“10 Cloverfield Lane” di Dan Trachtenberg

(USA, 2016)

Scritto da Josh Campbell, Matthew Stuecken e Damien Chazelle (già sceneggiatore e regista di “Whiplash” e “La La Land”) diretto da Dan Trachtenberg e, soprattutto, prodotto dal nuovo genio di Hollywood J.J.Abrams, “10 Cloverfield Lane” ti inchioda alla poltrona fino all’ultimo fotogramma.

Se da una parte possiede caratteri classici e claustrofobici di un thriller psicologico (tratti che ricordano fin troppo chiaramente la serie “Lost”) dall’altra è una chiaro riferimento al “Cloverfield” diretto da Matt Reeves nel 2008 e sempre prodotto da Abrams.

Michelle (una bravissima Mary Elizabeth Winstead) lascia il suo ragazzo Ben (la cui voce nella versione originale è di Bradley Cooper) e parte con la sua auto verso la Luisiana. Con lo scorrere delle ore arriva il buio e proprio poco dopo il tramonto la ragazza, ascoltando l’ennesimo messaggio del suo ex sulla segreteria del cellulare, ha un grave incidente.

Si risveglia con una notevole, ma ben curata, ferita sulla gamba e allo stesso tempo incatenata al materasso dentro una stanza di cemento senza finestre. Dopo un tempo che sembra infinito la porta rumorosamente si apre ed entra Howard (uno stratosferico John Goodman) che le porta il pranzo.

L’uomo le racconta quello che lei non ricorda: l’ha trovata gravemente ferita sul ciglio della strada e l’ha portata con se visto che il loro Paese è sotto un feroce attacco chimico. Adesso sono al sicuro nel suo bunker. Michelle non crede a una solo parola, ma quando scopre che nel bunker c’è anche Emmet (John Gallagher Jr.) un giovane vicino di casa di Howard che, non solo conferma la storia, ma le racconta anche che ha dovuto combattere con l’uomo per entrarci, la ragazza rimane perplessa. 

Michelle è sempre titubante e, con uno stratagemma, riesce a impadronirsi delle chiavi per uscire. Ma giunta alla porta esterna dal vetro vede…

Davvero un film tosto. Sconsigliato ai deboli di cuore e con un John Goodman in stato di grazia. Se davvero volete fare i superbi vedetevelo la notte, da soli, in una remota casa di campagna…  tzé!

Mary Tyler Moore

Lo scorso 25 gennaio se ne è andata l’attrice americana Mary Tyler Moore.

Classe 1936, (anche se di una signora non si dovrebbe mai dire l’età) Mary Tyler Moore è stata una delle attrici televisive, e non solo, che più hanno influenzato l’immaginario e il costume del secondo Novecento.

Così come Lucille Ball, la Moore ha rinnovato completamente il ruolo dell’attrice comica, che prima di lei – e prima della Ball – era relegato a brave ma “simpatiche” – nella pessima ma fin troppo presente accezione patriarcale – caratteriste. Con un fisico da vera modella, l’attrice nata a Brooklyn, grazie alla sua bravura si impone nel piccolo schermo come ottima attrice ironica, tanto da ottenere più di uno show tutto personale, e dopo aver fatto da spalla per anni a Dick Van Dyke nel suo famosissimo show.

Il “Mary Tyler Moore Show”, che racconta le vicissitudini lavorative e personali di Mary Richards (la stessa Moore) giornalista televisiva, appare regolarmente dal 1970 al 1977, riscuotendo un grande successo e dando luogo a vari spin-off (“Rhoda” su tutti).

Come solo le grandi personalità dello spettacolo sanno fare la Moore, alla fine degli anni Settanta, abbandona la comicità e si cimenta in uno dei ruoli più duri e difficili del cinema drammatico degli anni Ottanta. Presta il suo volto a Beth, la madre gelida e incapace di sentimenti del protagonista del memorabile esordio alla regia di Robert Redford “Gente comune”, premiato con l’Oscar come miglior film. La Moore, candidata come miglior attrice non protagonista, ingiustamente, non vince la statuetta.

Nel corso del tempo, poi, la Moore sceglierà con cura i suoi impegni in televisione e al cinema, fino alla serie “Hot in Cleveland” nella quale apparirà fino al 2013.

Se il suo aspetto da top model, forse, l’ha portata davanti alle telecamere, la sua grande bravura e il suo ironico – e più raramente drammatico – talento ce l’hanno tenuta davanti per oltre cinquant’anni, senza mai usare la sua bellezza come punto di forza.

E’ grazie anche a figure come la sua che il ruolo sociale e culturale delle donne ha fatto un importante passo in avanti verso la vera emancipazione, allontanandosi dall’oscuro baratro del becero maschilismo.

“Toto Le Héros – Un eroe di fine millennio” di Jaco van Dormael

(Belgio/Francia/Germania, 1991)

Come cantavano Dalla e De Gregori nella splendida “Cosa sarà“: “…che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento”, ma soprattutto cosa porta a sprecare la propria esistenza?

