Simon Pegg è diventato famoso in Gran Bretagna, assieme a Nick Frost, con la “Trilogia del cornetto”, una serie di film demenziali horror/comici. Poi sono iniziati i ruoli nelle grandi produzioni come “Mission Impossible” o “Star Trek”. Ma con questo “Paul”, Pegg torna alla fantascienza demenziale.
Scritto e interpretato assieme a Nick Frost, anche lui coprotagonista della trilogia demenziale e poi interprete di varie pellicole di ottima qualità (come “Kinky Boots – Decisamente diversi” o “I Love Radio Rock“) “Paul” ci racconta l’avventura americana di due nerd inglesi, Greame (Pegg) e Clive (Frost) che, con i risparmi di una vita, organizzano un viaggio negli USA per partecipare prima al mitico Comic-Con e poi, affittando un camper, fare un viaggio-pellegrinaggio nei luoghi cult dell’ufologia locale. Ma sulla loro strada incappano in Paul, un extraterrestre in fuga da un laboratorio segreto governativo, che i due decidono di aiutare.
Demenziale fantacommedia con alcuni momenti davvero divertenti e citazioni a non finire. Da ricordare l’interpretazione di Kirsten Wiig (fra le migliori attrici comiche contemporanee e doppiatrice di tutti i “Cattivissimo Me”) nel ruolo di Ruth, una ragazza frutto del più becero bigottismo americano che grazie a Paul …vede la luce. E quella di Jeffrey Tambor nei panni di un arrogante scrittore di fantascienza. Piccolo e gustosissimo cameo della grande Sigourney Weaver. Per appassionati e, soprattutto, dementi fanatici di fantascienza (…come me).
Per la chicca: nella versione originale Paul è doppiato da Seth Rogen, nella nostra davvero magistralmente da Elio.
George Cukor è rimasto nella storia del cinema come uno dei più grandi narratori di donne di sempre. Le sue muse sono state dive come Greta Garbo, Kathrine Hepburn, Elizabeth Taylor, Marilyn Monroe, Ava Gardner, Rita Hayworth, Audrey Hepburn, Ingrid Bergman o Jane Fonda. E nel 1972 racconta quella assai originale di Augusta, protagonista del romanzo “In viaggio con la zia” di Graham Greene. Come protagonista sceglie Maggie Smith, notissima attrice di teatro inglese e già vincitrice dell’Oscar come miglior attrice per “La strana voglia di Jane” nel 1970.
Al solitario funerale della madre dell’austero direttore di banca Henry (Alec McCowen) arriva una strana e invadente signora anziana. E’ Augusta (Maggie Smith) che si presenta come la sorella della deceduta, e quindi zia di Henry. In poche ore la vetusta signora convince il nipote a seguirla a Parigi dove deve sbrigare certi affari poco chiari. Nella metropoli francese Henry conosce Wordsworth (Louis Gossett Jr.) amico intimo della donna, che gli confida che Augusta è in cerca di centomila dollari per salvare la vita a Visconti (Robert Stephens), suo antico primo amore.
La caccia ai soldi porta zia e nipote in giro per il mondo e, durante i lunghi spostamenti, Augusta racconta al nipote i fatti cruciali della sua lunga – e …discutibile – esistenza fatta soprattutto di amore e incoscienza. Alla fine i due riusciranno a trovare quello che hanno sempre cercato, …anche senza saperlo?
Agli spettatori l’ardua sentenza, visto che io non spolirezzo mai. Deliziosa e ironica commedia sopra le righe con una Maggie Smith fascinosa e carnale come poche.
Hai capito il buon vecchio Silente: e chi se l’ha aspettava a una giovane Minerva McGranit così sensuale e vempirona… e bravo Albus!
Per la chicca: Robert Stephens, l’attore che interpreta Visconti, è stato il primo marito della Smith, suo compagno – durante il loro matrimonio – di palcoscenico e anche di set.
Quando la nostra editoria era grande, avevamo un folta schiera di giallisti e relativi detective di buona e alta qualità fra cui scegliere per passare con loro alcune ore, il tempo di leggere un libro.
