“Hello, My Name is Doris” di Michael Showalter

(USA, 2015)

Scritto da Michael Showalter insieme a Laura Terruso, questo piccolo film indipendente parla con tenerezza e rispetto di un tema molto complesso e profondo come la solitudine di una donna che ha dedicato la sua esistenza alla madre, e all’improvviso si ritrova “piena di rughe” e senza una vita privata.

Doris (una bravissima Sally Field) accompagna la salma dell’anziana madre al funerale. Appena rientrata, suo fratello Tod (Stephen Root) – che grazie a lei ha potuto laurearsi e crearsi una famiglia – le comunica che intende vendere la grande casa della madre, e per questo lei deve gettare tutte le cose che da anni raccoglie e conserva in maniera compulsiva. Ma Doris graniticamente si rifiuta.

Il giorno dopo, mentre si reca sul posto di lavoro, incontra un giovane fascinoso che le regala un bel sorriso. Doris, turbata, si siede alla solita scrivania e inizia a lavorare fino a quando non rimane basita scoprendo che il ragazzo è John (Max Greenfield, divenuto famoso per la serie “New Girl”) il nuovo collaboratore del suo capo. Doris entra in uno stato di innamoramento onirico e surreale e si fa aiutare e consigliare dalla nipote tredicenne di Roz (Tyna Daly, stella della tv anni Ottanta), sua vicina di casa e unica amica. Ma i sogni, purtroppo, spesso sono condannati a frangersi contro la realtà, che Doris, volente o nolente, dovrà avere la forza di affrontare…

La due volte premio Oscar Sally Field, da attrice di razza, non ha paura di invecchiare davanti alla macchina da presa, e di indossare abiti alla moda oltre trent’anni fa, lei che è stata negli anni Sessanta una delle fidanzatine d’America, per diventare un sex-symbol negli anni Settanta e uno dei volti più rappresentativi dell’emancipazione femminile cinematografica negli anni successivi.

E così ci regala una grande e delicata interpretazione di una donna sola e nevrotica, che al tempo stesso riesce a mantenere un sorriso bello e speranzoso.

“La Tartaruga Rossa” di Michaël Dudok de Wit

(Francia/Belgio/Giappone, 2016)

L’olandese Michaël Dudok de Wit (che nel 2001 ha vinto l’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione con il bellissimo “Father and Doughter”) nel corso dei decenni, ha collaborato alla realizzazione di alcuni famosi film d’animazione prodotti dalla Disney.

Dopo aver scritto il soggetto de “La Tartaruga Rossa”, ne scrive la sceneggiatura insieme a Pascale Ferran, e riesce a creare una coproduzione internazionale che si appoggia direttamente allo Studio Ghibli. Come produttore e direttore artistico c’è Isao Takahata, antico collaboratore del maestro Hayao Miyazaki, e autore, fra gli altri, de “La storia della Principessa Splendente” del 2013.

Un uomo sopravvive al naufragio della sua barca e si ritrova sulla spiaggia di una piccola isola sperduta nell’immenso oceano. Inizia l’esplorazione del suo nuovo mondo fatto principalmente di una foresta di bambù, una pozza di acqua potabile e alti scogli pericolosi. C’è tutto quello che può farlo sopravvivere senza troppa fatica.

Ma, dopo qualche tempo, la solitudine lo porta a costruire una barca di fortuna per tornare a casa. Il mare è liscio come l’olio e il viaggio sembra iniziare sotto i migliori auspici, ma qualcosa colpisce ripetutamente la zattera fino a distruggerla. L’uomo, che non ha capito cosa è successo, è costretto a tornare a riva. Al terzo tentativo e al terzo naufrago finalmente vede cosa, o meglio chi, gli distrugge tutte le volte la zattera: un’enorme tartaruga rossa che gli si avvicina fissandolo, per poi allontanarsi negli abissi.

