“La gatta” di Jun’ichirō Tanizaki

(Bompiani, 1977)

C’è chi ama gli animali e chi no. E fra quelli che amano gli animali, ci sono quelli che amano i gatti. Visto che possiedo più di un gatto, un cane e altri animali più o meno domestici, non sto certo affermando che gli amatori di gatti sono più o meno valorosi degli altri. Dico solo che avere e amare un gatto – così come amare un canarino o un furetto – ha le sue peculiarità.

Leggendo questo breve ma intenso romanzo di Jun’ichirō Tanizaki, pubblicato per la prima volta nel 1936, si comprende subito che l’autore era un fervente amante dei piccoli felini.

Tanizaki è stato uno dei più importanti scrittori giapponesi del Novecento, nominato per il Nobel per la Letteratura nel 1964, e autore di numerosissimi scritti, da cui il cinema mondiale ha preso più volte ispirazione nel corso dei decenni.

La protagonista di questo romanzo è Lily, una splendida gatta di dieci anni, che l’indolente Shozo ama follemente da quando l’ha raccolta ancora cucciola, e che adesso è al centro delle macchinazioni della sua ex moglie Shinako ai danni della nuova Fukuko. Ma i gatti non si addomesticano, visto che si dice che siano loro a scegliere il padrone, e non il contrario…

Magistrale racconto psicologico che, parlando di amore per i gatti, ci racconta in maniera sublime dell’animo umano.

Da leggere.

“L’amore di Murphy” di Martin Ritt

(USA, 1985)

Sally Field, fresca vincitrice del suo secondo Oscar come miglior attrice protagonista – per “Le stagioni del cuore” di Robert Benton –  torna ad essere diretta da Martin Ritt (vero maestro di Hollywood che ha firmato pellicole come “La spia che venne dal freddo”, “Il prestanome“, o “Lettere d’amore”) che l’aveva già diretta in “Norma Rae” pellicola grazie alla quale vinse la sua prima statuetta.

Emma Moriarty (la Field) vuole iniziare una nuova vita insieme al figlio dodicenne Jake. E’ nata e cresciuta in un ranch, e gestirne uno è quello che sa fare meglio. Così, con i limitati rispiarmi, ne ha comprato uno alla porte di una piccola cittadina dell’Arizona. I pochi soldi che le sono rimasti devono bastare per far sopravvivere suo figlio e lei finché l’attività non decolla.

Fra i vari abitanti della città, quello che la colpisce di più è Murphy Jones (un bravissimo James Garner), l’attempato e anticonformista farmacista e padrone dell’emporio della città. Fra i due si instaura subito uno strano e impalpabile rapporto che subisce un brusco mutamento quando nel ranch arriva Bobby Jack, l’ex marito di Emma e padre di suo figlio…

Se la Field è brava come sempre, in questa pellicola romantica e intimista, possiamo apprezzare le doti di Garner, che proprio per questo ruolo venne candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. E pensare che Ritt e la Field dovettero discutere non poco con la produzione per inserirlo nel cast, visto che in quegli anni James Garner era considerato soprattutto un attore da televisione.

“La farfalla sul mirino” di Seijun Suzuki

(Giappone, 1967)

Se vogliamo essere fiscali, dobbiamo riconoscere che la sceneggiatura di questa leggendaria pellicola di Seijun Suzuki ha qualche lacuna e incongruenza. Ma d’altronde la produzione gliela fece riscrivere in sole 24 ore, dopo avergli bidonato l’originale. Nonostante ciò, “La farfalla sul mirino” è uno dei film più visionari e citati nella storia del cinema.

Quando la produzione vide l’opera finita, cacciò Suzuki che intentò una lunga lite legale, che ancora è oggi fra le più significative del mondo cinematografico nipponico. Il regista venne inserito in una sorta di “lista nera” e non girò un film per oltre dieci anni. Riuscì a mantenersi solo lavorando per la televisione.

Grazie a queste vicissitudini il film cominciò a circolare nei cineclub più d’avanguardia e nel corso degli anni è diventato un vero e proprio cult. Tanto da influenzare la grande cinematografia d’azione coreana, così come quella statunitense. Fra gli estimatori di quest’opera ci sono infatti nomi come Chan-wook Park, John Woo, Quentin Tarantino e Jim Jarmusch.

La storia di Godo Hanada, il miglior killer n. 3 del Giappone, che per sopravvivere deve combattere contro un’organizzazione della yakuza e poi contro tutti gli altri migliori killer fino alla scontro epico e claustrofobico contro il famigerato e fantomatico n.1, non è poi così importante. Quello che conta sono le immagini che ci mostrano sequenze davvero eccezionali con trovate geniali e paradossali che ancora oggi fanno scuola.