Renato Oliveri (1925-2013) era uno di questi. Il suo esordio giallo risale al 1 gennaio del 1978, giorno in cui viene pubblicato (da Rusconi) il suo primo romanzo “Il caso Kodra”, ambientato in una cupa e nebbiosa Milano.
Il protagonista creato da Olivieri è il malinconico vice commissario Giulio Ambrosio, 48enne divorziato e senza figli, uomo di scrivania più che d’azione. Più vicino a Maigret che a Montalbano insomma.
A causa delle ferie di un collega, sulla scrivania di Ambrosio arriva il caso di una donna vittima di un pirata della strada. Per rivedere i luoghi della sua vita passata, il vice commissario decide di fare un sopralluogo. Studiando la dinamica dell’incidente e soprattutto ascoltando il racconto dell’unico testimone – che più che vedere vista la nebbia ha sentito – qualcosa non gli torna.
Ambrosio inizia così a ricostruire la vita di Anna Kodra, una profuga istriana che dopo la guerra si è trasferita prima a Trieste, poi a Padova e infine a Milano…
Un giallo crepuscolare incentrato sui ricordi e sulla vita che è stata, sui rimpianti e sull’amore. La nascita letteraria di Giulio Ambrosio, che poi diverrà una delle figure gialle più note nel nostro panorama degli anni Ottanta e Novanta, è un libro che si gode fino all’ultima pagina.
La Dreamworks – nata da un’idea del genio di George Lucas – è l’unica casa di produzione di animazione digitale che riesce davvero a competere con la Pixar. Nel corso degli anni sono riusciti, infatti, a creare lungometraggi di alta qualità come questo “La gang del bosco”.
RJ (la cui voce italiana è quella di Luca Ward) è un procione solitario che vive di piccoli espedienti. Ma una sera di primavera commette l’errore di rubare le riserve di cibo al feroce orso Vincent, che sveglia aprendo un pacco di infingarde Tuberine. Per non essere ucciso RJ promette di riportare all’orso tutte le vettoglie rubate, che nel frattempo sono andate perdute.
L’impresa sembra impossibile per un solo procione, ma RJ incapperà in un gruppo di animali ingenui che lo aiuteranno loro malgrado e in buona fede. Ma la bontà è spesso – e fortunatamente – “infettiva”…
Nel cast originale la voce di RJ è quella di Bruce Willis, coadiuvato da Steve Carell, William Shatner, Nick Nolte, Eugene Levy e Avril Lavigne. Nella nostra versione, oltre a Ward, va ricordato Pupo che da doppiatore consumato dona la voce allo scoiattolo iperattivo Hammy, doppiato in originale da Carell.
Scritta da Karey Kirkpatrick, Len Blum, Lorne Cameron e David Hoselton, questa pellicola è davvero un gioiellino.
Diablo Cody (il cui vero nome è Brook Busey) ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura con “Juno” ed è una delle più originali e schiette narratrici di donne del cinema contemporaneo. Suoi, infatti, sono gli script di film come “Jennifer’s Body” o “Young Adult”.
In questa sceneggiatura la Cody decide di raccontare la storia vera di sua suocera Terry Cieri, che per decenni è stata la leader di una rock band del New Jersey.
Linda Brummel (una stratosferica Meryl Streep) è una cantante rock, che con la sua band “Ricki and the Flash” vive per salire sul palco ogni sera. Per arrivare a fine mese Linda fa la cassiera in un grande supermercato, e abita in un buco di appartamento nei pressi di Los Angeles.
Una sera riceve la telefonata di Pete (Kevin Kline), il suo ex marito che le chiede aiuto: sua figlia minore Julie (Mamie Gummer, figlia vera della Streep) ha tentato il suicidio poco dopo essere stata abbandonata dal marito.
