“La piccola bottega degli orrori” di Frank Oz

(USA, 1986)

Nel 1982 sbarca a Broadway il musical ispirato al film culto di Roger Corman “La piccola bottega degli orrori“. Gli autori sono Alan Menken e Howard Ashman e il successo è clamoroso. Non a caso in due, negli anni successivi, vinceranno come autori di canzoni e colonne sonore ben dieci Oscar, quasi tutti per film della Disney, fra cui “La Sirenetta” e “La Bella e la Bestia”. E i premi sarebbero stati molti di più se Ashman non fosse stato stroncato prematuramente dall’HIV nel 1991.

Ma, tornando al musical, anche se figlio di una piccola produzione ha tutti gli elementi per il successo. Belle musiche, tanta ironia e una storia tanto assurda da essere irresistibile. Così anche Hollywood se ne interessa e decide di riadattarla per il grande schermo.

Dietro la macchina da presa c’è Frank Oz, già collaboratore stretto del maestro Jim Henson autore dei Muppets, nonché voce originale e animatore del grande Yoda in “Star Wars: L’impero colpisce ancora” e “Star Wars: Il ritorno dello Jedi”. Un esperto di pupazzi e animazione, insomma, con un grande senso ironico.

Seymour (Rick Moranis) è un orfano che fa il tuttofare nella piccola bottega di fiori del signor Mushnik (un grandioso Vincent Gardenia). Ad aiutarlo c’è la bella e un pò goffa Audrey (Ellen Greene) che ha una pessima opinione di se stessa, tanto da frequentare il manesco Tony Scrivello (uno moro capelluto Steve Martin) che ama essere uno dei più perfidi dentisti della città. Ma l’arrivo dallo spazio di una piccola quanto famelica pianta cambierà le cose…

Deliziosa commedia musicale con una colonna sonora da Oscar. Sempre divertente e sfriziosa. Bill Murray interpreta il ruolo che nell’originale del 1960 interpretò un allora sconosciuto Jack Nicholson.

Per la chicca: Frank Oz è il protagonista di uno spassoso cameo ne “I Blues Brothers” di John Landis: è l’addetto del carcere che restituisce gli oggetti personali e Jake all’inizio del film.

Per la chicca 2: a doppiare Vincent Gardenia, nella nostra versione, è il grande e indimenticabile Silvio Spaccesi che ne “Star Wars: L’impero colpisce ancora” e “Star Wars: Il ritorno della Jedi” doppia Yoda. …che intreccio!

“La piccola bottega degli orrori” di Roger Corman

(USA, 1960)

Roger Corman, che ha festeggiato novant’anni lo scorso 5 aprile, è uno dei più geniali artigiani della macchina da presa del Novecento. I suoi numerosi film, tutti girati a bassissimo costo e con attori allora sconosciuti, hanno segnato la fantasia e gli incubi di più di una generazione. Molti sono stati copiati o rigirati, o addirittura rielaborati per un genere diverso. Come questo “La piccola bottega degli orrori” che è diventato un musical di enorme successo prima a Broadway e poi a Hollywood con “La piccola bottega degli orrori” diretto da Frank Oz.

Seymour (Jonathan Haze) è un giovane impacciato e goffo, schiacciato dalla figura della madre, una donna possessiva e malata psicosomatica cronica. Per sbarcare il lunario lavora come commesso nel piccolo negozio di fiori del signor Gravis Mushnik (Mel Welles).

Un giorno porta nel negozio una piccola piantina che ha comprato da un venditore cinese e la chiama Audrey Junior, in onore alla prosperosa assistente di Mushnik, Audrey (Jackie Jospeh) di cui è innamorato. Ma la sera stessa Seymour scopre che lo strano vegetale è carnivoro e ogni volta che mangia – il giovane le regala un pò del suo sangue – cresce a dismisura.

Crescendo incredibilmente, Audrey Junior diventa una vera e propria attrazione. Ma il sangue del giovane, che mantiene ovviamente il segreto, non basta più e così, senza volerlo, getta nelle fauci della pianta assassina vari malcapitati, fra cui il terribile dentista del piano sopra; e con un paziente (un allucinato Jack Nicholson al suo esordio) Seymour arriva a fingere di essere lui il medico, fino a quando…

Scritto da Charles B. Griffith, e tratto da un racconto di John Collier, questo film di Corman è una pietra miliare dell’horror, ma soprattutto della commedia nera. Nonostante gli evidenti limiti produttivi, Corman realizza una pellicola che ancora oggi punge e morde come una pianta carnivora.

