“Un eroe dei nostri tempi” di Mario Monicelli

(Italia, 1955)

Si possono scrivere interi saggi sullo stile di vita del nuovo Millennio, o sulle generazioni.com, ma i tratti distintivi – anche se è sempre sbagliato fare di tutta l’erba un fascio – di un popolo rimangono sempre gli stessi.

Sono passati esattamente 63 anni dall’uscita nelle sale italiane di questo capolavoro diretto dal maestro Mario Monicelli che rimane uno dei documenti storici e sociali più rilevanti, nonostante siano caduti muri e repubbliche, per capire il nostro Paese di oggi.

Alberto Menichetti, protagonista del film, è uno dei personaggi più feroci, riusciti e veritieri della cultura italiana del Novecento. E con lui tutta quella miriade di piccoli personaggi meschini o ipocriti che popolano il film, dal Direttore alla bella e verace parrucchiera.

Alberto Sordi, la cui modernità recitativa sorprende ancora oggi, ci regala il primo grande ritratto dell’italiano medio disposto a vendere parenti, amici e colleghi pur di primeggiare o quanto meno cavarsela. Memorabili sono anche i duetti con l’immensa Franca Valeri, che ci preparano ad un altro capolavoro che i due gireranno quattro anni dopo, “Il vedovo” di Dino Risi.

Scritto da Rodolfo Sonego assieme allo stesso Monicelli “Un eroe dei nostri tempi” dovrebbe essere visto e studiato nelle scuole con la sua battuta finale: “…Ci sarà pericolo?”.

Per la chicca: nel ruolo dell’integerrimo Direttore di Menichetti – che ha poi per amante la sua procace segretaria – c’è il regista Alberto Lattuada, mentre in quello di Ferdinando, il manesco fidanzato della bella parrucchiera Giovanna Ralli, c’è un gigante dal fisicaccio: Carlo Pedersoli, senza barba e ancora lontano dal prendere lo pseudonimo di Bud Spencer.

“Matrix” di Larry e Andy Wachowski

(USA/Australia, 1999)

Non c’è dubbio che il film degli allora fratelli Larry and Andy Wachowski – oggi Lana e Lilly Wachowski – uscito alla fine del millennio, abbia segnato in modo profondo la cinematografia e la cultura mondiale dei primi anni di quello successivo.

E’ indiscutibile anche che gli effetti speciali innovativi (il “bullet time” per esempio) hanno avuto un ruolo determinante nel suo successo. Ma non deve essere sottovalutata neanche la trama.

Gli autori hanno dichiarato di essersi ispirati a numerose opere letterarie o cinematografiche (rimane in sospeso per esempio “Razzi amari” di Disegni & Caviglia, fumetto uscito nel 1992, che a detta dei suoi autori ha davvero molti punti in comune col film), ma soprattutto ci lascia respirare arie e filosofie orientali volte alla scoperta di noi stessi.

E questo, probabilmente, è l’elemento che rende “Matrix” sempre attuale e avvincente, nonostante siano passati quasi vent’anni di storie ed effetti speciali.

Così come non deve essere dimenticato il cast su cui svettano Keanu Reeves nei panni di Neo (anagramma di One), Laurence Fishburne in quelli di Morpheus e Hugo Weaving in quelli dell’implacabile agente Smith.

Nell’edizione italiana è giusto ricordare anche il grande lavoro dei nostri doppiatori quali Luca Ward (Neo), Ennio Coltorti (agente Smith), Massimo Corvo (Morpheus) ed Emanuela Rossi (che doppia Trinity) che con il suo: “….Schiva questa!” rimane nella storia del cinema.

Il film ha vinto, tra i numerosi premi, quattro Oscar. Dei due sequel però, non ne parliamo proprio…

“Tentativo di corruzione” di Paolo Levi

(Rizzoli, 1980)

In questo bel giallo Paolo Levi abbandona Mario Aldara – protagonista dei suoi precedenti “Ritratto di provincia in rosso” e “Delitto in piazza” – per presentarci Renzo Caluso, un ispettore di Polizia in ferie.

Caluso, che ha molti tratti in comune con Aldara, è reduce da una tragica esperienza: qualche mese prima, durante l’inseguimento di alcuni rapinatori è stato costretto ad ucciderne uno. Si trattava di un giovane tossicodipendente che prima di morire aveva ucciso l’agente che era con Caluso.

La breve inchiesta ha chiarito la dinamica e così Caluso non ha subito nessuna ripercussione legale o lavorativa. Ma se parliamo di morale la cosa è ben diversa. Non passa notte, infatti, che Renzo non sogni il giovane criminale mentre muore. E così decide di prendersi due settimane di vacanze comprando il biglietto per una crociera nel Mediterraneo.

Sulla “Magellano” Caluso si sente un pesce fuor d’acqua, ma almeno passa il tempo ad osservare la più varia umanità che come lui ha deciso di prendersi quindici giorni di ferie in mezzo al mare.

