“David Brent: Life on the Road” di Ricky Gervais

(USA/UK, 2016)

Ricky Gervais è uno dei volti più famosi e divertenti della televisione britannica. Con un passato da dj negli anni Settanta e Ottanta, Gervais approda nei Novanta in varie serie televisive di successo, la più famosa della quale è “The Office” (2001-2003). La serie, davvero spassosa e innovativa, ha il formato di un falso documentario che racconta le vicende di David Brent (Ricky Gervais, appunto) responsabile di un piccolo ufficio in un anonimo sobborgo di Londra. Tutti i tentativi di Brent di accattivarsi le simpatie dei suoi colleghi – superiori o subalterni che siano – sono vani e strepitosamente imbarazzanti.

Il successo della serie varca i confini britannci e in molti paesi, come in Germania, Francia e USA viene realizzato un remake (quello a stelle e strisce ha come protagonista Steve Carrell). Nel nostro Paese no, visto che il Brent di Gervias è indiscutibilmente una versione british e aggiornata dell’intramontabile Fantozzi Rag. Ugo di Paolo Villaggio.

A distanza di quindici anni Gervais torna a vestire i panni di David Brent che, superati abbondatemete i cinquanta, decide di darsi alla musica pop. Prima come produttore di un rapper e poi come cantante di una rock band per la quale organizza, a sue spese, un improbabile tour nei dintorni di Londra…

Con battute e situazioni esilaranti, tipiche del miglior humor inglese, questo film prodotto da Netflix diverte fino ai titoli di coda. Scritto, diretto e interpretato da Ricky Gervais – autore anche delle canzoni – “David Brent: Life on the Road” ci fa ridere senza pietà, grazie anche allo splendido doppiaggio di Gervais ad opera del bravissimo Roberto Pedicini (che presta magnificamente la voce, tra gli altri, anche a Kevin Speacy).

“La città incantata” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2001)

Questo stupendo lungometraggio ha, fra gli altri, il merito di aver fatto conoscere al mondo interno il genio del maestro Hayao Miyazaki.

La vicenda della piccola Chihiro che, a causa della sventatezza dei suoi genitori, deve crescere in pochissimo tempo, è una delle storie di formazione più belle mai apparse sul grande schermo.

Il maestro Miyazaki – che firma anche la sceneggiatura ispirandosi al romanzo per ragazzi “Il meraviglioso paese oltre la nebbia” della scrittrice Sachiko Kashiwaba pubblicato la prima volte nel 1987 – ci porta nel suo regno fantastico (forse il più affascinante da lui creato) che ha le sue regole ferree alle quali nessuno, neanche la potente strega Yubaba, può alla fine sottrarsi. Soltanto il grande cuore di Chihiro e la sua umiltà – due qualità giustamente molto apprezzate nel Paese del Sol Levante – potranno sconfiggere i terribili sortilegi…

Senza doverci pensare troppo, trovo sempre un ottimo motivo per rivedere un film del genio giapponese, e “La città incantata” è uno dei miei preferiti. Ogni volta che lo rivedo i miei occhi e la mia anima godono letteralmente della sua bellezza. Come tutte le opere di Miyazaki, anche questa è poesia pura animata.

Vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino – prima volta nella storia degli anime – e dell’Oscar come Miglior Film Straniero.

Per la chicca: il lampione saltellante che accoglie Chihiro dopo essere scesa dal treno, e l’accompagna alla casa della strega Zeniba, è un dichiarato omaggio alla lampada da tavolo simbolo della Pixar, i cui film sono molti amati da Miyazaki. Un genio in tutti i sensi!

Da tenere, gelosamente, nella propria videoteca.

“Grosso guaio a Chinatown” di John Carpenter

(USA, 1986)

Gente, qui parliamo di un vero e proprio cult. Di una pellicola spettacolare che dopo oltre trent’anni è sempre gaiarda e tosta come il suo creatore, uno dei maestri planetari indiscussi del fantasy horror: John Carpenter.

La sceneggiatura è firmata da Gary Goldman (che scriverà poi “Atto di forza”), David Z. Weinstein e W.D. Ritcher (che qualche anno prima aveva realizzato la sceneggiatura di “Terrore dallo spazio profondo” di Philp Kaufman remake della storica pellicola di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi“, nonché candidato all’Oscar per lo script di “Brubaker” di Stuart Rosenberg) ma si sente nei dialoghi e nelle azioni chiaramente anche la mano dello stesso Carpenter.

