“Semo o nun semo” di Nicola Piovani

(Italia, dal 2005)

Sulla tradizione della grande canzone napoletana si possono tenere convegni e serate per mesi interi, se non per anni. Su quella romana – che di fatto nasce da quella partenope – invece no.

Infatti, dopo la commedia musicale “Rugantino” di Garinei & Giovannini che riscosse un enorme successo superando i nostri confini nazionali, la canzone romana è sembrata cadere nell’oblio.

Il maestro Nicola Piovani, romano di nascita, sale sul palco in sua difesa, creando uno spettacolo dedicato alla canzone della città eterna, che proprio così insignificante non è stata.

Alla fine dell’Ottocento, il 24 giugno, per festeggiare San Giovanni venne creata una grande festa proprio nei pressi della prima Basilica Cristiana romana. Con lo scopo di cacciare le “streghe”, sfilavano carri allegorici e giovani e sconosciuti artisti si esibivano sul palcoscenico.

Proprio su quelle assi, Piovani fa nascere ufficialmente la canzone romana che avrà fra i primi suoi rappresentati Leopoldo Fregoli, che diverrà poi il maestro del trasformismo teatrale.

Ma forse la figura più rilevante della scena romana è Romolo Balzani, autore di alcune delle canzoni più note della tradizione capitolina. E’ lui a cantare, infatti, “Semo o nun semo” che, rifacendosi al famosissimo quesito amletico, dona il titolo allo spettacolo di Piovani, o l’immortale “Barcarolo romano”.

Altro grande autore romano è Luigi Magni, che insieme a Piovani scrisse lo spettacolo teatrale “I 7 Re di Roma”, nel quale c’è la splendida “Se campa appesi a un filo”.

L’amore di Piovani per la tradizione canore della sua città, nasce dalle canzoni che, ancora bambino, gli cantava sua zia, attrice e cantante doc del grande varietà romano.

Voce narrante dello spettacolo è Massimo Wertmuller che incarna molto bene lo spirito più sornione e disincantato della vera romanità. Per chi ama Roma, ma soprattutto la bella musica.

“The Escort” di Will Slocombe

(USA, 2015)

Mitch (Michael Doneger) è un giornalista che ama il suo lavoro ma che viene licenziato dalla testata in cui lavora per i solti e nefasti “costi di gestione”.

Grazie al padre, autore delle musiche di molte canzoni rock famose degli anni Settanta e Ottanta, riesce ad avere una nuova opportunità presso un noto network. Ma dovrà portare un articolo eccezionale e insolito per essere assunto.

Un pomeriggio, nel bar di un grande hotel, viene avvicinato da Natalie (una bravissima Lyndsy Fonseca), una escort di lusso che adesca i suoi facoltosi clienti proprio negli alberghi a cinque stelle.

Mitch ha una dipendenza dal sesso, ed è “schiavo” di una app che gli procura quotidianamente incontri sessuali occasionali. Rimane così immune al fascino della ragazza che alla fine stuzzica e deride, visto che lei gli ha confessato di essersi laureata a Stanford.

Rimasto solo, il ragazzo si rende conto di aver trovato l’argomento del suo articolo: una escort laureata nel secondo ateneo più importante degli Stati Uniti. Rintracciata, le propone un affare: la pagherà per seguirla e scrivere l’articolo su di lei. Natalie accetta, anche se proprio un articolo, qualche anno prima le ha bruciato ogni tipo di lavoro adatto alla sua laurea avviandola alla prostituzione di lusso. Ma…

Scritta dallo stesso Doneger insieme a Brandon A. Cohen, questa bella pellicola ci parla dell’amore, e soprattutto della paura dell’amore che rende cinici, ruvidi e infelici. Ma l’amore, come la vita, nasce nei posti più improbabili, e come diceva il maestro Fabrizio De André: “Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori”.

Ottimo esempio della grande tradizione del cinema americano indipendente.

“Solo” di Arturo Brachetti

(Italia, 2017/2018)

Uno dei più grandi artisti italiani del palcoscenico è tornato in molti teatri della Penisola col suo nuovo One Man Show. Riprendendo e sviluppando alcuni suoi numeri già rodati e inserendone di nuovi, Brachetti, senza lasciarci un attimo di respiro, ci inchioda alla poltrona per quasi due ore.

Solo pochi artisti al mondo sanno riuscirci così, e Brachetti è uno di questi e sicuramente uno dei migliori. Maestro indiscusso del trasformismo contemporaneo, l’artista torinese passa da un costume all’altro in meno di un battere di ciglia.

Dobbiamo essere orgogliosi di avere un artista così, capace di stupire da oltre trent’anni, e capace di rinnovarsi rimanendo fedele a se stesso e alla sua arte. Arte che sa conciliare al meglio le antiche tradizioni, come ad esempio le classiche ombre cinesi, ai più contemporanei effetti speciali basati sul laser.