Insomma, senza questo film, che al suo regista costò di fatto la carriera, il cinema d’azione non sarebbe lo stesso.

Per la chicca: il titolo originale “Koroshi no rakuin” letteralmente sarebbe “il marchio dell’assassino”, titolo con cui il film venne distribuito all’inizio. La farfalla, a cui fa riferimento il nuovo titolo, è quella che nel film si posa realmente sul mirino di Hanada, nel momento topico, cambiando così la storia.

“Sui marciapiedi” di Otto Preminger

(USA, 1950)

Dixon (Dana Andrews) è un ottimo poliziotto, ma la sua aggressività ha spesso messo il Dipartimento di Polizia nei guai. Dopo l’ennesimo arresto violento, Dixon viene degradato, cosa che fa aumentare la sua rabbia. Rabbia che parte da lontano: suo padre, infatti, era un manigoldo con un losco giro d’affari che morì tentando di fuggire per l’ennesima volta dal carcere.

Essere considerato “il figlio di Dixon” per l’agente è stato sempre molto doloroso. La situazione precipita quando si reca a casa di un sospetto per arrestarlo. Kenneth Paine, infatti, è il primo indiziato per l’assassino di ricco petroliere texano avvenuto la sera prima in una bisca clandestina. E quando Dixon tenta di prelevarlo, Paine lo colpisce. L’agente, per difendersi, lo colpisce a sua volta facendogli involontariamente sbattere la testa. Il colpo è letale, visto che Paine, decorato nella Seconda Guerra Mondiale, aveva una placca metallica alla base del cranio.

Dixon è convinto che nessuno gli crederà e così inscena la fuga di Paine, gettando poi il suo corpo nel fiume. Durante le indagini ufficiali, Dixon incontra Morgan (Gene Tierney) ex moglie di Paine, della quale subito si invaghisce. Quando viene rinvenuto il corpo di Paine nel fiume, però le cose per Dixon si complicano…

Tratto dal romanzo di William L. Stuart e sceneggiato da Ben Hecht, Robert E. Kent, Frank P. Rosenberg e Vitctor Trivas, “Sui marciapiedi” è davvero un noir d’antologia, firmato da un maestro della macchina da presa come Otto Preminger, fra quelli che hanno “fatto” Hollywood.

“La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli

(Italia, 1968)

Di questo capolavoro del maestro Mario Monicelli non se ne parla mai abbastanza. Se è vero che forse l’ambientazione, e soprattutto le musiche e i costumi, sono strettamente legati agli anni in cui venne girato, la sceneggiatura, l’interpretazione dei protagonisti e la mano graffiante del regista sono ancora poderosamente attuali.

Scritto da Rodolfo Sonego e Luigi Magni, con la penna ovviamente anche di Monicelli, questa pellicola consacra definitivamente Monica Vitti fra le più grandi attrici comiche e brillanti della storia del cinema. Una grande attrice comica di una bellezza luminosa e seducente, con delle gambe e uno sguardo che ancora incantano.

In un piccolo paesino siciliano Assunta Patanè (la Vitti che sfoggia una treccia castano scuro lunga fino ai fianchi) viene erroneamente fatta rapire dal fascinoso Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffrè) invaghito della cugina. Visto che Assunta si dichiara da sempre innamorata di lui, Vincenzo soprassiede all’errore e passa una notte d’amore con lei. All’alba però Assunta si ritrova sola, sedotta e abbandonata. Vincenzo per non riparare è scappato in Scozia. Ad Assunta, ormai emarginata e svergognata, non rimane altro che lavare col sangue il disonore, visto poi che non ha parenti maschi.

Parte così per il Regno Unito con una valigia di cartone e una pistola nella borsa. Ma da Edinburgo a Bath, Macaluso riesce sempre a sfuggirle per un soffio. E proprio a Bath Assunta incappa nel Dottor Osborne, un medico chirurgo che decide di aiutarla. Assunta inizia a studiare come infermiera e lentamente si integra in una società così diversa dalla sua. Ma l’ossessione per Macaluso la riassale quando lo incontra per caso e tenta vanamente di ucciderlo.

Ancora una volta Osborne la soccorre, ma la costringe a tornare in Italia con un aereo che fa scalo nella capitale inglese. Il richiamo della “Swinging London” però è irresistibile e così, qualche tempo dopo Osborne incontra Assunta a Londra, ormai totalmente integrata nella società. Oltre a cantare in un locale la sera, Assunta fa la modella per varie pubblicità. E proprio notandola su un cartellone pubblicitario Macaluso la inizia a cercare…

Lo scontro-incontro fra la nostra cultura più chiusa e quella moralmente molto più aperta anglosassone sembra all’inizio avere caratteristiche macchiettistiche. Ma ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, non c’è poi così tanto da ridere. Soprattutto sul ruolo e il riconoscimento sociale della donna. Possiamo parlare di molte cose, è vero, ma il nostro Paese ha comunque una media tragicamente alta di femminicidi: quasi uno al giorno.