L’autista di bus turistici Egg Shen (il noto caratterista Victor Wong, volto caro a Carpenter e comprimario in molti film superficialmente etichettati di serie B come, per esempio, “Tremors”) viene interrogato da quelli che sembrano essere due agenti dell’F.B.I.. Shen è riluttante, sfugge alle domande sulla vera natura di quello che nelle ore precedenti ha sconvolto Chinatown. Ma quando gli agenti nominano Jack Burton, Shen cambia espressione…

Il camionista Jack Burton (Kurt Russell) arriva al porto di San Francisco col suo Tir. Dopo aver passato la notte a giocare d’azzardo col suo amico Wang Chi (Dennis Dun) decide di accompagnarlo all’aeroporto. Wang, infatti, deve andare a prendere la sua fidanzata Miao Yin (Suzee Pai), una ragazza cinese con gli occhi verdi. All’uscita del Gate però un gruppo di malviventi rapisce Miao Yin sotto gli occhi di Jack e Wang, che tra l’altro vengono ostacolati da Gracie (Kim Cattrall), una caotica attivista dei diritti civili, anche lei venuta a prendere una ragazza proveniente dalla Cina.

Per liberare Miao Yin, Jack e gli altri saranno costretti a entrare nel cuore sotterraneo e oscuro di Chinatown, dove da secoli si consuma una feroce battaglia fra il bene e il male…

Filmaccio senza esclusione di colpi in cui, a differenza degli altri capolavori di Carpenter come “Essi vivono”, “La cosa”, “1997: fuga da New York” o “Distretto 13 – Le brigate della morte”, il protagonista è un volitivo goffo sbruffone che si prende troppo sul serio, e non il classico cinico e disilluso eroe carpenteriano.

In oltre trent’anni, sul grande schermo ne sono passati tanti di validi e spettacolari film fantasy e horror, ma quelli di Carpenter, come questo, non perdono un grammo del loro fascino.

“Le catene della colpa” di Jacques Tourneur

(USA, 1947)

Ci sono noir e noir, ma quelli fatti a Hollywood alla fine degli anni Quaranta – come questo – fanno spesso scuola. Lasciamo perdere il titolo in italiano che ricorda più i drammoni con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, e prendiamo quello originale che è “Out of the Past”, molto più efficace e indicativo.

Jeff Bailey (Robert Mitchum) gestisce un anonimo distributore di benzina a Bridgeport, una piccola località di provincia nel nord degli Stati Uniti. Mentre è a pescare sul fiume assieme ad Ann, una ragazza del luogo, il suo garzone lo avvisa che un losco individuo lo è venuto a cercare. Si tratta di Joe, uno degli uomini di Sterling (Kirk Douglas), fra i più scaltri e spietati allibratori della regione, che lo “invita” a un incontro col suo capo.

Sulla strada per la villa di Sterling, Jeff confessa ad Ann il suo burrascoso passato. Qualche anno prima, a New York, si guadagnava da vivere come detective privato e venne ingaggiato dallo stesso Sterling per ritrovare la sua ex Kathy (Jane Greer) che, dopo avergli sparato, gli rubò quarantamila dollari. Jeff accettò l’incarico e dopo qualche settimana rintracciò la ragazza ad Acapulco, ma invece di avvisare Sterling, se ne innamorò e fuggì con lei. Quando il suo ex datore di lavoro li rintracciò, la ragazza gli sparò nuovamente a sangue freddo per poi fuggire.

Ann accetta serenamente il passato di Jeff e lo saluta sulla porta della villa di Sterling. L’allibratore sembra sereno e cordiale, ma quando lo invita al tavolo per la colazione, Jeff ci trova seduta Kathy…

Bellissima pellicola incentrata su uno dei temi cardine dell’animo umano: il rapporto con il passato e il suo inesorabile ritorno. Con una Dark Lady da antologia – come tutto il resto – il film di Tourneur è una delle pietre miliari del noir americano, e non solo. Da ricordare il volto da duro buono di Mitchum e quello perfido e tagliente del grande Kirk Douglas.