Grande.

“La ballata del boia” di Luis García Berlanga

(Ita/Spa, 1963)

Alla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia del 1963 questa pellicola fu aspramente stroncata da buona parte della critica perché – così qualcuno asseriva – sosteneva velatamente il regime franchista. Ma sta di fatto anche che provocò le ire e le proteste dell’ambasciatore di Spagna in Italia che chiese il suo immediato ritiro.

Dopo oltre cinquant’anni appare chiaro che la sceneggiatura, scritta dal grande Ennio Flaiano assieme a Rafael Azcona (sceneggiatore di fiducia di Marco Ferreri di film come “El cochecito“, “La donna scimmia” o “L’udienza”, e anche del “Mafioso” di Alberto Lattuada) e al regista Luis García Berlanga, era tutto meno che un omaggio alla dittatura spagnola. E chi si era scaldato tanto, magari lo aveva fatto per moda o per mantenere stretta la poltrona. Ma torniamo al film.

José Luis (un bravo Nino Manfredi) lavora come addetto semplice in un’agenzia funebre di Madrid. In uno dei suoi servizi gli capita di conoscere Amadeo (José Isbert) il boia di Stato. José Luis vorrebbe dimenticare subito l’incontro, ma il destino e il suo carattere debole lo portano a frequentare Carmen (Emma Penella), l’unica figlia di Amadeo.

Fra i due nasce un rapporto di mutuo soccorso: lei per il mestiere del padre e lui per il suo, vengono continuamente sdegnati da tutti. Quando lei rimane incinta, José Luis vorrebbe scappare in Germania, ma alla fine acconsente a sposarla.

A pochi mesi dalla pensione ad Amadeo viene assegnato un bell’appartamento per il suo  particolare servizio allo Stato. Tutto sembra andare per il meglio, ma dal Ministero arriva la triste notizia che una volta in pensione, Amadeo dovrà lasciare la prestigiosa abitazione.

L’unica soluzione è che Josè Luis diventi boia lui stesso per poter subentrare al suocero nell’appartamento. Dopo innumerevoli tentate fughe, José Luis cede. La vita, cosi’, con il nuovo stipendio e l’appartamento, diventa ancora più comoda. Ma un funesto giorno arriva la chiamata dal Ministero per un’esecuzione a Palma de Majorca…

Sono fin troppo ovvi i rifirimenti al generalissimo Franco che, come il boia, tutti sdegnano ma che alla fine nessuno ha il coraggio di cacciare o contestare. Graffiante critica anche a quella cavillosa e pachidermica burocrazia che poi Villaggio prenderà in giro col suo Fantozzi.

Per intenditori.

“Nove regine” di Fabiàn Bielinsky

(Argentina, 2000)

Ci sono molti film di qualità su piccoli truffatori o borseggiatori, a partire da “Il Mattatore” con Vittorio Gassman per arrivare al classico dei classici “La stangata” con Paul Newman e Robert Redford. Questo piccolo film argentino, scritto e diretto da Fabiàn Bielinsky, merita un posto accanto ai migliori.

Juan (Gaston Pauls) è un giovane borseggiatore con la faccia da bravo ragazzo. Tutto quello che sa lo ha imparato dal padre, che però ora è in carcere e ha bisogno di settantamila pesos per corrompere il giudice e ottenere la libertà vigilata. Con i suoi piccoli imbrogli Juan, però, è riuscito a racimolare solo cinquantamila.

Un giorno, durante una piccola truffa che prende una brutta piega, viene salvato da Marcos (Ricardo Darin, che qualche anno dopo sarà il protagonista dello splendido film premio Oscar “Il segreto dei suoi occhi” di Juan José Campanella) un piccolo criminale come lui, ma certamente più scaltro ed esperto.