L’uomo, disperato e sconfitto, torna sull’isolotto. E proprio quando crede di non avere più speranze, scorge il grande rettile uscire dall’acqua e arrancare sulla sabbia. Fulmineo lo raggiunge e lo capovolge. L’inaspettato trionfo lo incoraggia a costruire una nuova e più grande zattera, proprio accanto alla sua nemica sconfitta. Dopo ore passate sotto il sole cocente, l’uomo si rende conto che la tartaruga non si muove più, e invaso dal senso di colpa la idrata. Ma l’animale non sembra riprendersi, e così l’uomo le costruisce sopra un tetto, fatto di rami, per proteggerla dal sole. Quando tutto sembra inutile, la tartaruga si trasforma in una bellissima ragazza dalla folta e lunga chioma rossa…

Poesia cinematografica pura. Una splendida riflessione sul significato della vita e sull’amore, fatta di immagini e suoni, senza una parola di dialogo. Imperdibile.

Candidato all’Oscar come miglior film d’animazione.

“Animali fantastici e dove trovarli” di David Yates

(UK/USA 2016)

Il genio della Rowling non ha limiti. Già famosa a livello planetario, scrisse un piccolo libro ambientato nel mondo di Harry Potter – ma ambientato qualche decennio prima della nascita di colui che sconfiggerà Lord Voldermort… – i cui profitti andarono tutti in beneficenza. Ma una grande scrittrice, è sempre e comunque, una grande scrittrice. E così da quel piccolo libro nasce questo film che ha già incassato nel mondo oltre 700 milioni di dollari, tanto che sono già in lavorazione quattro sequel.

Il giovane mago inglese Newt Scamander (Eddie Redmayne) sbarca a New York con una strana e agitata valigia fra le mani. Siamo nel 1926 e l’ombra del tracollo finanziario che a breve travolgerà gli Stati Uniti comincia ad affacciarsi all’orizzonte. In gravi momenti di crisi si riaccendono paure e antiche superstizioni – che noi purtroppo al momento conosciamo bene… – e così fra i predicatori di strada, quella che sembra aver più seguito è la direttrice di un orfanotrofio Mary Lou Barebone (Samantha Morton), leader del movimento integralista Secondi Salemiani, il cui intento è dare la caccia spietata a maghi e streghe.

Scamander incappa proprio in un comizio della Barebone e nei pochi secondi in cui è tristemente distratto dalla oratrice, dalla sua valigia evadono strane creature. Per riprenderle il mago dovrà chiedere aiuto, suo malgrado, al No-Mag – che in Gran Bretagna chiamano Babbani – aspirante pasticcere Kowalski (Dan Fogler), all’ex-Auros Tina Goldstein (Katherine Waterston) e a sua sorella Queenie (Alison Sudol).

Le difficoltà aumenteranno, e pure in maniera molto pericolosa, visto che sulla città incombe un Obscurus, un essere malvagio e spietato che nasce della violenta repressione dei poteri magici di maghi e streghe in tenera età, a cui l’Auror Percival Graves (Colin Farrell) dà strenuamente la caccia.

Fantastico viaggio, con effetti speciali da urlo, nel mondo incantato della Rowling che sa raccontare molto bene, e come pochi, l’antica quanto il mondo lotta fra il bene e il male.

Da ricordare i “perfidi” e “arroganti” camei di Jon Voight, Ron Pearlman e Johnny Depp. Vincitore dell’Oscar per i migliori costumi, con una candidatura per le migliori scenografie.

“Mica scema la ragazza!” di François Truffaut

(Francia, 1972)

François Truffaut non si discute: si ama.

Così come tutti i suoi film. E questo “Mica scema la ragazza!”, che apparentemente sembra uno dei meno caratteristici della sua cinematografia, deve essere amato come tutti gli altri. Perché se è vero che Truffaut era l’uomo che amava le donne, è vero altrettanto che era anche l’uomo che capiva davvero le donne.

E così ci racconta una storia al femminile, al cui centro c’è la bella e carnale Camille (che ha il volto e il corpo voluttuoso di Bernadette Lafont, fra le attrici simbolo della Nouvelle Vogue, e che nel 2013 venne premiata per la sua interpretazione nella commedia graffiante “Paulette”).

Del trattato “Criminalità al femminile” opera prima del professore Stanislao Prévine (un giovanissimo e impacciatissimo André Dussollier) si sono perse le tracce. Eppure il manoscritto era quasi pronto per andare in stampa, ma…

Con un flashback torniamo indietro di un anno quando Prévine, per il suo libro, si reca per la prima volta nel carcere femminile per intervistare alcune detenute. Fra i vari casi da esaminare, tra cui donne molto violente, Prévine sceglie quello di Camille Bliss, accusata di aver ucciso il suo amante (Charles Denner).