La sceneggiatura, tratta dal romanzo di Daniel Mainwaring, è scritta dallo stesso Mainwaring assieme Frank Fenton e al maestro del noir James M. Cain, anche se questi ultimi non appaiono nei titoli. Ma la mano di Cain si vede tutta!

La scena finale, che riprende splendidamente una delle battute iniziali del film, è memorabile.

Nel 1984 Taylor Hackford gira il remake “Due vite in gioco” con Jeff Bridges come protagonista, la cui colonna sonora è firmata da Phil Collins che incide il singolo prendendo il titolo originale del film “Againts All Odds”.

“Il patto dei lupi” di Christophe Gans

(Francia, 2001)

Tra il 1764 e il 1767 un grande animale antropofago – la storia ufficiale parla di un grosso lupo – terrorizzò le contrade del Gévaudan (oggi Lozère) uccidendo centinaia di persone, fra cui giovani donne e bambini. Ispirandosi a questi tragici fatti e, soprattutto, al clima prerivoluzionario che vedeva una nobiltà opulenta e corrotta, Stéphane Cabel e lo stesso Christophe Gans scrivono “Il patto dei lupi”, un fantasy horror davvero ben riuscito.

A poche ore dall’alba in cui verrà portato sul patibolo e giustiziato sull’onda della Rivoluzione appena scoppiata, l’anziano Marchese d’Apcher (Jacques Perrin) scrive il suo resoconto sulla storia della Bestia del Gévaudan, che flagellò le sue terre molti anni prima e del cui epilogo lui fu fra i pochi testimoni oculari.

Nel 1764 il Re Luigi XV, preoccupato per le numerosi morti fra i contadini del Gévaudan, invia il suo esperto di animali e piante selvatiche, il cavaliere Grégoire De Fronsac (Samuel Le Bihan) accompagnato dal suo fido assistente l’irochese Mani (Mark Dacascos).

Il clima a Gévaudan è cupo e inospitale per i due forestieri, uniche eccezioni sono il giovane Marchese d’Apcher, che lo ospita e lo sostiene in tutte le sue ricerche, e la giovane nobildonna Marianne de Morangias (Émilie Dequenne), il cui fratello Jean-Francois (Vincent Cassel) invece è fra i più ostili e arroganti nobili della regione. Preso dalla sconforto, una sera De Fronsac si rifugia in un bordello dove incontra la bellissima fiorentina Sylvia (Monica Bellucci) anche lei stranamente interessata alla Bestia.

Le numerose battute di caccia non danno l’esito sperato: il mostruoso animale riesce sempre a sfuggire anticipando puntualmente ogni trappola, come se fosse guidato da un essere umano…

Con un finale ovviamente a sorpresa, questo horror gotico ci tiene seduti sulla poltrona per quasi due ore senza pause, e ci ricorda che la bestia più feroce …è sempre l’essere umano.

Adatto per passare una serata da brivido, con la luna piena che troneggia su boschi oscuri. …Occhio!

“Due per la strada” di Stanley Donen

(UK, 1969)

Stanley Donen è una delle colonne del cinema americano. Classe 1924, ha iniziato la sua carriera giovanissimo come ballerino, periodo in cui conosce Gene Kelly, e proprio come coreografo approda a Hollywood negli anni Quaranta. Il salto dietro la macchina da presa è rapido e nel 1952 dirige il suo film forse più famoso: “Cantando sotto la pioggia”, co-dirigendolo assieme all’amico Kelly. Due anni dopo realizza uno dei film più belli del mondo: “Sette spose per sette fratelli”, e non aggiungo altro!

Alla fine del decennio approda alla commedia sofisticata con “Indiscreto” e “L’erba del vicino è sempre più verde”. Con l’arrivo dei Sessanta, Donen non perde smalto e capacità dietro la MDP e gira con una delle sua attrici preferite – già diretta più volte – Audrey Hepburn questo struggente “Due per la strada”.

Su una lunga striscia d’asfalto ripercorriamo la storia d’amore fra Joanna (la Hepburn) e Mark (Albert Finney). Con una lunga serie di flashback concatenati uno all’altro scopriamo come, poco più che ventenni, i due si sono conosciuti facendo l’autostop, come si sono sposati, come poi sono diventati genitori e come, alla fine, sono entrati in crisi…

Bellissima e toccante storia sentimentale, che anticipa la rivoluzione sociale che vede – fortunatamente – cambiare il ruolo della donna nella coppia e nella famiglia, rivoluzione che ancora oggi – purtroppo… – non è compiuta del tutto.