L’opera prima del regista belga Jaco van Dormael, autore fra i più visionari degli ultimi decenni, ce lo racconta attraverso la storia del suo protagonista Thomas detto Toto, da sempre convito di essere stato scambiato nella culla poche ore dopo essere nato.

Questa accompagnerà Toto per sempre condizionando la sua vita e quella di chi gli è accanto. E alla fine…

Con una linea narrativa destrutturata in flashback concatenati “Toto le Heros” è un gran bel film che ci porta a riflettere su come e con chi decidere di condividere la nostra esistenza. Davvero uno splendido film.

Per concludere, non voglio parlare del titolo in italiano con l’inspiegabile aggiunta “Un eroe di fine millennio” che non c’entra una notissima mazza, ma desidero parlare invece del fatto che al momento il film è introvabile nella nostra lingua. Distribuito dalla Rai, oggi è fuori catalogo e se cercate nell’usato c’è qualche simpaticone che vende il vecchio dvd a oltre 140 euro. Gli unici disponibili a prezzi morali sono quelli in altre versioni. Se volete vederlo in italiano, invece, non vi rimane altro che studiare attentamente i canali Rai.

Vincitore, fra gli altri numerosi premi, della Caméra d’Or al Festrival di Cannes come miglior opera prima.

“5 giorni fuori” di Ryan Fleck e Anna Boden

(USA, 2010)

Tratto dal romanzo “It’s Kind of a Funny Story“di Ned Vizzini questo film, scritto e diretto da Ryan Flack e Anna Boden, ci parla di uno dei temi più complicati della nostra società: la grave depressione adolescenziale che può portare al suicidio.

Un tema davvero tosto, ma grazie al romanzo di Vizzini e alla sceneggiatura di Flack e Boden, “5 giorni fuori” ci racconta il ricovero in un reparto psichiatrico del sedicenne Craig (un bravo Keir Gilchrist) colto da terribili istinti suicidi. Prima di saltare da un ponte nel gelido fiume, fortunatamente Craig ha la presenza di spirito di correre al pronto soccorso dove, appunto, viene ricoverato d’urgenza.

Nella settimana che passerà in un ambiente all’inizio molto drammatico, Craig si confronterà con persone tanto diverse da lui, ma con lo stesso istinto di autodistruzione. Il paziente con cui il giovane ragazzo legherà di più è Bobby (Zach Galifianakis) un trentacinquenne con un matrimonio fallito, una figlia piccola e mezza dozzina di tentati sucidi alle spalle. C’è poi Noelle (Emma Roberts) un’adolescente come Craig, che porta sul viso e sulle braccia i tagli che si è autoinflitta per punirsi.

Ma non si scade mai nel banale o nel patetico, la depressione è una vera e propria malattia che se sottovalutata, come le più micidiali, uccide. E così Boden e Fleck ce ne parlano senza falsi sentimentalismi o patetici accenti. Così come si dovrebbero affrontare tutte le malattie, soprattutto quelle che colpiscono i più giovani.

Da vedere.

“Myra Breckinridge” di Gore Vidal

(Fazi, 2007)

La nostra editoria è piena di presunti scrittori tormentati che, per grazia celeste, dividono le loro vite complicate – soprattutto dal punto di vista sessuale – con noi, elevando i nostri spiriti ma soprattutto scandalizzandoci.

Così almeno crede chi decide di pubblicarli e portali in libreria. Ma quasi tutti – e metto quasi per educazione… – provocano solo tanta noia e non certo scandalo, visto che poi sono troppo spesso semplicemente incolori autocelebrazioni (o celebrazioni dei propri sogni più repressi, quasi sempre frutto di un’adolescenza solitaria e pedicellosa).

Tutti questi superflui volumi sbiadiscono e trovano il loro vero destino, che è nella carta riciclata, – anche se generalmente io i libri li conservo con cura, ma a volte possono pure servire per pubblicare altre cose più utili e piacevoli… – mettendoli anche solo a pochi metri di distanza dai grandi romanzi che hanno davvero cambiato la storia e la cultura planetaria, come questo “Myra Breckinridge” del maestro Gore Vidal, pubblicato nel 1968 e vietato negli Stati Uniti fino a metà degli anni Settanta.

Col suo stile sublime, Vidal ci porta nel diario intimo di Myra, vedova di Myron e decisa a prendersi metà del patrimonio di Buck, ex attore western mediocre e zio del marito, nonché titolare di un piccola ma redditizia Accademia per aspiranti attori a Hollywood.

Ma (occhio che anticipo la trama, ma stavolta non si può farne a meno e poi la trovereste sulla quarta di copertina ben in evidenza) Myra in realtà è Myron che, grazie a un chirurgo danese ha cambiato sesso, e attraverso le sue esperienze è conscia di poter manipolare gli uomini e le donne…

Per la sua dichiarata omosessualità Vidal fu cesurato fino dagli anni Cinquanta e la cosa che più infervorava i suoi beceri persecutori era la sua sconfinata cultura e ironia, nonché la massima serenità che aveva con la propria sessualità. Vidal non si piegò mai, anzi, con questo libro picchia duro proprio contro i fondamenti più beceri del maschilismo ottuso.

