“L’uomo che fuggì dal futuro” di George Lucas

(USA, 1971/2004)

C’è una particolare teoria che aleggia fra alcuni cinefili assai chic che asserisce che lo strepitoso e imperituro successo di “Guerre Stellari”, se è vero che da una parte ci ha regalato un universo fantastico e inesauribile – di cui io sono un fan sfegatato – dall’altra ci ha privato di un grande cineasta come George Lucas.

Perché di fatto il problematico rapporto fra Luke Skywalker e suo padre Anakin (e adesso dite che la saga più famosa del cinema non si può sintetizzare anche così…) che ha incantato e continua a incantare generazioni su generazioni, sembra aver soffocato il genio del suo autore.

E’ vero che dopo “Guerre Stellari” Lucas ha scritto pellicole di clamoroso successo come quelle con Indiana Jones per esempio, ma è vero anche che dietro la macchina da presa c’è tornato solo per girare i tre prequel della saga, che continuano a prendere in giro (giustamente) anche in “The Big Bang Theory”.

Per tagliare la testa al toro, allora, basta guardare questo “L’uomo che fuggì dal futuro” esordio dietro la MDP del giovane Lucas, prodotto da Francis Ford Coppola, basato su una idea originale di Lucas e sceneggiato assieme a Walter Murch, fra i più importanti maghi del montaggio di Hollywood, e vincitore tra l’altro di due premi Oscar proprio come montatore per “Apocalypse Now” e “Il paziente inglese”.

Il titolo originale è “THX 1138” che è il nome del suo protagonista (impersonato da un bravissimo Robert Duvall, oltre che la sigla del sistema di qualità audiovisiva che Lucas brevetterà qualche anno dopo) che nel XXV secolo vive in un futuro dispotico e claustrofobico, dove non esistono privacy e intimità, ma tutto è dettato da leggi ferree atte apparentemente a rendere la vita semplice e poco faticosa, ma che in realtà avallano il controllo totale di ogni individuo. Ma…

Grande film visionario che contiene ottime e suggestive sequenze, nonostante sia stato girato a basso costo. Anche la versione del 2004 Director’s Cut rispetta questa filosofia, e gli interventi di computer grafica fatti da Lucas sono mirati non tanto a rendere più spettacolare il film, ma a realizzare alcuni particolari che nel 1971 non riuscì a fare a causa della tecnologia sperimentale di allora.

Per chi ama il genere e non solo. 

Per la chicca: Woody Allen, e dico Woody Allen, ne gira una strepitosa parodia nel 1974 e la chiama “Il dormiglione“, con i poliziotti vestiti uguali e come protagonista il povero Miles Monroe proprietario del ristorante vegetariano “Il sedano allegro”…

“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo

(REA Edizioni, 1923/2013)

Su questo capolavoro indiscusso della letteratura mondiale si è detto e, fortunatamente, si continua a dire tanto. Non sono certo uno dei massimi esperti mondiali dell’opera di Italo Svevo (al secolo Aron Hector Schmitz), ma voglio parlare lo stesso, da semplice lettore, di un paio di cose che ogni volta che rileggo la vita di Zeno mi lasciano stupefatto e incantato.

Zeno Cosini, che sfiora i 100 anni, visto che il romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1923, rispecchia da tutto questo tempo, e in maniera netta ed efficace come solo pochi altri personaggi letterari, il vero italiano borghese.

Nell’Italia volitiva, che era appena entrata nel Ventennio, Zeno Cosini era lo stereotipo del cittadino passivo e vigliacco che il potere derideva e biasimava, ma senza la cui passività – e questo certo quel potere lo sapeva bene – non sarebbe mai riuscito a prendere il comando.

Ma Cosini va oltre, è anche l’italiano che sarà alla base della società che si formerà nel secondo dopoguerra per forgiare quell’Italia che dritta dritta, fra Boom e Nuovo Miracolo Italiano, arriverà fra le nostre stanche braccia.

E ancora oggi Zeno Cosini è un membro di prestigio della nostra società del nuovo Millennio, democratico e progressista ma ben attento ai suoi privilegi economici che giudica indiscutibili, guarda i talk o i talent e manda i suoi figli a studiare all’estero, magari è anche vegetariano e sostenitore della medicina omeopatica, ma continua a fumare come un ossesso.

Il secondo elemento straordinario di questo grande romanzo, non dissociato al primo, sono le straordinarie capacità anticipatrici dei tempi del suo autore. Oltre a raccontarci come sarà l’uomo del Novecento che smette di guardare fuori – così come facevano i Veristi, per esempio – e ribalta le proprie pupille per guardare dentro se stesso, nella conclusione del libro Svevo ha l’intuizione profetica di quel baratro sul quale il mondo sarà sospeso per il resto del secolo: l’olocausto atomico.

