“Telefonata a tre mogli” di Jean Negulesco

(USA, 1952)

Comiciamo col parlare del titolo in italiano che non c’entra una soave mazza con quello originale “Phone Call from a Stranger”. Il nostro è – …guarda caso… – molto più perbenista e volgarmente maschilista, perché le telefonate che fa il protagonista di questo film sono in realtà quattro: a tre moglie e a un marito. Ma allora, nella simpatica Italia formale e bacchettona, una donna che lasciava il proprio marito non merita niente, neanche di essere citata nel titolo…

David Trask (Gary Merrill, nella vita reale marito della Davis) abbandona le sue due figlie e la moglie, quando questa le confida di aver avuto una relazione con un altro uomo, ora finita. Trask si reca all’aeroporto e prende il primo volo disponibile per Los Angeles. Nella sala d’attesa conosce Binky Gay (un’avvenente Shelley Winters) cantante e spogliarellista – che nella nostra versione è detta pudicamente “nudista” – che è al suo primo volo. Se Trask riesce a calmarla, l’arrivo di altri due viaggiatori invece la fa tornare preda dell’ansia. Il commessio viaggiatore  Eddie Hoke (Keenan Wynn) e il medico Robert Fortness (Michael Rennie), viaggiatori consumanti infatti scherzano un pò troppo sulle pessime condizioni metereologiche con cui il loro aereo dovrà volare. In pochi minuti i quattro – come capita a volte in viaggio con perfetti sconosciuti – si scambieranno brevi cenni delle propria vita, arrivando anche a confessare gravi sbagli. E Hoke sembra essere il più superficiale e scostante di tutti quando mostra orgoglioso la foto di sua moglie Marie (Bette Davis) in costume da bagno.

La nebbia che cala improvvisamente e il ghiaccio che si forma sulle ali del velivolo causano una sciagura aerea alla quale solo Trask sopravvive. Dimesso dall’ospedale l’uomo decide di incontrate le mogli e il marito dei suoi compagni di viaggio periti. Passa prima a casa Fortness, poi nel locale notturno dove il marito di Binky Gay si esibisce, e infine a casa Hoke, dalla signora Marie (una superba Bette Davis). E proprio dopo aver parlato con lei deciderà di telefonare a sua moglie (la terza, appunto).

Grande scena finale, nel segno della grande Hollywood d’annata. Jean Negulesco (già regista di pellicole come “La maschera di Dimitrios” o “Come sposare un milionario”) dirige una pellicola struggente, scritta da I.A.R. Wylie e Nunnaly Johnson.

“I 2 superpiedi quasi piatti” di E.B. Clucher

(Italia/USA, 1977)

Qui parliamo di un pezzo della mia infanzia. Di uno dei film più spettacolari della coppia mitica Bud Spencer-Terence Hill. Campione di incassi quando uscì nelle sale, oggi è considerato, giustamente, un vero cult.

Scritto e diretto da E.B. Clucher – al secolo Enzo Barboni – questa pellicola ancora oggi non perde un colpo. Grazie ai suoi due grandi protagonisti, certo, ma anche alle maestranze teniche e artistiche che vi partecipano. Artisti come lo stesso Barboni o David Huddleston – il capitano McBride – che nella sua lunga carriera ha lavorato con registi come Roman Polanski, Terence Young, Mel Brooks o i fratelli Coen. Per non parlare poi di tutti i bravissimi stuntman.

La redenzione di Wilbur/Spencer e Matt/Hill, che da lestofanti diventano poliziotti modello in una solare Miami, ancora ci coinvolge. Come ci coinvolgono le gag e la battute storiche. Dalla spudorata preferenza del capitano McBride per Matt (che ricorda tanto quella di Parisina per Mario/Troisi a scapito di Saverio/Beningi ne “Non ci resta che piangere” girato quasi sette anni dopo) al il tentato raggiro da parte della falsa aristocratica russa Galina Kocilova e amica.

E proprio in casa della Kocilova si consuma una delle battute del secolo:

Matt: Tu lo reggi il whisky?

Wilbur: I primi due galloni si, poi divento nostalgico e può scapparci la lite.

Immortale.