L’uomo gli propone di lavorare insieme come complici per un giorno e Juan rifiuta, soprattutto perché non si fida. Ma la necessità di reperire i soldi per il padre alla fine lo fa cedere. Dopo qualche truffa riuscita, i due capitano al centro di una compra-vendita di rarissimi e costosissimi francobolli, chiamati le “Nove regine”, ma…

Non svelerei il finale, che è davvero imprevedibile, neanche per un milione di euro, perché questo film è scritto con un incastro perfetto, paragonabile sotto molti aspetti al fantastico “I soliti sospetti” di Bryan Singer.

Da vedere.

Ma se proprio volete sapere come finisce che …scherzo.

“Il libro della vita” di Jeorge R. Gutierrez

(USA, 2014)

Con questo film d’animazione torniamo a parlare del genio di Guillermo del Toro visto che lo ha concepito e prodotto.

Un gruppo di scolari indisciplinati, per ammenda, deve fare una visita al museo cittadino. Tutto sembra noioso e banale, ma la loro affascinante quanto misteriosa guida li porta nel magazzino dove gli mostra il Libro della Vita, tomo nel quale ci sono scritte tutte le esistenze di ogni essere umano vissuto e vivente.

La storia vuole che tutto sia iniziato in un piccolo villaggio messicano dove vivevano tre bambini: Maria, Manolo e Juan…

Gutierrez e Del Toro ci portano in un mondo fantastico che ha le sue radici nelle tradizioni più antiche messicane, lì dove la vita e la morte si sfiorano e il mondo dei morti è più festoso e gioioso di quello dei vivi.

Davvero un gran bel film di animazione, con una godibilissima colonna musicale, che ci parla del senso della morte e di quello della vita. Non a caso la pellicola si chiude con la frase: “Tutti sono capaci di morire, ma loro avranno il coraggio di vivere…:”.

Da vedere.

“Gloria – Una notte d’estate” di John Cassavetes

(USA, 1980)

A partire dai fantastici titoli di testa, questa è una delle più belle pellicole del cinema americano indipendente, firmata e diretta dal suo maestro indiscusso John Cassavetes.

In una fatiscente palazzina del Bronx, la famiglia di un piccolo contabile della criminalità organizzata è sotto assedio. L’uomo, in un momento di follia e pensando davvero di cavarsela, ha sottratto un libro mastro.

Prima che i sicari del suo capo vengano a sterminare tutta la famiglia del contabile, la giovane moglie del ragioniere fa appena in tempo a portare dalla loro vicina Gloria (una bellissima e bravissima Gena Rowlands) il loro figlio minore Phil (John Adames).

Gloria, un’avvenente donna di mezz’età, è un ex ballerina che ha avuto una storia con uno dei boss della città, e forse per questo è riuscita a mettersi un piccolo gruzzolo da parte. Il piccolo Phil arriva proprio mentre lei si sta preparando a ritirarsi per godersi i soldi risparmiati.

Le basterebbe una telefonata per consegnare il bambino e andarsene via più ricca, visto che il contabile lavorava proprio per il suo ex. Ma l’animo umano è pieno di contraddizioni, e la sua natura è spesso indomabile, così per salvare la vita al piccolo Phil, a cui lei non sta neanche simpatica, Gloria sfida la criminalità di un’intera città…

Leone d’Oro come miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia, mentre Gena Rowlands (compagna di vita di Cassavetes), giustamente colleziona la candidatura all’Oscar e al Golden Globe come migliore attrice protagonista.

Le similitudini con il “Leon” di Luc Besson non sono casuali, soprattutto perché il cineasta francese è un dichiarato amante del cinema americano. Nel 1997 Sidney Lumet gira il remake con Sharon Stone nel ruolo della protagonista.

“E’ ricca, la sposo e l’ammazzo” di Elaine May

(USA, 1970)

Elaine May è una delle autrici e sceneggiatrici più importanti della sua generazione, candidata all’Oscar, fra l’altro, per “Il paradiso può attendere” diretto da Warren Beatty.

Ma la sua carriera inizia già negli anni Cinquanta accanto a Mike Nichols (che poi dirigerà i debutti di alcune delle commedie più famose di Neil Simon e film come “Il laureato”, “Conoscenza carnale” e “Una donna in carriera”) con il quale crea un duo cabarettistico di enorme successo a Broadway prima e in tutti gli Stati Uniti poi.

