“Un’avventura in Siberia” di Emilio Salgari

(Voland, 2014)

Troppo spesso il grande Emilio Salgari è dimenticato. Lui che è stato autore di circa ottanta romanzi e centocinquanta racconti, già nell’ultimo periodo della sua vita venne stroncato dalla critica “da salotto”, tanto da morire in miseria, facendo arricchire invece oltremodo i suoi editori. Ma, alla faccia della critica “da salotto”, le opere di Salgari vengono regolarmente ristampate e pubblicate da oltre un secolo.

Come questa raccolta di racconti e articoli “Un’avventura in Siberia” dedicata al freddo polare della regione fra le più inospitali del pianeta. Grazie ai racconti di cacciatori leggendari viviamo straordinarie avventure. Assistiamo alla caccia spietata e fin troppo facile dei trichechi, o quella più “alla pari” degli orsi polari, nelle cui descrizioni Salgari non nasconde la disparità fra gli animali, che difendono solo la loro esistenza, e l’uomo, impietoso e sanguinario assassino per il solo scopo di lucro.

L’estate si avvicina e se avete voglia di sentire un brivido di freddo vivendo un’avventura al limite della sopravvivenza, raccontata da uno dei più grandi narratori che il nostro Paese abbia mai avuto, questo è il libro per voi.

“La teoria del tutto” di James Marsh

(UK, 2014)

Il mondo conosce bene il genio scientifico del fisico Stephen Hawking e il suo senso umoristico (i suoi camei nelle serie “I Simpson” o in “The Big Bang Theory” e nell’ultimo spettacolo dei Monty Phyton sono solo gli ultimi esempi), così come conosce la sua atroce malattia neurodegenerativa che lo costringe su una sedia a rotelle da decenni.

Ma solo grazie alla sua biografia, scritta dalla sua ex moglie – ma ancora stretta collaboratrice – Jane Wilde Hawking “Verso l’infinito”, conosciamo il modo in cui ha affrontato e affronta la sua patologia che lentamente e inesorabilmente gli ha tolto l’uso del corpo.

Cambridge, 1963. Il giovane dottorando in Fisica Stephen Hawking (un eccezionale Eddie Redmayne che giustamente vince l’Oscar come miglior attore) sta scegliendo il tema della sua ricerca. Quello che lo affascina di più è la ricerca di un’unica equazione che spieghi la nascita dell’Universo. A una festa Stephen incontra Jane (Felicity Jones), giovane studentessa di Lettere, che rimane affascinata dalla sua mente geniale e dalla sua ironia sconfinata.

Ma poco tempo dopo l’inizio della loro relazione, Stephen scopre di essere affetto dall’Atrofia muscolare progressiva che gli concederà al massimo due anni di vita, vita fatta di continue e inesorabili perdite funzionali. Se lui vuole chiudere il rapporto Jane, invece, non teme la malattia e il suo decorso. I due si sposano e poco dopo mettono al mondo Robert, il loro primo genito. Ma la malattia prosegue il suo corso terrificante e le difficoltà per Jane sono sempre più grandi, visto anche l’arrivo di altri due figli…

James Marsh (premio Oscar per il miglior documentario nel 2009 per “Man on Wire – Un uomo tra le Torri”) dirige un bellissimo film d’amore, raccontandoci con delicatezza e sensibilità l’amore profondo fra i due protagonisti, l’amore di Hawking per le sue ricerche, ma soprattutto l’amore dello scienziato per la vita, nonostante una malattia terribile e umiliante. L’uomo che per oltre trent’anni ha insegnato nella stessa cattedra in cui insegnò Isaac Newton ci dice soprattutto questo: la legge universale più importante di tutte è amare la vita.

Da vedere.

“Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali” di Tim Burton

(USA, 2016)

Del libro “La casa per bambini speciali di Miss Peregrine” di Ransom Riggs ne ho parlato lo scorso settembre, proprio in occasione dell’arrivo nelle sale del film di Tim Burton. Come capita spesso in adattamenti cinematografici di libri, nella sceneggiatura firmata da Jane Goldman sono stati modificati o sintetizzati alcuni elementi, accorpando anche il primo volume della serie al secondo. Il prodotto finale, realizzato dal regista fra i più visionari della nostra epoca, è comunque assai godibile.

