romanzo mitologico scritto dalla stessa autrice del best seller “La canzone di Achille”, che ci parla di una donna molto particolare, ma al tempo stesso tanto comune e umana. E di come le sue doti da maga, fatte di conoscenza e sapienza, sono fumo negli occhi per tutti gli altri dei, uomini e – …purtroppo… – donne che siano, che vedono minare il proprio millenario ruolo nella società maschio-centrica divina.

Il passaggio da “maga” a “strega” è molto rapido e così non ci dobbiamo stupire se fino a qualche secolo fa, nei più libertari paesi come in quelli più antichi, si bruciavano le donne che non si “conformavano” alla società. In epoche più recenti, invece, si rinchiudevano nei manicomi con la scusa dell’isteria, come è accaduto a Camille Claudel o a Sabina Spielrein, così come a molte altre donne che “osavano” primeggiare nelle arti e nelle scienze con gli uomini.

E allora c’aveva ragione Circe a trasformarli in porci, o no?        

“Gli esclusi” di John Cassavetes

(USA, 1962)

Abby Mann è stato uno dei più prolifici drammaturghi nonché autori cinematografici e televisivi americani del Novecento.

Proprio per la televisione scrive una pièce che il produttore e regista Stanley Kramer (produttore e regista di pellicole come “..E l’uomo creò Santana” e “Indovina che viene a cena?”) decide di portare sul grande schermo. A dirigerlo chiama il giovane e promettente regista indipendente John Cassavetes, e come attori principali due dei protagonisti del suo precedente “Vincitori e vinti” (che gli valse un Oscar): Burt Lancaster e Judy Gardland.

Jean Hansen (Judy Gardland) giunge al Crawthorne State Training Institute, un istituto per giovani con gravi deficit cognitivi diretto dal dott. Matthew Clark (un grandissimo Lancaster) per iniziare il suo nuovo lavoro. Grazie alla sua amica Mattie, che già lavora lì, le è stato affidato il compito di insegnare musica agli allievi.

La Hansen, che non ha alcuna esperienza, dopo i primi momenti di turbamento inizia il suo lavoro. Subito viene colpita dal comportamento del piccolo Reuben Widdicombe, un bambino di dieci anni con un grave ritardo cognitivo. Soprattutto Jean è scioccata dal fatto che i suoi genitori non vengano mai a trovarlo il giorno di visita settimanale.

Attraverso la storia di Reuben e dei suoi genitori Sophie (Gena Rowlands) e Ted (Steven Hill) riviviamo la dolorosa e straziante storia di una coppia che deve accettare la disabilità del proprio figlio.

La Hansen trova il comportamento di Clark – che d’accordo con Sophie non organizza gli incontri col figlio – troppo duro e severo. Ma il medico le mostra come la vera e grande angoscia di un genitore di un bambino disabile sia la propria morte, ovvero quando il figlio sarà comunque internato. E allora ogni piccolo centimetro che un bambino disabile compie verso la propria indipendenza è fondamentale per il suo futuro.

Soprattutto visto che la società in cui vivono, a parte gli ipocriti e perbenisti slanci amorosi “natalizi” di loro se ne frega, anzi in molti non li vorrebbero neanche vedere.

Ci sono film bellissimi e poi ci sono film che sono delle vere e proprie odi civili. Questo firmato da Cassavetes e Kramer (visto che in sede di montaggio il regista litigò col produttore tanto da abbandonare la produzione) è una vera e propria ode civile a favore dei più deboli, come sono i bambini disabili.

Le immagini girate da Cassavets nel vero Pacific State Hospital di Pomona, set del film, sono un atto d’amore limpido, di rispetto senza pietismi o falsi buoni sentimenti, verso i bambini che fino ad allora nessuno aveva il “coraggio” di mostrare, sottolineando che il problema non è nel loro aspetto o nel loro comportamento: ma negli occhi e nella testa di chi li guarda.

Come mi è già capitato di ricordare, nel mondo anglosassone c’è una lucida serenità nel parlare di disabilità che noi italiani ci sognamo. E’ solo di pochi anni fa la ricerca di cast – per un film di una nota regista italiana – di disabili: “…che ispirino tenerezza ed empatia”.

Il titolo in italiano è abbastanza calzante, ma quello originale riferito al giorno di visita nell’istituto e ai bambini disabili in generale è ancora più struggente: “A Child is Waiting”.

Il dvd, che purtroppo non presenta extra, riporta il doppiaggio originale con una grandissima Rina Morelli – compagna di vita e di palcoscenico di Paolo Stoppa nonché attrice teatrale fra le più amate da Luchino Visconti – che dona superbamente la voce alla Garland.