Linda si organizza come può precipitandosi a Indianapolis, città nella quale vive il suo ex marito, che è un industriale di successo, assieme ai suoi tre figli: Joshua, Adam e Julie. Linda ha abbandonato tutti molti anni prima, quando Julie era ancora una bambina, e lo ha fatto per seguire la sua natura di artista. Ma adesso farà drasticamente i conti con tutto il suo passato…
Insolita e commovente commedia con una straordinaria Meryl Streep che canta e suona la chitarra alla Bonnie Ratt. La mano del grande Jonathan Demme fa il resto.
Purtroppo si tratta dell’ultimo lungometraggio diretto da Demme.
Accade che i veri geni creino opere che spesso anticipino drammaticamente i tempi.
“Il grande dittatore”, per esempio, fu realizzato dal maestro Charlie Chaplin nel 1940, quando la maggioranza del pianeta vedeva ancora Hitler come un esempio di leader di una nazione da emulare. La stessa cosa vale con questo suo “Monsieur Verdoux” diretto nel 1947 e che, come il suo film precedente, incontrò parecchi problemi di censura.
Nell’opinione pubblica mondiale aveva lasciato un segno indelebile la vicenda del francese Henri Landru che, per sopravvivere alla grave crisi economica scoppiata nel suo paese subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, aveva strangolato e poi derubato dieci donne.
Da un’idea di Orson Welles, Chaplin sviluppa il soggetto e poi la sceneggiatura di questo suo capolavoro, cambiando il nome del protagonista per evitare problemi legali e di censura.
Il suo Monsieur Verdoux è un uomo molto elegante e distinto, non a caso ha lavorato per oltre trent’anni in un prestigioso istituto di credito. Ma quando è scoppiata la crisi lui, il più anziano degli impiegati, è stato cacciato senza alcun indugio. Così, per far sopravvivere la moglie invalida e il piccolo figlio, Verdoux è diventano un antiquario, attività dietro la quale cela i feroci omicidi che compie ai danni di donne sole alle quali ruba tutti i loro averi per poi investirli in Borsa.
L’uomo è costretto a inventare nuovi stratagemmi per non insospettire le sue vittime e durante una conversazione con un suo vicino farmacista copia la formula di un micidiale veleno che non lascia tracce nell’organismo. Per provarlo decide di abbordare una giovane sola nella notte (la censura gli impedì di palesarla come prostituta… sob!) ma, conoscendola meglio, scopre che la disperazione che ha portato la ragazza sulla strada nella notte (ma per carità non parliamo di prostituzione!) è la stessa che lo ha portato a diventare uno spietato killer. “E’ un mondo crudele, dove bisogna diventare crudeli per sopravvivere…” le dice cambiandole il bicchiere avvelenato, per poi congedarla dandole alcuni soldi per sopravvivere qualche giorno.
L’”attività” è redditizia e le sue speculazioni in Borsa danno il profitto sperato e così Verdoux vede la “pensione” e il ritiro dalla sua sanguinosa attività molto vicino. Ma il crollo disastroso di Wall Street del 1929 travolge lui e la sua famiglia. A farne le spese sono soprattutto la moglie e il piccolo figlio che non sopravvivono agli stenti.
Solo e rassegnato, Verdoux vaga per Parigi dove incontra casualmente la giovane prostituta che è diventata l’amante di un ricco costruttore di armi. La donna, ora che possiede mezzi quasi illimitati, vorrebbe ricambiare il gesto di Verdoux occupandosi di lui, ma la Polizia è ormai sulle sue tracce e l’uomo decide di consegnarsi senza implicarla.
Dopo un lungo processo Verdoux viene condannato a morte, ma prima di essere ricondotto in cella ammonisce la società che lo ha giudicato colpevole, visto che allo stesso tempo nobilita invece di punire i veri responsabili di milioni di morti come i costrutti di armi.
Ovviamente la parte più reazionaria della società americana – e occidentale in generale, uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale – si scagliò contro Chaplin dichiarandolo un regista antipatriottico e filo comunista, chiedendo poi la totale censura del film per il pericolo di emulazione.
La storia ci ha detto chi aveva ragione, e anzi ce lo continua a dire.