Ma se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, così come nella serie di Harry Potter Daniel Radcliffe ci stava come “il cavolo a merenda”, in questo “Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali” l’inespressivo Asa Butterfiled, che veste i panni del protagonista Jake, non c’entra una famosissima mazza.

Jacob ‘Jake’ Portman è un adolescente infelice e solitario. L’unico punto di riferimento affettivo ed emotivo è suo nonno Abe (un grande Terence Stamp), reduce della Seconda Guerra Mondiale, che ha cresciuto il nipote con storie fantastiche e a volte inquietanti.

Una sera Jake trova il nonno agonizzante nei pressi del giardino della sua abitazione, e prima di spirare l’uomo chiede al nipote di avvertire Miss Peregrine e i suoi ragazzi speciali dell’arrivo del perfido Signor Baron (un cattivissimo Samuel L. Jackson).

Secondo i racconti del nonno, infatti, Miss Peregrine (una tenebrosa Eva Green) è la direttrice di una casa per ragazzi “speciali” su una piccola isola del Galles. Casa in cui lo stesso Abe fu ospitato durante i primi anni del secondo conflitto mondiale. La storia non sembra avere senso, a supportarla ci sono solo delle vecchie fotografie in bianco e nero che potrebbero essere state tranquillamente ritoccate. Ma Jake intende scoprire la verità e convince il padre a portarlo in Galles…

Per la chicca: Burton appare per pochi istanti come il poveretto colpito mentre è sull’ottovolante nella scena sul Pier di Blackpool.

“Kubo e la spada magica” di Trevis Knight

(USA, 2016)

Scritto da Chris Butler, Shannon Tindle e Marc Haimes (autore anche del soggetto) questo “Kubo e la spada magica” è uno dei film d’animazione in stop-motion più belli degli ultimi anni.

Nel Giappone antico, la giovane Sariatu fugge su una piccola barca nonostante onde alte come montagne cerchino di fermarla. Quando sembra finalmente arrivare nei pressi di una spiaggia, un maroso spazza via la barca e la donna sbatte violentemente contro uno scoglio. Ripresasi, nonostante la profonda ferita che le lacera il volto, si ritrova su una piccola spiaggia con accanto il fagotto che teneva stretto. Dentro, incolume, c’è un bambino con una benda sull’occhio destro.

Passano gli anni e il piccolo ormai è un giovane adolescente che si guadagna da vivere, per se stesso e per la madre che ogni giorno è sempre più debole, raccontando agli abitanti del villaggio limitrofo al rifugo in cui vive storie leggendarie, aiutandosi con gli origami che grazie al suo shamisen prendono vita. Sariatu, che è sempre più preda di amnesie, gli impedisce di rimanere fuori la notte. E proprio quando il sole tramonta che suo nonno, secondo la madre, può trovarlo e rubargli anche l’altro occhio. Kubo è ovviamente scettico, ma quando una sera tarda a rientrare dovrà ricredersi…

Splendida favola che unisce le tradizioni più antiche a quelle più moderne. Con immagini davvero emozionanti, così come gli snodi che prende la trama. Si tratta dell’opera prima di Trevis Knight che in precedenza ha prodotto i film sempre in slow-motion “ParaNorman” e ”Boxtrolls – Le scatole magiche”. Da ricordare anche i bellissimi titoli di coda che scorrono sulla cover di “While my guitar gently wheeps” eseguita da Regina Spektor.

E’ stato candidato all’Oscar sia come miglior film d’animazione, che per i migliori effetti visivi. Come sempre, o quasi, il titolo originale “Kubo and the Two Strings” ha ben altro significato e attinenza col film rispetto a quello con cui è stato distribuito da noi (sob!).

“Contratto per uccidere” di Don Siegel

(USA, 1964)

Qui, gente, parliamo di uno dei capolavori della cinematografia mondiale, uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema e che sono stati copiati – e ancora oggi lo sono – per la loro bellezza, il loro ritmo e il loro fascino.