Con scetticismo, visto che la Bliss è considerata una semplice e banale “sgualdrina”, la Direzione dell’Istituto acconsente. Il giovane professore incontra così Camille che gli inizia a raccontare, con un bel linguaggio franco e colorito, la sua vita. Figlia unica di contadini, è cresciuta con un padre violento che non perdeva occasione per picchiarla. Tanto che a neanche dieci anni, stufa dei violenti calcioni, la piccola sposta la scala al padre, salito sul sottotetto della stalla, facendolo precipitare mortalmente nel vuoto.

Camille finisce dritta al riformatorio dal quale dopo qualche anno riesce a fuggire, e sposa il primo uomo che la carica in macchina. Per il resto della sua esistenza dovrà fare i conti, nel bene e nel male, con quello che gli uomini vogliono da lei e soprattutto dal suo corpo, Prévine compreso…

Scritto da Truffaut assieme a Jean-Loup Dabadie, e tratto dal romanzo dell’americano Henry Farrell “Such a Georgeous Kid Like Me” del 1967, il film ci descrive bene, nonostante il tono allegro e scanzonato, come la maggior parte degli uomini vedano e considerino le donne, e soprattutto come le donne possano sopravvivere e affermare se stesse in un mondo maschilista, patriarcale e ipocrita. Ovviamente generalizzare è sbagliato, ma quasi cinquant’anni fa una donna attraente, di per sé, era già rea di una grave colpa, e quindi o doveva essere sottomessa o era una imperdonabile …sgualdrina.

Nella nostra società del 1972 questo concetto di fondo del film, nonostante il ’68 appena passato, non poteva essere accettato né discusso, e così la scelta del titolo “Mica scema la ragazza!”, che in maniera sottilmente ironica scarica tutte le colpe sulla protagonista.

Quello originale “Une belle fille comme moi” è molto diverso, e rifacendosi al titolo originale del romanzo, ci lascia in bocca un sapore ben più acre. Tanto per ribadire la totale mancanza reale di una rivoluzione sociale e culturale – troppe volte sbandierata e festeggiata – che da noi ha mantenuto pochissime delle promesse fatte.

“Un’altra sconfitta, Ferrari” di Mino Milani

(Effigie, 2007)

Su Guglielmo, detto Mino, Milani (classe 1928) ci sarebbe molto da dire e da raccontare. Autore di spicco del Corriere dei Piccoli, fumettista, giornalista e scrittore di romanzi storici e fantasy. Ma ora parliamo del suo “Un’altra sconfitta, Ferrari” che ci porta nella Pavia – città natale dell’autore – di metà Ottocento, raccontandoci una nuova indagine del commissario Ferrari.

1847, nella statica Pavia asburgica tutto sembra procedere come sempre anche se la città è in fermento per la prossima consacrazione di sette nuovi sacerdoti, evento che avverrà durante una grandiosa cerimonia nella chiesa del Carmine, alla presenza di ben quattro vescovi. I preparativi occupano quasi tutti i cittadini, compreso il commissario dell’Imperiale e Reale Delegazione di Polizia Melchiorre Ferrari, che segue il tutto con molto disincanto.

Ma le cose cambiano quando è chiamato a risolvere un efferato delitto. Il possidente Cattaneo, apparentemente uomo senza vizi, è stato trovato nel suo appartamento col collo spezzato. Proprio nell’abitazione del morto è stato fermato il presunto assassino: un uomo – che certo non è della zona – dalla statura molto piccola ma con dei muscoli agili e forti, che però si rifiuta di parlare. La situazione precipita quando il sospetto riesce ad evadere e poche ore dopo viene ritrovato in un confessionale della chiesa del Carmine il corpo di un sacerdote, anche lui col collo spezzato…

Un piccolo gioiellino giallo, che ricorda al meglio la nostra grande tradizione noir che parte da Giorgio Scerbanenco e arriva fino ad Andrea Camilleri.

Per amanti del genere, e non solo.