Non si può non pensare, per esempio, alle atrocità commesse poco tempo fa da alcuni addetti alla sorveglianza dei nostri parchi che dopo anni di precarietà hanno dato fuoco – usando anche animali vivi e provocando poi la morte di alcune innocenti persone – a boschi o pinete pur di riottenere il lavoro per la stagione o le stagioni successive. Persone e gesti da biasimare e condannare senza la minima remora. Ma se siamo davvero una società civile ci dobbiamo chiedere anche il perché. E allora aveva ragione Chaplin quando diceva che il nostro è un mondo crudele, dove bisogna diventare crudeli per sopravvivere o altrimenti si soccombe? …Terribile.
Un vero capolavoro immortale.
Da ricordare l’interpretazione di Matha Raye nel ruolo di una delle sue moglie ricche, e quella di Marilyn Nash in quello della giovane prostituta ..ops, scusate: sola nella notte.
Sergio Corbucci, certamente in maniera meno riconoscibile rispetto a molti suoi più celebri colleghi, è stato uno dei pilastri del grande cinema italiano, cinema che ha fatto scuola in tutto il mondo. Non deve essere dimenticato, infatti, che lui è l’autore di “Django” con l’allora esordiente Franco Nero, film che non a caso quel genio folle di Tarantino ha ripreso e rifatto solo qualche anno fa.
Ma torniamo all’ultima grande produzione italiana interpretata da Ugo Tognazzi. Siamo alla fine degli anni Ottanta, la grande commedia italiana è finita, al cinema vanno le comiche surreali con Pozzetto e Celentano, e in televisione si ride con “Drive In”. Ed è lo stesso piccolo schermo, che da anni mette in crisi il cinema, che inizia a produrre il grande schermo.
Ugo Tognazzi era già stato il protagonista di alcune importanti commedie nere, sia al cinema che in televisione (“Il Commissario Pepe” per il primo e “F.B.I. Francesco Bertolazzi Investigatore” per la seconda, solo per fare un paio di esempi), e così viene scelto per impersonare il commissario Ambrosio, nato dalla penna di Renato Olivieri, e protagonista di numerosi gialli in una nebbiosa e pericolosa Milano.
Sul tavolo di Ambrosio arriva un comune caso di incidente automobilistico mortale. Come vuole la prassi, il commissario interroga brevemente i due soli testimoni: l’anziana signora Rosa Cuomo (Pupella Maggio) e il maestro di violino Renzo Bandelli (Carlo Delle Piane). Proprio Bandelli sembra però molto nervoso e impacciato, cosa che stuzzica l’istinto investigativo di Ambrosio. Il morto è Vittorio Borghi, noto playboy e spacciatore di Milano, nonché fratello di Francesco Borghi, fra gli industriali più ricchi e potenti del Paese. Ad Ambrosio il compito di scoperchiare e risolvere un caso forse non troppo difficile, ma certamente emotivamente molto complesso…
Ispirato ai romanzi di Renato Olivieri – come “Il caso Kodra” – e con un cast straordinario che comprende anche Rossella Falk, Duilio Del Prete (che Tognazzi ritrova dopo il mitico “Amici Miei”), Athina Cenci, Carla Gravina, Claudio Amendola e Teo Teocoli “I giorni del commissario Ambrosio” è uno degli ultimi veri noir della vecchia scuola. Nonostante la pesante ingerenza del suo produttore (la tv) che esige più primi piani e panoramiche diverse rispetto al cinema, il film di Corbucci c’ha sempre il suo perché.
Siamo nel 1950, la Seconda Guerra Mondiale è appena finita e il mondo intero non ha fatto in tempo a curarsi le tragiche ferite morali e materiali che l’immane catastrofe ha comportato, che già l’incubo di una nuova minaccia si staglia minaccioso all’orizzonte: l’olocausto atomico.
In quel periodo gli Stati Uniti sono in piena caccia alle streghe, e dirsi palesemente “pacifista” era artisticamente e lavorativamente molto pericoloso. Così, solo usando il linguaggio della fantascienza dei B-movie, si potevano dire cose altrimenti tabù.