Dallo stesso racconto “The Killers” di Ernest Hemingway, nel 1946 Robert Siodmak dirige “I gangsters” con Burt Lancaster e Ava Gardner. Bel film, ma niente a che vedere con questo capolavoro che il maestro Don Siegel gira quasi vent’anni dopo.

Siegel (che per la cronaca si è laureato a Cambridge), preso in considerazione proprio per girare “I gangsters”, sconvolge il racconto di Hemingway che trova folgorante all’inizio ma, giustamente, deludente alla fine. E così riduce i flashback e costruisce una storia intorno a un uomo che davanti ai suoi assassini non ha la minima voglia di scappare.

Charlie (uno straordinario Lee Marvin da Oscar, ma che vince “solo” il BAFTA) e il suo giovane socio Lee (Clu Gulager) fanno irruzione in un istituto per non vedenti. Il loro obiettivo è l’insegnante di meccanica Johnny North (un bravissimo e irrequieto John Cassavetes) che freddano nell’aula in cui sta insegnando, senza nessuna difficoltà. Anzi, l’uomo avvertito del loro arrivo, non fugge e aspetta la morte senza ribellarsi. La cosa insospettisce troppo Charlie che decide di scoprire la storia di North e soprattutto chi li ha pagati per ucciderlo…

Nel cast deve essere ricordata anche la bravissima e bellissima Angie Dickinson, fra le dive più eleganti e attraenti di Hollywood, nello splendido ruolo di Sheila, una Dark Lady come poche altre. Mentre nella parte dell’astuto e feroce Jack Browning c’è Ronald Reagan alla sua ultima interpretazione di rilievo prima di intraprendere, pochi mesi dopo, la carriera politica che lo portò a essere prima Governatore della California e poi Presidente degli Stati Uniti. Se questo non è l’ambito per parlare delle sue capacità di statista (delle quali ancora oggi comunque paghiamo le drammatiche conseguenze) la recitazione statica, inespressiva e obsoleta di Reagan – che già mostra quella tinta mogano scuro che poi ostenterà in tutte le foto dalla Stanza Ovale nel corso dei suoi due mandati – è davvero l’unico neo del capolavoro di Siegel.

Questo “Contratto per uccidere“ doveva essere il primo vero e proprio film realizzato interamente per la televisione, ma una volta montato venne considerato troppo “audace” e violento e così distribuito nelle sale con tanto di censura.

Ogni fotogramma merita di essere ricordato, ma la scena finale è una delle più strepitose e suggestive di tutto il cinema.

Quanto è stato copiato? Vincent e Jules, i personaggi che interpretano John Travolta e Samuel L. Jackson in “Pulp Fiction”, tanto per fare un esempio, Quentin Tarantino secondo voi da chi li ha “presi”?

Un capolavoro assoluto.

“E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo

(Bompiani, 2016)

Cominciamo dalla fine: dopo aver letto l’ultima pagina di questo straodinario romanzo, ho avuto difficoltà nell’iniziarne un altro. Perché questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1938, colpisce dritto al mento, facendo cedere la mascella e diventare le gambe molli.

Si tratta di uno dei più grandi romanzi contro la guerra mai scritti, e incredibilmente è anche l’unico firmato da Dalton Trumbo, che ha dedicato il resto della sua splendida penna al cinema. E il film che poi egli stesso ha girato (prima sognando di farlo dirigere a Luis Buñuel), l’unico che abbia mai diretto, era uno dei film preferiti dal grande Truffaut.

Il vent’enne Joe Bonham ripensa alla sua breve vita. Ricorda la sua infanzia, la sua famiglia e la sua adolescenza non ancora finita. E poi si ricorda: si ricorda che il suo Paese è entrato in guerra e lui è stato reclutato. Dopo un breve addestramento è stato portato insieme ai suoi commilitoni in Europa dove “si combatte per la democrazia”.