Penso sia giusto ricordare, infine, che un’opera del genere venne totalmente ignorata dalla critica italica del tempo – fatta evidentemente di menti che fortunatamente non hanno nulla a che vedere con quelle geniali che oggi tengono alta la bandiera della nostra critica letteraria… – ma trovò apprezzamento solo all’estero dove l’insegnate di inglese e amico dell’autore, James Joyce, lo portò per farlo leggere.

Siamo tutti Zeno Cosini!

“Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)” di Alejandro González Iñárritu

(USA, 2014)

Di teatro al cinema ne abbiamo visto tanto. Non sono pochi, infatti, i film che raccontato che c’è, e cosa si consuma dietro il palcoscenico. Ma spesso di tanta pellicola non sappiamo che farne.

Non sono molti infatti i film belli sul teatro, sia commedie che drammatici, che lasciano il segno come “Servo di scena” o “Rumori fuori scena”. A questa non così lunga lista deve essere aggiunto “Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)” del regista messicano Alejandro González Iñárritu, già autore fra gli altri di pellicole come “Amores perros” o ”21 grammi”, e trionfatore agli ultimi Oscar col film “Revenant-Redivivo” con cui ha vinto il suo secondo e consecutivo Oscar come miglior regista.

“Birdman” ci racconta la pesante ingerenza di Hollywood su Broadway, di come i grandi incassi e i film spettacolari incidano direttamente sulla vita e, soprattutto, sull’arte di attori che spesso proprio da Broadway partono per raggiungere l’Eldorado del cinema, nel quale poi però rimangono impantani a vita non riuscendo più a tornare indietro.

Per questo González Iñárritu sceglie tutti attori – bravissimi, è giusto ricordarlo – che a Hollywood hanno girato film su supereroi: Michael Keaton è stato il Batman di Tim Burton, Edward Norton ha impersonato Hulk, Emma Stone è stata la fidanzata dell’Uomo Ragno, e Naomi Watts la Ann Darrow del “King Kong” di Peter Jackson. Un’alchimia perfetta per raccontare come la celebrità a volte sia nemica dell’arte.

Candidato a nove statuette, ne ha portate a casa – meritatamente – quattro fra le più importanti: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia.

Da vedere.

“Latitudine Zero” di Ishiro Honda

(Giappone/USA, 1969)

E’ inutile fare troppo gli intellettuali, perché a dirigere questo visionario pamphlet è Ishiro Honda autore e regista del primo e immortale “Godzilla” girato in bianco e nero nel 1954, nonché fedele e primo collaboratore del maestro Akira Korosawa. La trama di questo film, invece, ricorda tanto “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne, ma con alcune modifiche assai politicamente corrette.

Durante un’esplorazione subacquea, un giapponese, un francese e un americano (sembra proprio una barzelletta lo so, ma il fascino del trash è anche questo) rischiano di rimanere vittime dell’eruzione di un vulcano sottomarino.

A salvarli è l’Alpha, uno strabiliante sottomarino ideato e comandato da Glen MacKenzie (un Joseph Cotten ormai al tramonto delle sua carriera, la cui pettinatura stona non poco con gli strabilianti e psichedelici costumi di scena) membro di rilievo di Latitudine Zero, un mondo sommerso, creato grazie al genio di numerosi scienziati di fama mondiale, in cui ognuno vive in armonia col prossimo, e che possiede tecniche e invenzioni che sulla superficie sembrano inverosimili.

Ma sulle tracce dell’Alpha c’è lo Squalo Nero, altro sofisticato e micidiale sottomarino, che non appartiene a Latitudine Zero ma alla flotta del famigerato dottor Malic (un Cesar Romero con un sorriso diabolico a 64 denti uguale a quello che usava per fare Joker nel fantastico Batman televisivo), che da oltre un secolo cerca di conquistare il globo, ma che trova in MacKenzie il suo ultimo e insormontabile ostacolo… sì, sì, da oltre un secolo…

Con una trama ingarbugliata come la dichiarazione dei redditi di un neofita, “Latitudine Zero” è un filmaccio trash da non perdere, soprattutto per gli improbabili costumi – quelli di Cotten, come detto, sono i più stonati in assoluto – le scenografie, ma soprattutto per gli effetti speciali artigianali e per questo strepitosi!