Alla fine degli anni Sessanta approda al cinema prima come attrice e poi anche come regista e sceneggiatrice, riscuotendo un successo planetario con questo film.

Henry Graham (un Walter Matthau in grandissima forma) è uno scapolo viziato e sprecone che, con la sua mania del lusso sfrenato, ha scialacquato tutto il sostanzioso patrimonio lasciatogli dal padre.

Senza più un soldo e pieno di debiti, a parte il suicidio, non gli rimane che cercare una ricca ereditiera che gli consenta di mantenere il suo stile di vita. Per mantenere le apparenze però, deve chiedere un prestito a suo zio che una volta gli ha fatto da tutore, il quale gli concede solo cinque settimane: poi sarà la rovina totale.

Il carattere egocentrico e viziato di Henry però non gli permette di accettare nessun compromesso e la situazione sembra senza speranza. Ma quando mancano pochi giorni alla scadenza, ad un té in uno dei soliti e ricchi salotti, incontra la candidata perfetta: Enrichetta Lowell (la stessa bravissima Elaine May), unica erede di un ingente patrimonio, senza parenti e con la sola passione per la botanica, materia che insegna all’università.

L’illimitata ingenuità di Enrichetta la renderà facile preda di Henry che la convincerà a sposarlo entro i limiti della data imposta dallo zio. Al ritorno del viaggio di nozze Henry prenderà possesso della tenuta Lowell preda, fino a quel momento, di una lunga serie di parassiti.

Tutto procede secondo i piani e Henry si prepara a realizzare la parte finale del suo piano: rimanere vedevo. Ma l’amore e la botanica avranno la meglio…

Deliziosa commedia, ironica e sensibile, che ci regala un Walter Matthau d’annata, grazie anche allo strepitoso doppiaggio di Gianrico Tedeschi.

Da vedere e rivedere.

“Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold

(USA, 1954)

Questo è uno dei classici del cinema, uno di quei film che hanno fatto la storia. Non sarà certo un capolavoro diretto da uno dei maestri della macchina da presa, ma è uno di quei film che da oltre sessant’anni, ininterrottamente, incide sull’immaginario collettivo.

Sulle sponde di un piccolo defluente del Rio delle Amazzoni la spedizione guidata dal Dott. Maia (Antonio Moreno), un paleontologo di fama internazionale, trova un fossile inquietante che sembra l’arto di un essere a metà fra un uomo e un pesce.

Maia porta il reperto all’istituto oceanografico dove lavora la coppia di scienziati David Reed (Richard Carlson) e Kay Lawrence (Julie Adams, che grazie a questa interpretazione diverrà un’icona del cinema di fantascienza anni Cinquanta). La scoperta è clamorosa e grazie al finanziamento di Mark Williams (Richard Denning) in pochissimo tempo si organizza una nuova spedizione per cercare il resto del fossile.

Quando il gruppo torna sul luogo della scoperta, trova i due collaboratori di Maia, rimasti al campo, brutalmente uccisi. Nonostante la tragedia, che tutti imputano a qualche animale selvaggio, cominciano gli scavi che però non danno alcun esito. L’ultima possibilità è quella di seguire il flusso del piccolo corso d’acqua che termina in una laguna.

Il comandante dell’imbarcazione presa a nolo da Williams, il volitivo capitano Lucas (Nestor Paiva) asserisce che gli indigeni chiamano quel misterioso specchio d’acqua la Laguna Nera, ed è un luogo molto pericoloso visto che nessuno è mai tornato indietro dopo averla visitata.

Ma le superstizioni non spaventano gli scienziati che decidono di stabilircisi e studiare i fondali. E proprio fra inquietanti alghe e oscuri scogli si nasconde il mostro, erede diretto della creatura diventata fossile, anello di congiunzione fra la vita subacquea e quella terrestre che, come la sua laguna, è rimasto intatto nonostante il passare dei millenni, assiemi a tutti i suoi istinti…

Girato in formato 3D, più che all’avanguardia per l’epoca, “Il mostro della laguna nera” ha fatto scuola a intere generazioni di cineasti. Basta pensare, per esempio, alle riprese subacquee che dal basso verso l’altro inquadrano la bella Julie Adams che, ignara del pericolo, nuota sulla superficie della laguna, così come nuoteranno vent’anni dopo – e soprattutto verranno riprese – le vittime de “Lo squalo” di Steven Spielberg.