E lì, nel 1918 quando il conflitto sembrava al termine, è stato ferito. Una granata lo ha preso in pieno. E allora Johnny si chiede se è ancora vivo, perché nessuno è mai sopravvissuto… nel limbo senza fondo in cui si è ritrovato capisce l’atroce verità: l’esplosione gli ha portato via gli occhi, il naso, le orecchie, la bocca, le gambe e le braccia. E capisce anche di essere il frutto di un accanimento terapeutico che lo rende “un pezzo di carne in vita”. Potendo solo muovere la testa, Johnny passa il tempo a cercare di capire chi lo sta facendo sopravvivere e perché…

Ispirato alle esperienze di inviato di guerra della stesso Trumbo, ma soprattutto dal suo profondo antimilitarismo, “E Johnny prese il fucile” è uno dei romanzi simbolo del Novecento breve e sanguinario (e non è che il 2000 sia iniziato meglio…) e venne pubblicato per la prima volta poche ore dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Le prefazione che l’autore scrisse nella riedizione del romanzo dei primi anni Settanta ci aggiorna tragicamente sui numeri relativi ai giovani deceduti o gravemente menomati sia nel secondo conflitto mondiale che in quello, allora contemporaneo, del Vietnam.

Oltre che nelle scuole, questo libro dovrebbe essere letto da chi pensa che la forza sia sempre la soluzione migliore.

Per la chicca: per realizzare il loro inquietante video “One”, i Metallica hanno usato vari spezzoni originali del film tratto da questo libro.

“Father and Daughter” di Michaël Dudok de Wit

(Olanda/Belgio /UK, 2000)

Michaël Dudok de Wit, regista dello splendido “La Tartaruga Rossa” prodotto dallo Studio Ghibli, nel 2000 realizza questo bellissimo cortometraggio che si aggiudica l’Oscar nel 2001, oltre a decine di altri premi prestigiosi in tutto il mondo.

Tra i numerosi modi di descrivere un rapporto irrisolto fra padre e figlia, quello scelto dal regista olandese è sicuramente uno dei più belli e suggestivi.

Un padre e la sua piccola figlia pedalano in bicicletta in una luminosa campagna, che ricorda molto quella olandese. Ad un certo punto il padre si accosta e scende sulla riva di quello che sembra un immenso mare. La bambina lo segue, ma il padre la ferma e la saluta affettuosamente, per poi salire su una piccola barca e in solitudine prendere il largo. La piccola rimane ad osservare l’orizzonte per tutto il giorno, fino a quando non è costretta a risalire in bicicletta e tornare a casa. Tutti i giorni successivi, in tutte le stagioni, crescendo e diventando ragazza, donna, madre e poi anche nonna, torna nel posto da cui il padre è salpato sperando di incontrarlo, fino a quando…

Poco più di otto minuti di vera e propria poesia animata, struggente e delicata. Per tutti i papà e le loro piccole principesse. Ovviamente, è impossibile trovarlo sul mercato, ma per fortuna c’è Youtube!

Nel 2015 lo stesso Dudoc de Wit pubblica il romanzo grafico.

“Il calamaro e la balena” di Noah Baumbach

(USA, 2005)

Scritto e diretto da Noah Baumbach – stretto collaboratore di Wes Anderson che produce questo film – “Il calamaro e la balena” ci racconta in maniera cruda e sincera il naufragio di una famiglia newyorchese, appartenente alla middle class degli anni Ottanta, attraverso gli occhi tormentati e fragili dei due figli minorenni, Walt (Jesse Eisenberg) e Frank (Owen Kline).

Joan (Laura Linney) dopo diciassette anni di matrimonio decide di lasciare Bernard (un bravissimo e insolito Jeff Daniels) docente di letteratura, che molti anni prima era considerato un promettente scrittore, ma che ormai sembra vivere solo di ricordi.