“L’uomo venuto dall’impossibile” di Nicholas Meyer

(USA, 1979)

Herbert George Wells è stato uno dei più grandi scrittori di fantascienza della storia, uno dei più geniali e innovatori, proprio come Jules Verne. Molte delle invenzioni descritte nei suoi romanzi poi sono state realmente realizzate. Ma, a differenza di Verne, Wells preannunciò anche l’idea di socialismo, tema al centro della sua opera più famosa: “La macchina del tempo” del 1895.

Proprio dal suo romanzo più famoso lo sceneggiatore e regista Nicholas Meyer (autore del romanzo “Sherlock Holmes: soluzione sette per cento” e della sceneggiatura dell’omonimo film nonché di quelle di “Ster Trek II: l’Ira di Kahn” e “Rotta verso la Terra”) si basa per scrivere questo “L’uomo venuto dall’impossibile” di cui poi dirigerà l’adattamento cinematografico.

Nel 1893 le notti di Londra sono insanguinate dal feroce e misterioso Jack lo Squartatore a cui tutta Scotland Yard dà inutilmente la caccia. Intanto, nel suo studio, lo scrittore e scienziato Herbert George Wells (Malcom McDowell) presenta ai suoi più stretti amici la sua nuova invenzione: la macchina del tempo. E proprio quando giunge – in ritardo – l’ultimo ospite, il medico chirurgo John Stevenson (un cattivissimo David Warner che poi sarà il cattivo anche in “Tron“), Wells annuncia il suo prossimo viaggio inaugurale nel tempo.

Ma la Polizia irrompe: sono sulle tracce di Jack lo Squartatore che alcuni testimoni affermano di aver visto entrare in casa Wells. Ormai non ci sono dubbi: Stevenson è l’assassino più efferato nella storia dell’Inghilterra vittoriana, ma del medico non ci sono più tracce. Solo Wells intuisce dove è fuggito: nel futuro, usando la sua macchina del tempo. Allo scrittore e scienziato non rimane altro che inseguire il sanguinario assassino dove si è diretto: nel 1979…

Geniale thriller fantasy che anticipa non pochi elementi che saranno portanti del cinema anni Ottanta e Novanta. Il display della mitica Delorean di “Ritorno al Futuro” ricorda tanto quello della macchina del tempo di questo film. La caccia a un serial killer e le difficoltà di chi, suo malgrado, è costretto a cacciarlo, sono elementi che troveranno il loro apice ne “Il silenzio degli innocenti”. Ma, soprattutto, la decadenza e la corruzione dei costumi e della società che Wells, nei suoi scritti ha sempre temuto e contrastato col socialismo ideale, e che invece Meyer lo costringe a vivere per inseguire un mostro che credeva, illudendosi, figlio solo del suo tempo.

Oltre a questo, “L’uomo venuto dall’impossibile” – il cui titolo originale è “Time After Time” che ha un significato ben diverso – è davvero ancora affascinante con colpi di scena degni del grande cinema di fantascienza.

“Rosso sangue” di Leos Carax

(Francia, 1986)

Leos Carax (pseudonimo di Alexandre Oscar Dupont) con questo film diventa uno degli enfant prodige del cinema francese degli anni Ottanta, proprio come Luc Besson col suo “Subway”. Che Carax abbia poi mantenuto le promesse è un altro discorso (il suo film successivo e più famoso è “Gli amanti del Pont-Neuf” del 1991), ma questo “Rosso sangue” rimane comunque un piccolo cult.

In una Parigi surriscaldata dalla cometa di Halley si intrecciano le vite di Alex (Denis Lavant) detto Linguamuta, della giovane Anna (Juliette Binoche) e del suo anziano amante Marc (Michel Piccoli). Dopo la tragica morte del padre caduto – o spinto? – sotto un treno della metropolitana, Alex decide di cambiare vita e lascia la sua giovane partner Lisa (Julie Delpy) dicendole che partirà per un lontano paese.

In realtà Alex rimane a Parigi, dove è stato ingaggiato da Marc per le sue abilità di funambolo e scassinatore, per portare a segno un colpo milionario. Nel mondo si è diffuso un virus letale che nasce e viene trasmesso quando due persone fanno l’amore “senza l’amore”. Non esiste una cura e tutti gli infettati non hanno scampo. Solo una grande ditta farmaceutica è riuscita a isolare il virus, cosa che permetterà di creare un vaccino.