A quasi mezzo secolo dalla sua prima pubblicazione “Myra Breckinridge” scandalizza davvero come pochi. E allora è opportuno chiedersi: perché un libro del genere in Italia è da anni fuori catalogo e reperibile difficilmente solo nel reparto usato (di ebook non ne parliamo proprio, lì si che sarebbe davvero uno scandalo…)?

Non sarà perché altrimenti diventa chiaro che il resto – o quasi – è davvero tutta carta da riciclare? …Ma no, queste cose da noi non si pensano…

“Hoppity va in città” di Dave Fleischer

(USA, 1941)

Ma davvero Walt Disney non ha mai dovuto subire la concorrenza di altri artisti geniali del cartone animato? Ovviamente no. Max Fleischer fu un geniale autore di cartoni animati quanto Disney.

Classe 1883, Fleischer nasce a Cracovia, in Polonia, e una volta trasferitosi negli Stati Uniti si appassiona all’animazione. Inventa il rotoscopio grazie al quale fonda col fratello Dave i Fleischer Studios. Fra i numerosi successi animati creati dai due va ricordata su tutti Betty Boop. Nel 1939, sulla scia del successo di “Biancaneve e i sette nani” dello stesso Disney, i Fleischer realizzano il loro primo lungometraggio “I viaggi di Gulliver” che riscuote un buon successo, proprio grazie al quale viene prodotto il secondo film: “Hoppity va in città”.

La pellicola ci racconta la storia di una piccola comunità di insetti che vive nel giardino di una casetta al centro di una grande metropoli in espansione. Il vecchio recinto che proteggeva il piccolo spazio verde si è rotto e così i passanti lo invadono sempre più di frequente, calpestando le case dei poveri insetti o gettandoci sopra mozziconi e rifiuti.

La situazione precipita quando Dolcezza, la bella figlia del signor Calabrone, proprietario del negozio di miele, e Hoppity il giovane grillo ottimista – che nel carattere e nel passo dinoccolato ricorda molto il James Stewart del tempo – si dichiarano, facendo esplodere la gelosia del perfido signor Scarafaggio…

Con disegni che sono delle vere e proprie opere d’arte, “Hoppity va in città” possiede ancora chiaramente spunti, soluzioni narrative e visive a cui si sono ispirati quasi tutti gli autori di cortometraggi successivi, fino ad arrivare a quelli contemporanei come “Z la formica” o “A Bug’s Life – Megaminimondo”. Il film di Flaischer è un vero e proprio capolavoro dell’animazione così come quelli firmati dal genio Walt Disney.

Che cosa è successo dopo? Perché i Fleischer sono scomparsi dal panorama cinematografico?

“Hoppity va in città”, che avrebbe dovuto ripagare i debiti che la sua casa di produzione aveva con i finanziatori uscì il 5 dicembre del 1941, 48 ore prima che i giapponesi attaccassero Pearl Harbor cambiando drasticamente la società americana e facendo naufragare il film al botteghino. I Fleischer furono costretti così a svendere la loro casa di produzione alla Paramount, lasciando definitivamente libero il campo al grande Walt Disney.

“Guardiani dell’Essere” di Eckhart Tolle e Patrick McDonnell

(L’Età dell’Acquario, 2011)

Eckhart Tolle (pseudonimo di Ulrich Leonard Tolle, nato in Germania nel 1948) ha passato la prima parte della sua vita in cerca di se stesso e, come accade a pochi privilegiati, sull’orlo del baratro si è trovato. E’ autore di testi dedicati alla conoscenza di se stessi e soprattutto del proprio Essere. Patrick McDonnell è l’artista autore, tra gli altri, del fumetto “Mutts” che viene pubblicato oggi su oltre 700 quotidiani nel mondo.

Questo piccolo ma bellissimo volume è l’incontro dei due: McDonnell immortala col suo pennello alcune brevi massime di Tolle. Ed è dedicato ai Guardiani dell’Essere che sono i nostri piccoli animali domestici.  Un esempio: “Ho vissuto con molti maestri Zen, ed erano tutti gatti” ci spiega Tolle.

Chi non possiede o non ha posseduto mai un cane o un gatto forse non può comprendere a pieno il ruolo che questi hanno o possono avere nella nostra esistenza.

D’altronde gli animali, e questo è indiscutibile, non hanno le sovrastrutture mentali che purtroppo possiediamo noi, e nascono vivono e muoiono semplicemente sapendo solo di Essere. Qualcuno vuole confutare il fatto che sono troppo spesso loro la parte più “umana” e sensibile della nostra società?

…E allora si compri manuali per il self-coaching e per il riordino.