La frattura è molto dolorosa, sia per il loro figlio primogenito e sedicenne Walt, che per il più piccolo Frank. I due ex coniugi scelgono l’affidamento congiunto e così si dividono equamente i figli, insieme al gatto. La situazione è già molto dolorosa e precaria per i giovani, ma le cose peggiorano quando Joan, oltre ad iniziare una relazione con Ivan (William Baldwin) il maestro di tennis di Frank, esordisce brillantemente come scrittrice…

Davvero un bel film di dolorosa formazione, con un cast in ottima forma in cui spicca Jeff Daniels. La pellicola viene candidata all’Oscar per la Miglior Sceneggiatura.

“The Artist” di Michel Hazanavicius

(Francia, 2011)

Non è passato neanche un secolo dall’avvento del sonoro, ma ormai per molti il cinema sembra essere esistito solo così. E invece no, chi ama o studia la storia del cinema – e il cinema stesso – non può non conoscere gli albori e i primi decenni dell’arte magica, che è nata e si è sviluppata nel mondo senza il sonoro.

E non per questo non ha saputo regalarci capolavori immortali, sia da piangere che da ridere. Il primo nome è ovviamente quello di Charlie Chaplin, genio universale che ha sempre palesato il suo scetticismo verso il sonoro, o anche quello di Fritz Lang che invece lo seppe conciliare con le sue grandi doti artistiche. Ma il cinema muto non è stato fatto solo da Chaplin o da Lang. C’è stato tanto altro che ancora, magari ignorandolo, indirettamente ritroviamo comunque nei film contemporanei.

Con questo spirito lo sceneggiatore, produttore e regista francese Michel Hazanavicius scrive e dirige “The Artist”, ispirato alla vita di John Gilbert, star indiscussa del muto e partner sul grande schermo – e per un breve periodo anche nella vita – della divina Greta Garbo, e che fu travolto e subito dimenticato con l’avvento del sonoro, tanto da morire solo, povero e alcolizzato a trentotto anni.

Los Angeles, 1927. George Valentin (che ha il volto e il sorriso fascinoso di Jean Dujardin), e il riferimento a Rodolfo Valentino non è casuale, è una delle star di Hollywood. Il suo nome, nei titoli di testa, garantisce a ogni film incassi milionari.

Quando Al Zimmer (John Goodman) il presidente della sua grande casa di produzione cinematografica, gli mostra i primi cortometraggi sonori, Valentin ride divertito. Durante la prima del suo ultimo film, l’attore urta casualmente con una giovane ragazza del pubblico, Peppy Miller (Bérénice Bejo), e il piccolo incidente finisce sulla prima pagina di Variety.

Se il grande attore lo dimentica subito Peppy, invece, ne rimane letteralmente incantata. La ragazza ammira profondamente l’attore visto che il suo sogno è fare cinema, anche se è solo una semplice comparsa. Ma la sorte è benevola e la Miller lentamente diventa una comparsa sempre più prestigiosa, tanto da arrivare a dover girare una breve scena di ballo assieme proprio al suo idolo Valentin.

Intanto, il sonoro arriva nelle sale e, come previsto da alcuni addetti ai lavori, sconvolge per sempre il mondo del cinema. Le grandi star, come Valentin, si rifiutano di “parlare” e così i produttori non si fanno scrupoli nel licenziarli. La Mecca del Cinema ha bisogno di nuovi volti che sappiano soprattutto parlare e Peppy Miller è uno di questi. Così, mentre la stella di Valentin inesorabilmente tramonta, nel cielo inizia a brillare quella di Peppy…

Splendido e geniale omaggio al cinema muto fatto realizzando un film muto, e in bianco e nero, che ci ricorda da dove tutto è cominciato. Numerosi e divertenti i camei di noti attori come: James Cromwell, Malcom McDowell, Penelope Ann Miller, Joel Murray, Ed Lauter, Missie Pyle e Basil Hoffman.

Il film vince, giustamente, 6 premi César, 3 Golden Globe, e ottiene 10 candidature e 5 Oscar: miglior film, miglior regia a Hazanavicius, miglior attore protagonista a Dujardin, migliori costumi e miglior colonna sonora, grazie anche all’utilizzo del tema scritto dal maestro Bernard Herrmann per il film “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock, maestro che all’epoca del muto – guarda un pò… – era già famoso.