“Un uomo a nudo” di Frank Perry e Sidney Pollack

(USA, 1968)

Non credo ci sia un altro personaggio cinematografico degli anni Sessanta che rappresenti meglio il declino e il fallimento del sogno americano, sbocciato durante il New Deal rooseveltiano, del Ned Merrill di questo bel film.

Tratto dal racconto “The Swimmer” di John Cheever, “Un uomo a nudo” si svolge durante una bella giornata estiva in una contea ricca e florida alle porte di New York. La zona è seminata di splendide ville, molte delle quali hanno una lussuosa piscina, nuovo status symbol dell’upper-class americana.

Proprio nei pressi di una di queste arriva, indossando solo un costume, Ned Merrill (un grande Burt Lancaster) apparentemente un uomo di successo e amato da tutti che, col permesso dei padroni di casa, si tuffa per fare un bagno. Una volta uscito Ned ha un’idea: attraversare la contea nuotando nella piscina di ogni villa che lo separa dalla sua ricca magione.

Ma in ogni piscina che attraversa Ned farà i conti con se stesso e il suo passato che drammaticamente lo hanno portato al fallimento lavorativo e umano.

Splendido e bravo come sempre Lancaster che recita con addosso solo un costume, e a 55 anni suonati mostra un fisico perfetto. La produzione fece rigirare a Sidney Pollack due scene, fra cui quella fondamentale dell’ultima piscina.

Davvero un grande Lancaster e davvero un gran bel film.

“La via del male” di Robert Galbraith/J.K. Rowling

(Salani, 2016)

Parliamo del terzo capitolo delle investigazioni del detective privato Cormoran Strike, nato dalla penna della geniale J.K. Rowling che usa lo pseudonimo di Robert Galbarith così come ha fatto per la prima fondante inchiesta “Il richiamo del cuculo” (2013) e per la seconda “Il baco da seta” (2014).

Strike è un reduce della guerra in Iraq, dove ha perso la parte inferiore di una gamba. Figlio di una famosissima rockstar e di una ex groupie, ha un fisico massiccio e possente da classica Terza Ala. Questa volta Cormoran deve affrontate il male che arriva proprio dal suo passato militare. Accanto a lui c’è sempre la sua segretaria “temporanea” Robin Ellacott, e anche lei dovrà vedersela coi mostri del suo passato…

Con una scena finale d’applauso, “La via del male” ci racconta soprattutto di una delle più infami piaghe della nostra società: la violenza sulle donne. Violenza di tutti i tipi: fisica, mentale e morale.

Inutile aggiungere che la Rowling/Gilbraith scrive in maniera divina e scorrevole, ma occhio che in questo romanzo giustamente …picchia duro.

Questa inchiesta di Strike è seguita dalle successive “Bianco letale” (2019) e “Sangue inquieto” (2021).

“Rogue One: A Star Wars Story” di Gareth Edwards

(USA, 2016)

Scritto da Chris Weitz e Tony Gilroy – giovani ma ben rodati sceneggiatori – e diretto da Gareth Edwards, è arrivato caldo caldo nelle sale italiane l’ultimo capitolo della saga più famosa della storia del cinema.

Ultimo sì, ma non in senso cronologico della storia – che al momento rimane “Star Wars: Il risveglio della Forza” – questo “Rogue One” (che è il primo della nuova serie “Star Wars Anthology” che racchiuderà una serie di pellicole parallele a quelle vere e proprie della saga) è ambientato poco prima di “Guerre Stellari” – che poi ha preso il titolo “Una nuova speranza” – e ci racconta come un manipolo di ribelli eroi riesca a rubare i preziosissimi piani della famigerata Morte Nera, dettaglio fondamentale dello stesso primo film, fino a oggi mai affrontato.

Nel cast spiccano Felicity Jones, Forest Whitaker, Mads Mikkelsen (il primo cattivissimo di James Bond/Daniel Craig) e Diego Luna (attore e regista messicano, interprete fra gli altri di film come “Elysium”, “Milk” o “Il Libro della Vita”). E ovviamente lui, il cattivo dei cattivi, colui che una volta era Anakin Skywalker: Lord Darth Vader. E con lui è presente anche un tormentato rapporto padre-figlio, o meglio figlia.

Se “Star Wars: Il risveglio della Forza” era rivolto alle nuove generazioni, questo “Rogue One” è stato pensato, scritto e realizzato per chi nel lontano 1977 rimase “folgorato” – eddaje! – al cinema da “Guerra Stellari”.