Ma alla fine è inutile tentare di parlare o descrivere uno spettacolo di Arturo Brachetti: bisogna vederlo e viverlo.

“Un agguato una sera al mare” di Paolo Levi

(Rizzoli, 1978)

Fregene è una delle località litorali estive preferite dagli abitanti della Capitale. Dagli anni Sessanta, è diventata una delle più eleganti e modaiole, e così molti appartenenti alla “Roma Bene” vi hanno acquistato la loro casa per le vacanze.

Questo vale anche per Davide, rampollo di mezz’età di una ricca famiglia romana, che ha passato la vita mantenendo il patrimonio creato di generazione in generazione.

In una delle numerose feste serali, Davide rimane profondamente colpito da una giovane e affascinante donna, che si rivela essere la moglie di un regista in cerca di finanziatori.

Quasi per gioco Davide confessa di essere disponibile a finanziare il film in cambio di una notte d’amore con la moglie. E rimane piacevolmente sorpreso quando il regista immediatamente accetta. Le cose si complicano quando, durate una gita in alto mare, il regista viene volontariamente affogato…

Bel giallo all’insegna della nostra grande tradizione letteraria, che come sanno e possono fare solo i gialli, ci racconta anche quello scontro cruento fra due parti della nostra società, una delle quali finirà inesorabilmente per fagocitare l’altra.

Da leggere.

“La danzatrice di Izu” di Yasunari Kawabata

(Adelphi, 2017)

Yasunari Kawabata è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1968, ed è stato il primo autore figlio del Paese del Sol Levante a vincerlo. Ancora giovane pubblica nel 1926 il racconto “La danzatrice di Izu” che diviene subito uno degli scritti giapponesi più conosciuti al mondo, e allo stesso tempo uno dei più rappresentativi della cultura nipponica.

Il viaggio del giovane studente di Tokyo nella penisola di Izu, è uno dei più belli della letteratura mondiale. La formazione sentimentale del ragazzo è fra la più struggenti del Novecento, e molto ci dice della società giapponese, dei suoi rapporti interpersonali, del ruolo e della figura della donna.

Sotto molti aspetti paragonabile a “L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert, “La danzatrice di Izu” dipinge con maestria rara quel sogno adolescenziale che tutti abbiamo avuto e che nessuno di noi è riuscito a cogliere.

Questo volume dell’Adelphi contiene anche le tracce di due conferenze tenute da Kawabata sulla bellezza, e su come questa può alimentare e illuminare la nostra vita.

“Ethel & Ernest – Una storia vera” di Roger Mainwood

(UK/Lussemburgo, 2016)

Raymond Briggs è considerato, giustamente, uno dei maggiori artisti grafici britannici, e non solo. Molte sono le sue opere pubblicate in numerose lingue, fra cui spicca “Il pupazzo di neve”.

Ma nel 1999 Briggs pubblica una graphic novel dedicata alla storia d’amore, durata oltre quarant’anni, dei suoi genitori. E il libro, inaspettatamente per i meno attenti, vola nelle classiche di vendita.

Dall’opera di Briggs, Roger Mainwood trae un lungometraggio quasi interamente disegnato a mano, che ci racconta dall’incontro di Ethel ed Ernest, avvenuto nella Londra del 1928, alla loro dipartita avvenuta per entrambi nel 1971.

Attraverso le loro vite ripercorriamo la storia della Gran Bretagna e dell’Europa di quegli anni, ma tutto negli ambienti della loro piccola casa a schiera a Wimbledon Park, nella periferia di Londra.

E soprattutto comprendiamo al meglio il carattere e lo stile di vita di una piccola e “normalissima” famiglia inglese nel secolo breve. Comprendiamo meglio così anche la società e i sudditi di Sua Maestà che tanto hanno inciso nel Novecento.

Il tutto raccontato con dei disegni e un tratto a dir poco sublimi. Una sorta di “I miei vicini Yamada” all’inglese. Bellissimo e struggente.

“Sojux 111 Terrore su Venere” di Kurt Maetzig

(Germania Est/Polonia, 1960)

Questo è uno dei pochi film di fantascienza girati oltre cortina negli anni Cinquanta, che abbia avuto un certo riscontro anche in Occidente. La sceneggiatura è tratta dal romanzo “Astronauci” del polacco Stanislaw Lem (autore fra gli altri di “Solaris” che Tarkovskij adattò splendidamente per il cinema nel 1972) ed è impregnata, come quasi tutti i film di genere dell’epoca – dentro e fuori cortina – dalla paura dell’olocausto atomico.