Con questo spirito Kurt Neumann scrive e dirige “RX-M Destinazione Luna” che è un inno alla pace e al disarmo nucleare. Non è un caso, quindi, che la partecipazione alla stesura della sceneggiatura del maestro Dalton Trumbo – la cui penna rende questo film di fantascienza una spanna sopra alla maggior parte di quelli realizzati in quel periodo – rimanga nascosta per anni, fino alla fine del cosiddetto maccartismo.
Ma torniamo al film. In una base governativa viene lanciato segretamente un razzo per colonizzare la Luna. L’equipaggio è formato da una donna, la dott.ssa Lisa Van Horn (Osa Massen) e quattro uomini: il dott. Karl Eckstrom (John Emery) capo della missione, il colonnello Floyd Graham (Lloyd Bridges), il maggiore William Corrigan (Noah Beery Jr.) e l‘astronomo Harry Chamberlain (Hugh O’Brian). La prima parte del viaggio si consuma senza problemi, ma poco prima di entrare nell’orbita lunare una tempesta di asteroidi dirotta violentemente il razzo che si dirige a tutta forza nello spazio profondo.
Quando l’equipaggio si riprende scopre che il veicolo sul quale viaggia è arrivato nei pressi del pianeta Marte. Sbarcato, il gruppo inizia a studiare il pianeta e scopre i resti di una passata e grandiosa civiltà che evidentemente è stata spazzata via da una enorme esplosione. I pochi superstiti rimasti sono tornati all’età della pietra e portano ancora i segni gravi delle radiazioni che hanno subito i loro antenati. L’equipaggio decide allora di tornare sulla Terra e avvertire l’umanità del pericolo molto simile che sta correndo con la scellerata corsa agli armamenti atomici, ma…
Pellicola davvero di rilievo, oltre che per il tema trattato anche per la sua realizzazione. Nonostante i pochi mezzi a disposizione, Neumann riesce magistralmente a ricreare l’atmosfera claustrofobica tipica di un piccolo ambiente in cui più persone devono convivere rischiando la vita. La scena della tempesta di asteroidi è davvero memorabile.
Jerry Seinfeld (classe 1954) è uno dei comici più famosi degli Stati Uniti, anche se nel nostro Paese – purtroppo – non ha la stessa popolarità.
La sua carriera decolla definitivamente nel 1981, quando partecipa al “Tonight Show with Johnny Carson”. Da quella serata si susseguono partecipazioni alle trasmissioni più importanti degli Stati Uniti fino al 1990, quando la NBC lo vuole al centro di una serie comica.
Insieme a Larry David (che Woody Allen vorrà come protagonista nel suo delizioso “Basta che funzioni”) crea la sit-com “Seinfeld” che ottiene un enorme successo tanto da battere tutti i record di ascolto e di compensi per i suoi autori. Nel 1999, nonostante la faraonica offerta della NBC per continuare la serie ancora di grande successo, Seinfled decide di chiuderla e di dedicarsi ad altre attività.
In questo speciale prodotto da Netflix, Jerry Seinfeld torna a esibirsi al Comic Strip Live (locale newyorkese leggendario, dove hanno mosso i loro primi passi comici come Robin Williams, Eddie Murphy o Ellen DeGeneres, e solamente per dirne alcuni) lo stesso nel quale una sera del 1976 iniziò ufficialmente la sua carriera di artista. A soli ventun anni Jerry venne selezionato e, senza compenso, si esibì su quel palco. Di giorno faceva il muratore, e la sera la passava a pensare e scrivere battute per poi recitarle fra quelle quattro mura.
Poco più di sessanta minuti di grande cabaret con battute fulminanti e strepitose per ripercorre gli inizi della sua fortunatissima carriera. Seinfeld, come sempre, non risparmia nessuno…
Tratto dal romanzo “Doppia morte al Governo Vecchio” di Ugo Moretti questo film, la cui sceneggiatura è scritta da Age, Furio Scarpelli e lo stesso Steno, è uno dei migliori esempi della commedia gialla all’italiana.