La sceneggiatura del film è scritta da Frederic Raphael e viene giustamente candidata all’Oscar, mentre la splendida colonna sonora è firmata dal maestro Henry Mancini.

Oltre alla storia e al modo in cui viene racconta, questo film deve essere rivisto per apprezzare ancora una volta la bellezza, il fascino e la bravura della Hepburn, icona davvero senza tempo.

“Ristorante Nostalgia” di Anne Tyler

(Guanda, 2012)

Amo molto le opere di Anne Tyler, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1989 per “Lezioni di respiro”, e più volte finalista, come con questo “Ristorante Nostalgia” pubblicato per la prima volta nel 1982.

Fra la numerose doti narrative della Tyler c’è quella di saper entrare splendidamente nelle vite quotidiane dei suoi personaggi – come nel bellissimo “Le storie degli altri” (1998) – vite fatte di grigia e malinconica quotidianità, di paure e viltà, dove i grandi dolori e i grandi traumi troppo spesso non sono urlati, ma vissuti silenziosamente.

Perla Tull ha cresciuto da sola i suoi tre figli Cody, Ezra e Jenny. Quando ormai era considerata una zitella a titolo definitivo, Perla ha incontrato Beck, un promettente agente di commercio che in poco tempo l’ha portata all’altare. Se Beck, per lavoro, torna solitamente solo per il weekend, Perla non sembra avere problemi nel crescere i tre bambini senza un vero aiuto. Poi, improvvisamente, l’uomo sparisce e lei è costretta a fare davvero tutta da sola. A pagare le conseguenze più dure sono, ovviamente, i tre figli che rimangono segnati dalle debolezze della donna. Così i tre, col passare degli anni e dei decenni, costruiranno – volenti o nolenti – le proprie esistenze sul loro rapporto conflittuale con la madre…

Splendido affresco di una famiglia “normale” che attraversa i primi trequarti del Novecento. Con un pennello sottile, raffinato e spesso impietoso, Anne Tyler ci dipinge il ritratto di una famiglia che potrebbe essere la nostra, dove nessuno dei sui membri riesce mai a considerarsi “normale”.

Da leggere.

“Il castello nel cielo” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 1986)

Questo splendido lungometraggio animato è il primo prodotto dallo Studio Ghibli. I due maestri del cinema d’animazione giapponese Hayao Miyazaki e Isao Takahata fondarono quella che poi sarebbe diventata una delle case cinematografiche più rilevanti del mondo dei cartoni animati, proprio per realizzare questa storia ispirata a un breve racconto presente ne “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift. Miyazaki si occupa del soggetto, della sceneggiatura e della regia, mentre Takahata lo produce.

La piccola contadina orfana Sheeta è stata rapita da un gruppo di eleganti quanto volitivi sconosciuti, che le hanno confiscato la pietra azzurra che portava al collo. Pietra che appartiene alla sua famiglia da numerose generazioni. Siamo in quella che potrebbe essere l’Europa negli anni Venti del secolo scorso – periodo tanto amato da Miyazaki – dove però l’aeronautica ha avuto uno sviluppo incredibile. Per questo i rapitori di Sheeta viaggiano su un’enorme aeronave, che improvvisamente viene attaccata da un gruppo di pirati volanti comandanti da Dola, una “signora” decisa e senza scrupoli.

Nel tentativo di fuggire dai suoi rapitori e dai pirati, Sheeta cade nel vuoto. Quando tutto sembra perduto, la pietra azzurra che porta al collo – pietra che prima di fuggire la ragazzina è riuscita a recuperare – illuminandosi la fa lievitare nel vuoto, frenando la sua caduta e facendola atterrare nei pressi della miniera dove lavora il suo coetaneo Pazu. Ed è proprio la pietra azzurra al centro di una feroce caccia in cui sono stati coinvolti, loro malgrado, i due ragazzini…

Poesia animata allo stato puro grazie alla quale Miyazaki ci ricorda il potere terribile delle armi e la devastazione materiale e morale che lascia ogni tipo di guerra.