E Monicelli ci spiega magistralmente come: alla fine (e per una volta spoileriamo pure) quando Assunta seduce e abbandona Vincenzo per seguire il suo amore emancipato e alla pari col medico inglese (altro che pistola, è l’emancipazione l’arma davanti alla quale i “veri” uomini tremano..) per Vincenzo lei non è altro che: “…una bottana!”.

Perché Assunta/Vitti non è Agnese/Sandrelli di “Sedotta e abbandonata”, la cultura anglosassone l’ha emancipata e lei sa bene quello che vuole e soprattutto quello che non vuole. L’irresistibile maschio latino, però, non può essere rifiutato o abbandonato, e se accade è ovviamente solo colpa infame della donna…

Da vedere e far vedere agli aspiranti “veri” maschi latini.

Per la chicca: spettacolare sequenza di una partita di rugby a Bath, città storica della palla ovale inglese.

“Il filo del rasoio” di Edmund Goulding

(USA, 1946)

Questo adattamento del noto romanzo di William Somerset Maugham è stato uno di primi grandi successi del Secondo Dopoguerra di Hollywood. Dedicato ai travagli interiori dei reduci (della Prima Guerra Mondiale) “Il filo del rasoiso” ci racconta la storia di Larry Darrell (un bravo e bello Tyrone Power) fidanzato con la ricca Isabella Bradley (una luminosa Gene Tierney) appena tornato indenne dal fronte.

La famiglia di Isabella – e soprattutto suo zio, il ricco Elliot Templeton impersonato magistralmente da Clifton Webb – vorrebbe che Larry iniziasse a lavorare per poi sposarsi ma lui, invece, con la piccola rendita che gli spetta non intende assumersi nessuna responsabilità: vuole solo comprendere se stesso.

Per amore Isabella accetta che il suo fidanzato si trasferisca a Parigi, ma dopo un anno lo raggiunge e gli impone di sposarla. Lui rifiuta e il loro fidanzamento viene così annullato. Isabella, come vuole la famiglia, sposa il suo ricco spasimante di sempre, mentre Larry arriva fino in Nepal per trovare se stesso. Ed è proprio lì che comprenderà che la felicità e la pace con se stessi sono come camminare sul filo di un rasoio. Quando, anni dopo, rientrerà a Parigi troverà le cose e le persone molto cambiate…

Melodrammone che però ha molti meriti, oltre a una regia elegante e sopraffina, la storia melò viene interpretata magistralmente da tutti i protagonisti, anche quelli che hanno ruoli secondari come Anne Baxter, o addirittura solo un piccolo cameo come Elsa Lanchester.

“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh

(USA, 2017)

Al di là dei numerosissimi premi che ha già vinto (e con l’approssimarsi della consegna degli Oscar 2018, molto probabilmente ancora vincerà) “Tre manifesti a Ebbing, Mossouri” è davvero un gran bel film.

Scritto e diretto da Martin McDonagh, la pellicola – il cui titolo in italiano rispecchia, per una volta correttamente, il titolo originale “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” – ci consegna una prova d’attrice formidabile della già premio Oscar Frances McDormand.

Mildred (la McDormand) decide di affittare per un anno tre grandi cartelli pubblicitari nelle vicinanze della sua casa, nei pressi della piccola cittadina di Ebbing. Sui grandi cartelli fa scrivere tre domande dirette allo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) in relazione allo stato delle indagini sull’assassinio di sua figlia adolescente avvenuto sette mesi prima.

La ragazza, appena uscita di casa, fu rapita brutalmente seviziata e stuprata mentre moriva, per poi essere data alle fiamme. Willoughby ha battuto tutte le strade, ma purtroppo non è comparso nessun indizio. Se prima tutta la cittadina era spiritualmente con Mildred, il suo gesto, che rovescia ovviamente molta pubblicità negativa sulla Polizia locale, indispettisce molti benpensanti. Ma la donna non ha la minima intenzione di fermarsi…

Strepitosa commedia noir, con un cast davvero superbo che vede oltre alla McDormand e Harrelson, anche un grande Sam Rockwell nei panni dell’ottuso e razzista agente Dickson.

Da vedere.