Siamo alla vigilia di uno degli eventi più drammatici della storia della Repubblica Italiana: il rapimento e l’uccisione del Presidente della DC Aldo Moro e il massacro delle sue guardie del corpo in via Cesare Fani a Roma. Nonostante l’evento sia ovviamente imprevedibile, nel film si respira un’aria di quiete prima della tempesta. La contestazione sta mutando forma e quella rivoluzione che doveva cambiare il mondo non arriva mai. I poliziotti, anche al cinema, cominciano ad avere un volto e un comportamento molto più umano e fallibile rispetto a solo poco tempo prima.
Infatti, il commissario Bruno Baldassare (un sempre bravo e fascinoso Marcello Mastroianni) è noto fra gli ambienti della Polizia romana per aver fatto sette anni prima la cosiddetta “stronzata”, che gli ha bruciato di fatto la carriera. Per fare il bello davanti al figlio di sei anni Baldassarre, erroneamente, ha aiutato un assassino a fuggire su una motocicletta rubata.
Da quel giorno è stato trasferito all’Archivio dei Corpi di Reato, che si trova in uno dei quartieri storici della capitale, ufficio alquanto “tranquillo” dove è assistito dall’agente Cantalamessa (un bravissimo Gianfranco Barra).
La triste routine di Baldassarre viene interrotta un giorno, durante un fragoroso temporale estivo, quando mangiando nella solita trattoria sente gridare dal portone del vicino Palazzo dell’Orso. Accorrendo, sulle scale dell’antico edifico, trova il corpo senza vita dell’anziano principe Prospero dell’Orso, apparentemente vittima di un fulmine caduto sul tetto e passato poi nell’antico corrimano delle scale in ferro battuto al quale era aggrappato il nobile.
Mentre Baldassarre cerca di chiamare i soccorsi le urla della giovane Teresa (Agostina Belli) lo raggiungo. Al piano superiore la ragazza ha appena trovato il corpo senza vita dello zio Romolo, un elettrotecnico che stava montando un’antenna sul tetto del palazzo e che rientrando per la pioggia si è evidentemente appoggiato anche lui al corrimano nel momento fatale.
Ma qualcosa non torna, il fulmine ha avuto una precisione a dir poco chirurgica e oltre alle due morti, non ha causato nessun danno materiale al palazzo. Baldassarre, spinto da Teresa, riesce a far aprire un’inchiesta e, soprattutto, a farsela assegnare. Gli inquilini dello stabile sono uno più sospetto dell’altro, come la giovane e bellissima principessa dell’Orso (Ursula Andress) e i pochi parenti del principe che erediteranno una vera e propria fortuna, o Henry Hellman (un sublime Peter Ustinov) sceneggiatore hollywoodiano in declino e amico intimo della principessa…
Tutti i personaggi del film cominciano a fare i conti con la fine di un periodo che aveva promesso tanto e che ormai, si capisce, non manterrà nulla. Conoscendo l’arte e il genio degli autori non ci si stupisce che siano inseriti nella pellicola anche degli accenni – apparentemente involontari – a eventi drammatici che segneranno il nostro Paese di lì a poco tempo. L’azione si svolge fra i vicoli del centro storico di Roma tanto simili a via Caetani, dove verrà ritrovato il corpo di Moro.
E poi il personaggio interpretato da Ustinov sta scrivendo la sceneggiatura del film “La croce e la svastica” dedicato agli oscuri rapporti fra il Vaticano e il Terzo Reich, film che viene bloccato proprio dalla Santa Sede attraverso pressioni a vari istituti di credito. Poco dopo l’uscita del film scoppiò il caso del Banco Ambrosiano e dei suoi presunti legami con lo IOR…
Da ricordare inoltre le interpretazioni, anche se in ruoli secondari, di Mario Scaccia nelle vesti del libraio vera “radioserva” del quartiere, e Giuseppe Anatrelli (già immortale per aver impersonato il Geom. Calboni nei primi “Fantozzi”) in quelli del capo di Baldassarre.