Torna tutto, tutto si incastra e ci prepara per andare “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”. E poi c’è l’incredibile ricostruzione digitale di Peter Cushing, che come in “Star Wars: Una nuova speranza” interpreta il perfido Tarkin, incredibile visto che Cushing è scomparso nel 1994. E quella di…

Il titolo – che letteralmente sarebbe “canaglia 1” – è riferito a… beh, ve lo andate a vedere al cinema!

Per veri amatori: astenersi perditempo.

“L’uovo alla Kok” di Aldo Buzzi

(Adelphi, 1979/2002)

Aldo Buzzi (1910-2009) è stata una delle figure più rilevanti della cultura italiana del secondo Novecento. Laureatosi in Architettura al Politecnico di Milano, Buzzi approda al cinema come collaboratore del futuro cognato Alberto Lattuada, e per gli anni successivi collabora con altri futuri grandi registi come Luigi Comencini o Luigi Zampa. Ma lo scrivere, per Buzzi, è l’arte preferita e così, col passare degli anni, ci si dedica con sempre più impegno.

Nel 1979 pubblica il suo libro di ricette “L’uovo alla Kok”, titolo scelto prendendo spunto dai vari errori e refusi che gli capita di leggere fra le carte e le liste dei ristoranti e delle trattorie che frequenta.

Oltre alle deliziose ricette che descrive – la Tiella e quelle dei dolci sono le mie preferite – Buzzi ci regala aforismi e aneddoti strepitosi come “Mangiare è umano, digerire è divino” o “Il mondo purtroppo è di chi ha torto”. E ci confessa che :”Lo scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo, di cuochi, di pranzi mi ispira diffidenza, come se mancasse di qualcosa di essenziale”.

Ma Buzzi ci parla, soprattutto, di cosa rappresenta il cibo nella nostra società e profetizza (nel 1979) come la nostra cucina prima o poi si accorgerà di essere superiore anche a quella francese.

Da leggere con gli e la bocca e quindi: buona lettura e …buon appetito!

“Scusate se esisto!” di Riccardo Milani

(Italia, 2015)

Che il nostro sia un Paese maschilista è un dato di fatto. Ma di commedie divertenti che ne parlano così schiettamente ce ne sono poche. Questa di Riccardo Milani è quindi una piacevole eccezione.

Serena Bruno (una brava Paola Cortellesi) a causa del suo cognome viene scambiata spesso per un uomo. E così, molto probabilmente, il suo lavoro viene selezionato per il risanamento di uno dei quartieri più degradati di Roma: il Corviale. Ma tutti si aspettano un uomo con cui confrontarsi…

Ispirata a una storia vera – …guarda un pò – questa deliziosa commedia degli equivoci parla chiaro e diretto della considerazione che le donne hanno sul lavoro nel nostro Paese e sulla loro battaglia quotidiana e impari contro il famigerato patriarcato.

Risate agrodolci quindi…

“Topkapi” di Eric Ambler

(Adelphi, 1962/2016)

Eric Ambler è stato uno dei maggiori autori di spy-story del Novecento, tanto da essere considerato un maestro anche dallo stesso Ian Fleming.

Classe 1909, Ambler nasce a Londra dove, finiti gli studi, inizia la sua carriera di autore di pubblicità. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Ambler entra nell’Esercito britannico servendo le truppe cinematografiche e spesso scrivendo sceneggiature direttamente nei luoghi di guerra.

Con la fine del conflitto e lo scoppio della Guerra Fredda, Ambler passa definitivamente alla carriera cinematografica, ma continua a scrivere, e con i suoi romanzi eleva definitivamente lo spionaggio a genere nobile della narrartiva mondiale.

Nel 1962 pubblica “Topkapi – La luce del giorno” riscuotendo un nuovo successo planetario (dopo lo strepitoso “La maschera di Dimitros”, che arriverà a ispirare quasi sessant’anni dopo Christopher McQuarrie per la sceneggiatura de “I soliti sospetti“).

Arthur Abdel Simpson è un apolide, figlio di un’egiziana e di un inglese, che ha perso la cittadinanza britannica e quella egiziana a causa delle sue numerose truffe, molte delle quali non riuscite.