“Grisù il draghetto” di Nino e Toni Pagot

(Italia, 1975)

Sono uscite in dvd già da qualche tempo le avventure del piccolo Grisù, il draghetto che sogna di fare il pompiere. Amo incondizionatamente il piccolo drago che vuole combattere la sua natura fiammeggiante perché mi ricorda troppo la mia infanzia, parte della quale ho passato abbondantemente davanti alla tv.

Ma voglio parlare oggi di Grisù perché nonostante gli anni è sempre un cartone animato delizioso. Con le produzioni del maestro Bruno Bozzetto, quelle dei Pagot (che poi collaboreranno anche con Miyazaki) rappresentano l’apice della nostra animazione che purtroppo negli ultimi decenni è andata calando, sia in quantità che in qualità.

Ideato da Toni e Nino Pagot – che poi scriveranno la serie insieme a Marco e Gi Pagot – il sogno di Grisù è ancora attuale e divertente, con il suo rapporto d’amore ma anche di conflitto col padre, l’ortodosso drago Fumè – conflitto indiscutibilmente segno dell’epoca – così come le “raccomandazioni” di Sir Cedric e Lady Rowena che fanno di tutto pur di consolare il piccolo draghetto dal dolore che gli provoca l’impossibilità di realizzare il suo sogno.

Da vedere, senza fiammiferi nelle vicinanze…

“C’era una volta” di Francesco Rosi

(Italia, 1967)

Matteo Garrone non è stato il primo grande cineasta italiano a trarre un film dall’opera immortale di Giambattista Basile “Lu cunto de li cunti”, infatti nel 1967 il grande Francesco Rosi dirige “C’era una volta” ispirandosi ad alcune delle novelle del Basile e scrivendo la sceneggiatura assieme a Tonino Guerra, Giuseppe Patroni Griffi e Raffaele La Capria.

Durante l’occupazione borbonica, la sguattera Isabella (una splendida e sensualissima Sophia Loren, forse all’apice dellla sua straripante bellezza) si invaghisce del principe Rodrigo Fernandez (Omar Sharif), giovane viziato e scapestrato parente del Re.

Alla popolana non rimane altro che rivolgersi alle forze sovrannaturali che allora, fortunatamente, ancora regnavano nei boschi e negli antri più oscuri. Ma la magia potrebbe non bastare…

Oltre all’intramontabile bellezza della Loren, questo bel film – voluto direttamente da Carlo Ponti – deve essere rivisto per la sua grande forza visiva grazie a una fotografia spettacolare e ai luoghi scelti per le riprese: il Tavoliere delle Puglie, la Certosa di Padula e Matera, e ci ricorda soprattutto quanto grande è stato il nostro cinema.

“Elling” di Petter Næss

(Norvegia/Svezia, 2001)

Tratto dalla quadrilogia dello scrittore norvegese Ingvar Ambjørnsen, e soprattutto dal suo “Brødre i blodet” pubblicato nel 1996, “Elling” ci racconta la storia del minuto quarantenne – che porta lo stesso nome del film – che ha passato i suoi primi quarant’anni di vita chiuso in casa assieme alla madre a dir poco possessiva.

Il giorno che questa muore, i servizi sociali a causa delle sue numerose fobie lo internano in un istituto per il recupero mentale. Lì Elling (un bravissimo Per Christian Ellefsen) dividerà la stanza con il gigantesco Kjell, vittima di abusi che lo hanno portato a soffrire di fobie legate soprattutto alle donne e al sesso.

Le cure e la convivenza hanno effetto, e dopo due anni in istituto i due vengono dimessi. A loro è assegnato un piccolo appartamento nel centro di Oslo dove dovranno cominciare a vivere per davvero.

Se all’inizio i problemi più banali sembrano insormontabili, la loro purezza e sincerità li aiuterà non poco. Kjell riuscirà finalmente a riappacificarsi col sesso femminile, mentre Elling diventerà il “poeta clandestino dei crauti”…

Deliziosa commedia sui diversi e sulla loro natura pura e incontaminata, che molto spesso riesce a salvare quella bella intossicata dei cosiddetti “normali”.

Da vedere e far vedere nelle scuole.

Il film ottiene la nomination all’Oscar come Miglior Film Straniero nel 2002.      

“L’assedio” di Bernardo Bertolucci

 (Italia/UK, 1998)

Girato nel vero appartamento in cui Gabriele D’Annunzio scrisse “Il piacere”, con l’ingresso in via del Bottino e le finestre sulla scalinata di Trinità dei Monti, “L’assedio” di Bernardo Bertolucci ci racconta del rapporto tra Shandurai (una brava Thandie Newton, che poi parteciperà al bellissimo “Crash – Contatto fisico” di Paul Haggis) e Mr Kinski (David Thewlis, che diventerà famoso impersonando Remus Lupin nella saga di Harry Potter) il padrone della casa in cui lei lavora come domestica, che nella vita ama soprattutto suonare il suo grande pianoforte a coda.