Molte leggende girano intorno a questa pellicola – per esempio il vero colore della maschera del mostro o la sua originale ideazione – ma quello che conta è che visto ancora oggi mantiene intatto tutto il suo fascino.

“Una strana coppia di suoceri” di Arthur Hiller

(USA, 1979)

Ci sono commedie leggere che rimangono indimenticabili, anche senza sviscerare temi o situazioni da prima pagina. E questa scritta da Andrew Bergman (autore del soggetto e coautore della sceneggiatura di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” di Mel Brooks) e diretta da Arthur Hiller (regista artigiano di film come “Love Story”, “Un provinciale a New York” e “Non guardarmi: non ti sento”) alla fine degli anni Settanta è un esilarante esempio.

Il razionalissimo, e forse un po’ nevrotico, dentista Sheldon Kornpett (una fantastico Alan Arkin) ha tutto sotto controllo nella vita. Il suo lavoro, il suo studio e soprattutto la sua vita privata fatta dalla moglie Carol e dalla sua unica figlia Barbara, che frequenta i college più esclusivi.

I problemi arrivano quando la sua “bambina” decide di sposarsi con Tommy Ricardo, un compagno di studi. Infatti, l’incontro tra futuri consuoceri lascia tremendamente perplesso Sheldon, visto che il padre di Tommy, Vince (un altrettanto fantastico Peter Falk) è un tipo molto strano, che racconta cose molto strane.

Il giorno dopo Vince piomba nello studio del dentista e gli chiede di seguirlo solo per un paio di minuti, ha bisogno del suo aiuto per risolvere un piccolo problema logistico.

Il povero Sheldon, a causa di Vince, finirà inseguito dai Federali, e nel bel mezzo di un complotto internazionale…

Fra mille gag e battute divertenti, quello che è ancora oggi irresistibile è lo scontro fra i due protagonisti, il calmo ma mai domo Vince, e il nevrotico e incredulo Sheldon.

Questo soprattutto grazie ai veri talenti dei due protagonisti, attori di gran classe. Se Alan Arkin ha vinto l’Oscar nel 2007, come miglior attore non protagonista nei panni del nonno tossicodipendente in “Little Miss Sunshine”, giusto riconoscimento a una lunga carriera fatta soprattutto di pellicole di qualità; è inspiegabile invece perché Peter Falk non ne abbia mai vinto uno.

Per la chicca: nel 2003 Andrew Fleming gira il remake dal titolo in italiano “Matrimonio impossibile” (quello originale rimane lo stesso) con Michael Douglas nei panni del personaggio interpretato da Falk, e Albert Brooks in quelli di Arkin.

“Café Society” di Woody Allen

(USA, 2016)

L’anima triste e malinconica di Woody Allen appare in ogni sua pellicola, dalla più tragica o drammatica, a quella più esilarante. In questa, che non è esattamente né l’una e né l’altra, Allen ci racconta – come accade spesso – della vita e dei suoi momenti più intensi che troppo spesso passano veloci.

Alla fine degli anni Trenta il giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg), ultimo di tre fratelli di una piccola famiglia ebrea newyorchese, decide di cambiare la sua vita raggiungendo il fratello della madre, Phil Stern (Steve Carell) noto agente di spettacolo a Hollywood.

La vita a Los Angeles non è facile come Bobby credeva, e l’unica vera nota positiva è Veronica (Kristen Stewart) una delle segretarie dello zio, incaricata di fargli vedere e conoscere la capitale del cinema planetario.

Ma la vita non è sempre semplice, e così Bobby deciderà di tornare a New York e aiutare suo fratello Ben (Corey Stoll) che, grazie alla sua carriera di gangster, è diventato proprietario di un night club. Ma…

Splendida riflessione nostalgica sulla vita, sulla giovinezza e sull’amore del maestro Woody Allen. Con scenografie, costumi e fotografia – curata da Vittorio Storaro – da Oscar.