Da vedere e tenere nella propria videoteca.

“Hannah e le sue sorelle” di Woody Allen

(USA, 1986)

Da molti considerato un immaginario seguito di “Io e Annie”, questo “Hannah e la sue sorelle” è il successo più ampio di pubblico e critica degli anni Ottanta firmato da Woody Allen. Critica che osannò – forse giustamente – molto di più quel capolavoro che è “Zelig”, che invece il pubblico accolse con molta – inspiegabile oggi – freddezza rispetto a questo.

Oltre ad alcuni elementi palesi di “Io e Annie”, in questo film Allen ci mette molto del suo amore per Ingmar Bergman. Le protagoniste del film sono tre sorelle, così come nel suo bergmaniano puro “Interiors” del 1978, c’è la ricerca drammatica del senso della vita e, infine, l’attore simbolo del cinema bergmaniano Max Von Sydow. Il tutto miscelato ovviamente con la geniale ironia del cineasta newyorkese.

Hannah (Mia Farrow), Holly (Dianne West) e Lee (Barbara Hershey) sono tre sorelle che vivono a New York. Le loro esistenze si intrecciano fra amore, sostegno, competizione e invidia. Hannah è un attrice di prosa di successo, felicemente sposata con Eliot (Michael Caine), un consulente economico anche lui di notevole successo. Quando questo si accorge di essere attratto da Lee, che convive con Frederick (Von Sydow) un noto pittore molto più grande di lei, rimane sorpreso dall’essere ricambiato. Holly cerca di seguire le impronte di Hannah in teatro, ma senza riuscirci. Mickey (lo stesso Allen), primo marito di Hannah, è un autore televisivo di successo che entra in crisi quando crede di avere un tumore. Le cose cambieranno per tutti grazie alla fortuna – tema tanto caro ad Allen – all’amore e alla fiducia in se stessi.

Superbo film corale che funziona come un orologio svizzero, con qualche battuta davvero stellare.

Premio Oscar – strameritato – per la Migliore Sceneggiatura Originale, e a Michael Caine e Diane West come Migliori Attori non Protagonisti. In un piccolo ruolo appare anche un giovane John Turturro, che quasi trent’anni dopo dirigerà lo stesso Allen in “Gigolò per caso”.

“Pom Poko” di Isao Takahata

(Giappone, 1994)

Il Tanuki è un animale leggendario nell’antica cultura giapponese, protagonista di molti racconti e fiabe, che si ispira al vero cane procione tipico proprio dell’Estremo Oriente.

Partendo di un’idea del maestro Hayao Miyazaki, il suo stretto collaboratore – nonché autore di vari capolavori firmati dallo Studio Ghibli come “La storia della principessa splendete”, “I miei vicini Yamada” o “La tomba per le lucciole” – Isao Takahata gira “Pom Poko”, un bel film d’animazione divertente e malinconico allo stesso tempo.

L’idea di Miyazaki prende spunto, a sua volta, da un racconto del poeta, scrittore per ragazzi e agronomo giapponese Kenji Miyazawa (1896-1933), fra le figure più influenti della cultura nipponica del primo Novecento.

Alla fine degli anni Sessanta la collina Tama, situata alla periferia di Tokyo, viene fatta oggetto del progetto di sviluppo urbanistico “New Town” che, per rispondere alla grande richiesta abitativa della capitale giapponese, prevede la costruzione di un enorme quartiere dormitorio. Ciò, purtroppo, a scapito della Natura e di tutti gli animali che da secoli la abitano, come i Tanuki. Ma questi particolari animali, maestri nella secolare arte del mutaforma e del travestimento, non ci stanno e ingaggiano una dura battaglia senza esclusione di colpi contro gli esseri umani…

Splendida metafora della corruzione dell’antica cultura contadina da parte di quella industriale arrogante, superficiale e materiale. Paragonabile, sotto molti punti di vista, al nostro immortale “Il sorpasso” di Dino Risi, “Pom Poko” è un film che a differenza di molti altri prodotti dallo Studio Ghibli, è realizzato quasi esclusivamente per il pubblico giapponese, e per questo è anche un prezioso documento sulla cultura e la vita sociale nipponica.

Come tutti le altre opere firmate Studio Ghibli, da tenere nella propria videoteca.