Fra i due le cose sono molto formali fino a quando Kinski non le rivela di essere profondamente innamorato di lei, arrivando a chiedere di sposarlo. Shandurai ha una reazione dura: lei ha già un marito, che però è detenuto nel suo Paese africano d’origine per motivi politici, e se davvero la ama lo faccia liberare.

E Kinski, educatamente, si tira indietro. Ma l’amore prende strade e pieghe inaspettate…

Tratto dal racconto di James Lasdun, “L’assedio” ci illumina la fantasia con delle immagini che solo Bernardo Bertolucci – e davvero pochi altri al mondo – riescono a regalarci, come per esempio la sequenza iniziale da studiare nelle scuole di cinema.

I dialoghi sono al minimo, questa volta non servono, sono le immagini che ci raccontano esattamente le emozioni e i sentimenti. Un capolavoro visivo di un maestro del cinema.

Per la chicca: compagno di studi di Shandurai è un giovane ma già bravo Claudio Santamaria.

“Porco Rosso” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 1992)

L’amore del maestro Hayao Miyazaki per il nostro Paese traspare quasi in ogni sua pellicola, ma è in questa – e anche in “Si alza il vento”, sempre dedicato al mondo dell’aeronautica – che trova il suo apice.

A partire dal nome del protagonista Marco Pagot/Porco Rosso che è un dichiarato riferimento a Nino e Toni Pagot, grandi disegnatori italiani (creatori di Calimero, per esempio) i cui figli Marco e Gina collaboreranno con lo stesso Miyazaki nella produzione italo/giapponese “Il fiuto di Sherlock Holmes”.

Ma non solo, il film è ambientato nell’Italia fascista degli anni Venti, con un regime totalitario repressivo che guarda benevolo alla prossima guerra incombente, e che vede in Porco Rosso un dissidente, e quindi un uomo pericoloso da mettere subito sotto chiave. Ma il mestiere di cacciatore di taglie di pirati dell’aria di Porco Rosso, lo rende indipendente e molto difficile da catturare…

Fra sortilegi, tristi ricordi, panorami mozzafiato e piccole ma eterne storie d’amore, il maestro Miyazaki ci porta fra le nuvole dei suoi sogni raccontandoci la storia di un pilota il cui rammarico per essere l’unico sopravvissuto del suo stormo – caduto durante la Grande Guerra, dramma dal quale lui ne è uscito con l’aspetto di un maiale antropomorfo – lo ha portato ad auto eleggersi un reietto della società.

Solo Madame Gina (ancora un omaggio ai Pagot), amica d’infanzia e da sempre innamorata di lui, lo aspetta ostinatamente nel giardino della sua splendida villa.

E’ vero che per sognare non c’è bisogno di ali, ma queste del maestro Miyazaki ci portano davvero in alto.

Da vedere e rivedere.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti

(Italia, 2015)

Be’ gente, il cinema italiano non è morto!

Nei giorni in cui Gianfranco Rosi trionfa a Berlino, l’immenso Ennio Morricone vince il suo primo meritatissimo Oscar (quello alla carriera sapeva tanto di contentino), esce nelle sale italiane questo straordinario film di Gabriele Mainetti.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” ci strilla che la cultura cinematografica italiana non è morta. Che c’è chi è capace di fondere sapientemente quel pazzo geniale di Quentin Tarantino al poeta delle periferie che era Pier Paolo Pasolini.

Ci può essere un’altra via alle solite commedie nostrane che ormai con quelle grandi “all’italiana” hanno in comune solo il nome. E possiamo fare di meglio che scimmiottare il cinema straniero con psicodrammi da telenovelas.

Già con i suoi cortometraggi Mainetti ci aveva raccontato la contaminazione della televisione giapponese nel subproletariato urbano, ma con questo film il passo è più lungo. Jeeg Robot stavolta è una figura secondaria, quello che conta sono gli esseri umani che riescono a non dimenticare di essere tali.

Complimenti a Gabriele Mainetti che lo ha diretto, a Nicola Guaglianone che l’ha scritto, e Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli che lo interpretano magistralmente. Tutti molto bravi e anche coraggiosi.

Chiudo con una simpatica considerazione: scommetto che se a quelli – molto pochi, ne sono convinto – che non apprezzeranno il film, venisse rivelato che in realtà Gabriele Mainetti è lo pseudonimo di un cineasta esordiente coreano o americano, il 99% di questi griderebbe al miracolo cinematografico del decennio …poracci!