Vive ad Atene, dove sbarca il lunario facendo il ruffiano o rifilando patacche a turisti sprovveduti. Fino a quando non incontra Harper, uno strano europeo, che lo trascina in una losca e misteriosa “operazione” a Istanbul. Ma…

Strepitoso affresco dei vizi e dei lazzi dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo che spesso sono costretti a campare dei desideri – immorali o illegali – dei popoli mitteleuropei. Ambler ci racconta la povertà e l’avidità umana con uno stile da narratore di gran classe.

Da leggere.

Per la chicca: nel 1964 Jules Dassin gira la versione cinematografica con un grandioso Peter Ustinov (che davvero sembra essere uscito dalla penna di Ambler), Melina Mercuri e Maximilian Schell. Un adattamento molto visionario e psichedelico, figlio dei “magnifici” anni Sessanta, che oggi risulta forse un pò datato (tranne che per Ustinov, ovviamente).

“Il grande Lebowsky” di Joel Coen

(USA/UK, 1998)

Questa, per me, è l’opera cinematografica più grande di Joel ed Ethan Coen.

E’ il film più riuscito e geniale. Con un cast strepitoso a partire da Jeff Bridges che ingiustamente non vincerà l’Oscar per la sua magistrale interpretazione, a John Goodman il cui personaggio è ispirato – dicono alcuni rumors – al regista John Milius, a Steve Buscemi, all’algida Julianne Moore e all’allora poco conosciuto Philip Seymour Hoffman nei panni di Brandt, giovane lacchè del ricco e omonimo magnate Lebowski.

Le vicende cui è protagonista il Drugo hanno fatto storia nel cinema e nella cultura contemporanea. Il tutto con lo sfondo di un’America dei primi anni Novanta alle prese con la prima e allora “innocente” invasione del Kuwait da parte delle truppe di Saddam Hussein.

Un’America estrema quindi, molto simile a quella di oggi, che è fin troppo ben rappresentata da Walter (un grandioso Goodman appunto) razzista e reazionario dalla pistola facile, ma che ha nel bowling la sua religione. Il tutto narrato da un affascinante, elegante e pulito Straniero che ha i baffi e la voce calda di Sam Elliot.

Grandioso cameo di John Turturro che lecca una palla da bowling, così come sono fantastici i trip che si fa il Drugo…

Copiato di continuo, è un film indispensabile in ogni cineteca degna di questo nome.

“Il tempo si è fermato” di John Farrow

(USA, 1948)

Qui parliamo di uno degli esempi più riusciti di noir americano anni Quaranta.

La vicenda in cui viene coinvolto, suo malgrado, George Stroud (un bravissimo Ray Milland) si intreccia con quella del perfido e ambiguo magnate dell’editoria Earl Janoth (un Charles Laughton d’annata) che ricorda tanto – forse pure troppo – il famoso William Randolph Hearst, re dell’editoria scandalistica di quegli anni e ispiratore anche del Charles Foster Kane di “Quarto potere” di Orson Welles.

Stroud è il responsabile della rivista dedicata alla criminologia che fa parte dell’impero editoriale “Janoth”, fondato e guidato senza il minimo scrupolo dal perfido e glaciale Earl Janoth.

La mattina dell’ultimo giorno di lavoro prima di una vacanza che a casa moglie e figlio aspettano da cinque anni, Stroud viene convocato dallo stesso Janoth. Le ferie devono essere nuovamente rimandate: il giornale diretto da Stroud deve indagare su un nuovo caso.

Quando George si rifiuta di cedere Janoth lo licenzia. Prima di tornare a casa dalla moglie, George Stroud decide di bere un sorso in un affollato locale. Lì viene raggiunto da Pauline York (Rita Johnson), un’appariscente modella, anche lei in conflitto con Janoth. La bella donna ha un piano per vendicarsi…

Tratto dal romanzo di Kenneth Fearing e sceneggiato da Jonathan Latimer, “Il tempo si è fermato” è strutturato come il meccanismo perfetto di un orologio di alta precisione – non a caso il titolo originale è “The Big Clock” – condito da piani sequenza alquanto arditi per l’epoca grazie alla regia di John Farrow (papà di Mia), un meccanismo successivamente molto copiato (“Senza via di scampo” con Kevin Costner e diretto da Roger Donaldson nel 1987, solo per dirne uno).

Piccola e irresistibile parte anche per Elsa Lanchester, moglie nella vita di Laughton, che con la sua battuta fulminante chiude il film, tagliata nella vecchia versione italiana.

Un gioiellino, ancora oggi, perfettamente funzionante.