Proprio quando sembra cominciare ad ambientarsi, il comandante della nave lo fa chiamare: poche ore prima è stato ritrovato il corpo di Antonio Sassu, noto giornalista “controcorrente”. Accanto al cadavere è stata trovata una rivoltella e tutto fa sembrare al suicidio.

Ma visto che l’uomo sei mesi prima è stato vittima di un’aggressione da parte di alcuni sedicenti terroristi che gli hanno sparato riducendolo in fin di vita, il capitano vorrebbe essere sicuro dell’accaduto per poi avvisare gli uffici competenti in Italia. E l’unico passeggero con l’esperienza e la competenza adatta è proprio lui. Malvolentieri Caluso accetta l’inchiesta che lo porterà a confrontarsi con un mondo a lui socialmente lontano, ma anche con una parte di se stesso poco conosciuta…

Sfizioso giallo nella nostra grande tradizione, che ha forse solo un piccolo neo: il suo protagonista. Troppo vicino a Mario Aldara, del quale sembra un po’ un fratello irrisolto.

“La parola ai giurati” di Sidney Lumet

(USA, 1957)

Il 13 aprile del 1957 usciva nella sale statunitensi lo splendido “La parola ai giurati” diretto dall’esordiente Sidney Lumet.

Reginald Rose, nato a New York nel 1920, appena congedato dall’esercito americano decide di guadagnarsi da vivere scrivendo soggetti per il nuovo e singolare mezzo che inesorabilmente sta prendendo sempre più piede nelle famiglie americane: la televisione.

Nei primi anni Cinquanta inizia a collaborare con la CBS firmando drammi da un’ora per la serie Studio One. Una mattina gli viene recapitata la convocazione per far parte della giuria in un processo per omicidio.

Il giovane rimane impressionato dalle dinamiche legali, e soprattutto da quelle umane, che si avvicendano durante tutte le sedute. Quando, dopo le arringhe dei legali, è chiuso nella stanza della giuria assistendo al dibattito, capisce di avere davanti agli occhi “il dramma perfetto” da raccontare.

In poco tempo Rose scrive lo script de “La parola ai giurati” che, svolgendosi tutto nella stanza di una giuria, sembra perfetto per il teatro e per l’allora fiction televisiva che ad esso si ispirava. L’episodio di un’ora viene trasmesso nel 1954. Il successo è davvero grande e così la produzione decide di realizzare un adattamento cinematografico.

Allo stesso Rose viene affidato il compito di scrivere la sceneggiatura, mentre al giovane, ma già esperto regista di drammi televisivi, Sidney Lumet viene affidata la regia.

Se nel ruolo del protagonista viene chiamata una stella di prima grandezza come il sempre bravo Henry Fonda, per quelli dei comprimari vengono scelti alcuni fra migliori caratteristi di Hollywood, che poi diverranno protagonisti o coprotagonisti di numerose serie televisive di successo, meno famosi ma che con la loro bravura renderanno la pellicola una delle più belle della storia del cinema.

Nella piccola stanza di un tribunale la giuria, formata da dodici individui che non si conoscono, deve scegliere se dichiarare il giovane imputato presunto parricida colpevole o innocente. Il caso sembra semplice, tutti gli indizi sono a sfavore del ragazzo, ma alla prima votazione salta fuori un giurato contrario alla condanna.

Si tratta del giurato n.8 (un Henry Fonda davvero luminoso) che ammette di non essere affatto certo dell’innocenza dell’imputato, e per questo quindi non può essere sicuro della sua colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

L’uomo viene quasi aggredito verbalmente dagli altri giurati, molti dei quali vorrebbero tornare rapidamente alle loro occupazioni quotidiane, ma il giurato n. 8 inizia a smontare ogni indizio che fino a quel momento sembrava davvero ineccepibile…

Strepitosa pellicola, girata in uno splendido bianco e nero, che di fatto fonda (non l’attore!) il genere legal drama, e che ci pone una delle domande basiche della nostra società: quanto riusciamo a essere obiettivi e imparziali, nonostante le nostre esperienze personali?

Da antologia.

Il film, oltre ad essere candidato a tre premi Oscar e quattro Golden Globe, vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.

“Regina senza corona” di Thomas Schlamme

(USA, 1989)

La drammaturga Beth Henley (classe 1952) ha vinto il premio Pulitzer nel 1981 per la sua opera teatrale “Crimini del cuore”, scritta nel 1978, e che Bruce Beresford porterà sul grande schermo nel 1986 con protagoniste Sissy Spaeck, Diane Keaton e Jessica Lange. Nel 1979 la Henley scrive “The Miss Firecracker Contest” (che letteralmente sarebbe “Il Concorso Miss Fuochi d’Artificio”) ambientata in una piccola cittadina del Sud degli Stati Uniti.

L’opera riscuote molto successo prima a Los Angeles e poi a Broadway, dove diventa un vero e proprio classico. Come accade spesso, la mecca del cinema si rivolge proprio alla capitale del teatro americano per trovare nuove idee, e così – dopo il successo internazionale del film di Beresford – viene adattata per lo schermo anche questa commedia della Henley.