Siamo nel futuristico 1985, e invece dei paninari, l’argomento principe sulla bocca di tutti è una sorta di nastro extraterrestre rinvenuto casualmente nel deserto dei Gobi. Gli studiosi di tutto il mondo – visto che la Terra finalmente vive in pace, e tutte le nazioni collaborano sinergicamente allo studio del cosmo e ai viaggi spaziali – scoprono che è una sorta di diario di bordo proveniente da un’astronave extraterrestre precipitata molto tempo prima in Siberia.

L’astronave, nell’impatto con la crosta terrestre è andata distrutta, ma il messaggio, lanciato evidentemente poco prima della collisione, si è salvato. Ma nessuno, sul nostro Pianeta, riesce a decifrarlo. Si riesce a stabilire solo che il velivolo proveniva dal pianeta Venere.

Era in preparazione la prima spedizione internazionale su Marte, ma viene dirottata subito su Venere. L’equipaggio è cosmopolita: dall’U.R.S.S. agli Stati Uniti, dal Giappone all’India, dalla Repubblica Popolare Cinese alla Polonia, dalla Germania Est all’Africa. Ma quando i cosmonauti raggiungono la superficie di Venere scoprono una tragica verità…

Con un epilogo simile a quello di “RX-M Destinazione Luna” di Kurt Neumann girato negli Stati Uniti nel 1950, questo film pacifista punta il dito – come nessun altro film di fantascienza girato in quegli anni in Occidente – in faccia all’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki, e alla ferocia e gli effetti tragicamente duraturi della guerra atomica.

Effetti visivi e sonori davvero all’avanguardia per l’epoca. Da vedere per gli amanti del genere, e non solo.

Per la chicca: nel 1962 viene girato “I sette navigatori dello spazio” suo sequel ideale.

“Il Signore degli Anelli” di Ralph Bakshi

(UK, 1978)

Fino all’avvento del computer e dell’era digitale, la tecnica del rotoscopio era una delle più usate nel cinema. Un disegnatore ricalcava le immagini girate con attori veri per ottenere cartoni animati più realistici o effetti speciali altrimenti irrealizzabili.

Volete un esempio? Il genio George Lucas lo usa per rendere “laser” le spade manovrate da Jedi (…passati al lato oscuro o no…) nella trilogia di “Guerre Stellari”, spade che in realtà erano semplici aste.

Così quando Ralph Bakshi, reduce dal successo del film cult d’animazione “Fritz il gatto” decide di adattare per lo schermo l’opera più famosa di J.J.R. Tolkien, per evitare di realizzare un film troppo edulcorato, adatto a un pubblico giovane ma non troppo, opta per questa tecnica.

Il problema più grande è la sceneggiatura: molti ottimi autori cinematografici, negli anni precedenti, avevano provato a realizzare un solo film dai tre volumi di Tolkien, ottenendo sempre un risultato incompleto e caotico. Così Bakshi, insieme a Chris Conkling e Peter S. Beagle, decidere di dividere le avventure di Frodo in due pellicole. E lo script del film, che nelle intenzioni del regista deve essere il più fedele possibile al libro, si ferma a metà del secondo libro “Il ritorno del Re”.

Il risultato è un lungometraggio di due ore affascinante e magico, che riporta quasi integre, le atmosfere create da Tolkien. E’ evidente che più di una scena, nella sua dinamica così come nelle sue scenografie – alcune delle quali davvero sublimi – hanno ispirato profondamente Peter Jackson per la sua straordinaria versione realizzata oltre vent’anni dopo, cosa che il regista neozelandese d’altronde non ha mai nascosto.

Purtroppo il pubblico del 1978 non era pronto ad un tale impatto visivo e narrativo, così gli incassi furono molto sotto le aspettative e la produzione non finanziò la seconda parte. Davvero un gran peccato.

“L’uomo al balcone” di Per Wahlöö e Maj Sjöwall

(Sellerio, 1966/2008)

Eccoci alla terza avventura dell’Ispettore scandinavo Martin Beck, creato dalla coppia Per Wahlöö e Maj Sjöwall.

E’ certamente l’indagine più dura e disperata di Beck, visto che all’inizio di una afosa estate, Stoccolma è preda di un feroce e imprendibile serial killer. Le vittime sono tutte bambine intorno ai dieci anni che vengono prima strozzate e poi violentate.

Tutte le vittime innocenti giocavano serene in uno dei parchi pubblici della città, ma questo non basta a far trovare il bandolo della matassa a Beck. Per fermare il mostro è necessaria anche una bella dose di fortuna.

Nel frattempo, Beck dovrà vedersela con mitomani, presunti colpevoli e ronde di sicurezza di volenterosi e incoscienti cittadini…

Una storia dura per Beck, che dovrà guardare in faccia la parte più oscura e odiosa del suo lavoro. Come sempre, un’ottima prova d’autore per Wahlöö e Sjöwall.