Marc, però, ha ideato il furto dei batteri conservati in un laboratorio segreto, in un grattacielo nel centro della città. La preziosa ampolla, poi, verrà venduta al miglior offerente. Ma la preparazione di un colpo del genere non può non scatenare l’interesse di molti, che faranno di tutto per anticipare o ingannare Marc. Il furto riesce e Alex, prima di venire intercettato e ferito gravemente dal perfido killer di una banda rivale (killer impersonato da Hugo Pratt) nasconde l’ampolla. Sanguinante riesce a tornare da Marc e Anna, ma…

Il film esce lo stesso anno in cui in tutto il mondo inizia la comunicazione e la successiva prevenzione planetaria sull’AIDS. Nonostante ciò “Rosso sangue” è un film soprattutto d’atmosfera, dove le immagini sono più importanti delle parole e la storia conta meno delle emozioni.

Memorabile è la sequenza della corsa notturna di Linguamuta sulle note di “Modern Love” di David Bowie, poi citata e scopiazzata in numerosissimi film, così come quella finale che non può non ricordare quella di “Carlito’s Way”, diretto da Brian De Palma nel 1993.

“Matilda 6 Mitica” di Danny DeVito

(USA, 1996)

Sì, sì, non fate quella faccia, è inutile che storciate il naso, oggi parlo proprio di “Matilda 6 Mitica” il film diretto da Danny DeVito nel 1996, che considero un vero e proprio capolavoro della cinematografia per ragazzi, e non solo.

L’autore del romanzo originale “Matilde” è quel genio immortale di Roald Dahl, scrittore britannico (1916-1990) di origine norvegese, al quale si devono numerosi romanzi e racconti fonte di ispirazione di altrettanti capolavori in celluloide come, fra gli altri, “La fabbrica di cioccolato”, “James e la Pesca Gigante”, “Il GGG” e “Gremlins”.

Matilda Wormwood (la piccola e bravissima Mara Wilson) ha la sfortuna di nascere nella famiglia sbagliata (…e ditemi se non sono cose che capitano davvero). Suo padre Harry (un antipaticissimo Danny DeVito), infatti, è un lestofante venditore di auto usate, mentre sua madre Zinnia (Rhea Perlman, compagna nella vita di DeVito) pensa solo a truccarsi e a guardare la televisione.

Non parliamo poi del fratello maggiore Michael (Brian Levinson) che la sottopone quotidianamente ad atti di vile bullismo. Ma Matilda è una bambina speciale, impara a leggere da sola, ad andare in biblioteca da sola e, soprattutto, a sopravvivere alla sua famiglia che non fa altro che trattarla da essere estraneo e indegno. Quando poi, finalmente, riesce a convincere i suoi a mandarla a scuola, Matilda diventa padrona di tutti i suoi incredibili poteri…

Fantastico film su come si può sopravvivere alla proprio famiglia, cosa che spesso è davvero un’impresa titanica, colmo di ironia e al tempo stesso di tenerezza. Se è vero che è presentato come film per ragazzi, andrebbe fatto vedere anche a tanti genitori…

“Brazil” di Terry Gilliam

(UK, 1985)

L’aggettivo visionario, per Terry Gilliam, è forse troppo riduttivo. Gilliam – oltre ad essere uno storico Monty Phyton – è un vero e proprio rivoluzionario dell’immagine. E questo suo film del 1985 – insieme a “L’esercito delle 12 scimmie” – è per me il più visionario e rivoluzionario di tutte le sue opere. Realizzato poi in anni in cui gli effetti speciali erano “fatti a mano” e con pupazzi o modellini.

Sam Lowry (un bravissimo Jonathan Price) è un grigio e goffo impiegato in un futuro non troppo lontano dove il mondo è dominato dalla burocrazia asservita al potere. La sua vita scorre tranquilla fino a quando non incontra la donna che sogna tutte le notti. La ragazza in realtà si chiama Jill (Kim Greist) fa la camionista, ed è segretamente sotto inchiesta…

Strepitosa satira surreale degli edonistici anni Ottanta, con cupe ambientazioni kafkiane e sequenze da vero e puro action, “Brazil” è un film cult che con gli anni diventa sempre più bello. Vanno ricordati i deliziosi camei di Robert De Niro, Ian Holm e Michael Palin, e la spettacolare citazione finale de “La corazzata Kotiomkin” del maestro Ejzenstein …di fantozziana memoria.