La goffa e poco piacente Carnelle ha un sogno nella vita: vincere il Concorso “Miss Fuochi d’Artificio” che si tiene nella sua cittadina ogni 4 luglio. La ragazza vive nella vecchia casa della zia, ormai deceduta da anni. Qualche giorno prima del concorso tornano in città i suoi due cugini: Elain e Delomount. La prima da ragazza, grazie alla sua altera bellezza, ha vinto trionfalmente il titolo di Miss Fuochi d’Artificio, mentre il secondo è uno scapestrato che vive alla giornata.

Carnelle riesce ad entrare nella schiera delle cinque finaliste e dedica tutta se stessa a preparare la prova conclusiva con cui esibirsi alla fiera del 4 luglio. Solo la vincitrice potrà sfilare al centro del carro allegorico che attraverserà la strada principale della città, evento memorabile per tutta la contea e soprattutto sognato da Carnelle fin da bambina. Ma il concorso, per la ragazza così come per i suoi due cugini, rappresenterà un momento di svolta nelle propria vita…

Nel film – che in originale si intitola solo “Miss Firecracker” – il ruolo di Carnelle è affidato ad una bravissima (e fascinosa nonostante la voluta goffaggine) Holly Hunter. Mentre quello dei suoi cugini Elain e Delmount sono affidati rispettivamente a Mary Steenburgen e Tim Robbins (tutti e tre vincitori di un Oscar: la Steenburgen per “Una volta ho incontrato un miliardario” del 1980, la Hunter per “Lezioni di piano” del 1993 e Robbins per lo splendido “Mystic River” del 2003).

Crudo, ma alla fine anche un po’ ottimista, “Regina senza corona” è un affresco lucido della provincia americana, ma soprattutto delle dinamiche familiari che non risparmiano dolore e sconforto, interpretato poi da un cast davvero eccezionale.

Per la chicca: ve prego, non mi fate parlare del titolo in italiano…

“L’autopompa fantasma” di Per Wahlöö e Maj Sjöwall

(Sellerio 1969/2008)

Eccoci alla quinta indagine di Martin Beck, l’ispettore scandinavo creato dalla coppia Per Wahlöö e Maj Sjöwall.

Ad occupare la scrivania di Beck è questa volta un incendio che ha distrutto un piccolo stabile alla periferia di Stoccolma, nel quale sono morte quasi dieci persone.

Mentre la Scientifica è occupata a stabilire se si tratti di un incendio doloso o meno, Beck e i suoi uomini indagano sui defunti e sui feriti.

C’è soprattutto un uomo, tossicodipendente, con vari precedenti penali che attira l’attenzione degli investigatori, e l’autopsia rivela che era già morto prima dello scoppio dell’incendio. Ma…

Come sempre la coppia inventrice del giallo scandinavo ci regala un gran bel poliziesco, che ci porta negli antri più miseri dell’essere umano e in quegli angoli della società che troppo spesso non vorremmo vedere.

Per comprendere al meglio il loro lavoro e lo spessore delle loro opere, basta leggere una breve introduzione a firma degli autori che la Sellerio ha inserito nel volume:

“Non riteniamo che il romanzo tradizionale con il suo orientamento verso l’individuo sia adatto ad analizzare la nostra società. Il romanzo poliziesco invece è stato, fin dalle origini, più conscio dell’appartenenza dell’individuo ad un gruppo. La differenza risalta molto chiaramente osservando il modo in cui le azioni dei personaggi vengono motivate. Nel romanzo tradizionale i personaggi trovano le ragioni del proprio comportamento in un certo senso in loro stessi, indipendentemente da chi li circonda. Nel romanzo poliziesco le motivazioni di chi agisce sono sempre in relazione con le altre persone. Non si può immaginare un criminale assolutamente solitario. Egli è sempre legato alla società. La criminalità è una specie di espressione della società su un piano negativo […]”. 

“Ready Player One” di Steven Spielberg

(USA, 2018)

Del romanzo “Ready Player One” di Ernest Cline ne ho parlato nel luglio del 2014, anticipando poi che la Warner Bros aveva comprato i diritti e avviato la produzione.

Ma allora ignoravo che la regia sarebbe stata affidata a uno dei geni di Hollywood come Steven Spielberg. E chi meglio di lui, icona vivente degli anni Ottanta, avrebbe potuto portarlo meglio sulla schermo?

Sulla trama, visto che è fedele al libro, non aggiungo nulla, ma se la vuoi leggere poi andare direttamente al post sul libro.

Il film invece è scritto dallo stesso Cline insieme a Zak Penn e ci regala delle sequenze davvero incredibili, frutto della tecnologia digitale più all’avanguardia e della mano unica di Spielberg.

Per gli appassionati degli anni Ottanta come me, forse il film è un pò troppo alla “Trasformer” o “Avangers” (di cui Penn è stato davvero sceneggiatore), mentre il libro è più centrato sulle emozioni dei protagonisti che si rispecchiano in OASIS, creato da un vero “feticista” degli anni Ottanta. Ma Spielberg è sempre Spielberg…