“Bravo!” di Terzoli & Vaime

(Italia, 1980)

Italo Terzoli ed Enrico Vaime sono stati una delle coppie di autori più prolifiche e divertenti del nostro spettacolo. Dopo il successo della seconda edizione di “Rugantino” con Enrico Montesano, il duo scrive uno spettacolo ad hoc per il comico romano, prodotto dalla grande Garinei & Giovannini, con le musiche del maestro Armando Trovajoli e la regia dello stesso Pietro Garinei.

In una domenica di riposo, un attore (Montesano) porta suo figlio appena adolescente Chicco dietro le quite del teatro nel quale dovrà allestire il suo nuovo spettacolo. Lui stesso non sa esattamente come sarà, e allora insieme al figlio esplora tutti i generi che hanno fatto grande il teatro italiano del Novecento. Grazie ad una serie di esilaranti imitazioni sul palcoscenico passano tutti i più grandi: da De Filippo a Gassman, da Rascel a Totò.

Con le coreografie di Gino Landi, Enrico Montesano si dimostra attore eclettico e di razza, un vero animale da palcoscenico. Ad oltre trent’anni di distanza, solo pochissime battute di Terzoli & Vaime appaiono un pò datate, legate soprattutto ai nomi della famigerata Prima Repubblica. Ma la restante critica al popolo furbetto che abita lo Stivale è sempre graffiante e attuale.

Parlando poi di Montesano, non si può non apprezzarne la bravura, che sembra aver ispirato tanto quella di alcuni comici di oggi, come per esempio Enrico Brignano o Giorgio Panariello.

“Guardato a vista” di Claude Miller

(Francia, 1981)

Nonostante quasi tutta l’azione del film si svolga dentro una stanza, la sceneggiatura di questo bellissimo film è tratta da un romanzo e non da un’opera teatrale, come verrebbe da pensare. Il romanzo è “Stato di fermo” di John Wainwright (1921-1995) prolifico scrittore inglese. L’adattamento cinematografico è scritto da Jean Vautrin e dallo stesso Claude Miller che poi lo dirige, e i dialoghi sono scritti da Michel Audiard, fra i più noti autori di Francia. E ad impersonare i due protagonisti ci sono due monumenti del cinema mondiale come Michel Serrault e Lino Ventura.

E’ la sera di San Silvestro, esattamente le ore 21.00, e Jerome Martinaud (uno stratosferico Serrault) noto e ricco notaio di una facoltosa cittadina della Normandia è convocato al commissariato per l’ennesimo chiarimento sulla sua deposizione. Martinaud, infatti, qualche giorno prima ha rinvenuto nei pressi di un boschetto ai margini della città, il corpo straziato di una bambina che prima è stata strangolata e poi violentata. A condurre l’interrogatorio è l’ispettore Gallien (un altrettanto stratosferico Ventura) che sembra non credere completamente alle dichiarazioni del notaio. E poi, una settimana prima del tragico ritrovamento, lo stesso Martinaud era nei pressi di una spiaggia dove poche ore dopo venne rinvenuto il corpo di un’altra bambina strangolata e poi violentata.

La posizione di Martinaud oscilla sempre più, ma la sua dialettica e le indiscrezioni che concede a Gallien sulla sua vita privata lasciano forti dubbi sulla sua colpevolezza. A cambiare le sorti dell’interrogatorio giunge, nel cuore della notte, Chantal Martinaud (una sempre elegante ma già molto fragile Romy Schneider) moglie del notaio, che fornisce a Gallien una prova che sembra essere quella decisiva sulla colpevolezza del marito. Ma all’alba del nuovo anno…

Strepitoso noir che ci regala la sublime prova di due attori di gran classe davvero immortali. Una splendida pellicola per chi ama davvero il cinema. Onore anche a Glauco Onorato e Manlio De Angelis che doppiano magistralmente rispettivamente Ventura e Serrault nella nostra versione.

“L’uomo che andò in fumo” di Maj Sjöwall e Per Wahlöö

(Sellerio 1966/2009)

Nella sua seconda avventura, Maj Sjöwall e Per Wahlöö, portano il commissario Martin Beck in Ungheria, e precisamente a Budapest.

Lì, infatti, viene inviato il più famoso detective di Scandinavia per rintracciare, ufficiosamente, Alf Matsson, noto giornalista e famigerato anche per il suo carattere iroso e il suo grave alcolismo. Le ultime notizie ufficiali di lui si hanno in un grande albergo poche ore dopo il suo arrivo nella capitale magiara, città nella quale poi sembra incredibilmente svanito nel nulla.

Beck, nonostante il supporto della Polizia locale, non sembra riuscire a venirne a capo. Solo quando alcuni suoi colleghi smuovono le acque a Stoccolma il mistero si dipanerà…

Come sempre, gran bel giallo firmato dalla coppia Sjöwall e Wahlöö, che colpisce ancora per la sua modernità di scrittura e scorrevolezza.