La sceneggiatura del film, scritta dallo stesso Gilliam assieme a Tom Stoppard (premio Oscar per lo script di “Shakespeare in Love” di John Madden) e Charles McKeown (che nel film interpreta Mr Lime), viene candidata giustamente all’Oscar.

“Prendimi l’anima” di Roberto Faenza

(Italia/Francia/UK, 2003)

La storia di Sabina Nikolaevna Špil’rejn, il cui nome poi è stato translitterato in Sabina Spielrein, e soprattutto il suo ruolo nello sviluppo della psicoanalisi e negli studi di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung sono stati riconosciuti solo da pochi decenni. E Roberto Faenza ce li racconta, scrivendo e dirigendo questo bellissimo film, ispirato agli eventi reali che hanno caratterizzato la vita della donna e di coloro i quali con lei si sono confrontati, come Jung.

Nell’estate del 1904 la diciannovenne Sabina (interpretata da una bravissima Emilia Fox) viene ricoverata nell’ospedale di Burghölzli, nei pressi di Zurigo, perché affetta da una grave forma di isteria (ovviamente con isteria allora si intendeva tutto, e niente). Nell’istituto lavora il giovane Carl Gustav Jung (Iain Glen) – pupillo di Freud e come lui pioniere della psicoanalisi – che prende in cura la ragazza abbandonando i metodi classici, come docce ghiacciate camicie di forza o bavagli, e sostituendoli con dei “semplici” scambi di parole.

Dopo le prime difficoltà la terapia funziona e Sabina guarisce dalla sua “isteria”, che era legata alla sua sensibilità particolare, ai traumi della sua infanzia dettati da un padre molto duro, e dalla morte della piccola sorella minore. Entusiasta della cura, Sabina si iscrive a Medicina e contemporaneamente inizia una relazione sentimentale con Jung, del quale si è profondamente innamorata. Ma lo psichiatra è sposato, e nell’austera società svizzera dei primi del Novecento uno scandalo del genere potrebbe rovinargli la carriera.

L’uomo così propone alla donna di diventare ufficialmente amica della moglie e sedare le voci del loro tradimento. Ma Sabina è una donna libera e preferisce allontanarsi. Terminati gli studi si trasferisce a Vienna e diventa membro della Società Psicoanalitica (dove conoscerà lo stesso Freud).

La Russia, dove lei è nata, è diventata l’Unione Sovietica e Lenin sta facendo le nuove riforme per forgiare una nuova nazione. Con questo sogno Sabina, che intanto si è sposata, torna nel suo Paese natale e a Mosca fonda, diventandone anche direttrice, l’Asilo Bianco: il primo in assoluto in cui i bambini vengono educati ad essere, secondo le nuove dottrine, persone libere.

Fra i piccoli alunni c’è sotto falso nome Vasilij, uno dei figli di Stalin. Lo stesso Stalin però, una volta preso il potere assoluto, fa sciogliere la Società Psicoanalitica del Paese ritenendola una disciplina indegna della Medicina. L’Asilo Bianco chiude e Sabina, con la sua famiglia, sopravvive facendo il medico scolastico, ritirandosi poi a Rostov sul Don, sua città natale.

Nell’estate del 1942, poco prima che riesca ad abbandonare la città occupata dai tedeschi, in quanto ebrea Sabina viene arrestata e portata nella sinagoga della città. Lì, assieme alla giovane figlia e al resto della comunità israelitica della cittadina, viene fucilata.      

Ancora oggi la sua impronta nella psicoanalisi è molto forte, venendo continuamente studiata e sviluppata. La sua storia è venuta alla luce solo nel 1980 quando Aldo Carotenuto ha pubblicato il libro “Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud”, fonte di ispirazione del film di Faenza e di molti altri, come “A Dangerous Method” diretto da David Cronenberg nel 2011.   

Al di là della indiscutibile valenza scientifica delle teorie e degli studi della Spielrein, la domanda che sorge spontanea è un altra: ma quante e quali altre donne hanno determinato e influenzato le arti e le scienze nel corso dei secoli e, solo perché donne, sono rimaste sconosciute o dimenticate?