“L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel

(USA, 1956)

Il 5 febbraio del 1956 usciva nelle sale americane “L’invasione degli ultracorpi” diretto dal grande Don Siegel. Girato a basso costo, il film di Siegel è oggi uno dei più grandi cult della storia del cinema – e non solo quello di fantascienza – che vanta numerosi remake.

Tratto dall’omonimo romanzo di Jack Finney – mentre la sceneggiatura è firmata da Daniel Mainwaring e, i non accreditati, Sam Peckinpah e Walter Wagner – “L’invasione degli ultracorpi” ci racconta l’incubo che vive il Dottor Miles J. Bennell (Kevin McCarthy, che rimarrà indelebilmente legato a questo ruolo, e a quello del professor Walter Jameson nell’episodio “Lunga vita a Walter Jameson”, 24esimo della prima serie storica del grandioso “Ai confini della realtà” andata in onda a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta) quando si accorge che Santa Maria, la piccola cittadina in cui vive, è invasa da una forma perfida e subdola di extraterrestri capaci di sostituirsi agli esseri umani quando questi dormono, prendendone poi le perfette sembianze.

A causa del limitatissimo budget, il film non contiene quasi effetti speciali, se non quelli per far ingrandire o spostare i famigerati baccelloni. Cosa che ancora oggi ci sottolinea la grande arte di Siegel che riesce comunque a spaventarci attraverso colpi di scena e atmosfere cupe e claustrofobiche.

Ma chi sono gli extraterrestri che nel sonno prendono il posto dei nostri cari, agendo poi con una freddezza glaciale e senza sentimenti? Per rispondere non possiamo dimenticare gli anni in cui il film arrivò in sala, anni di piena Guerra Fredda in cui “il terrore rosso” echeggiava negli Stati Uniti come una minaccia inesorabile.

Anche se Siegel ha sempre negato questo esplicito riferimento, la paura del Comunismo invadeva negli anni Cinquanta ogni campo della cultura e della vita quotidiana degli USA, e la freddezza degli alieni che non hanno sentimenti e li porta ad agire come automi, smentisce il regista.

Per la chicca: nel primo remake ufficiale della pellicola – “Totò nella Luna” diretto da Steno nel 1958 con i suoi “cosoni” è solo una (riuscita) parodia – che Philip Kaufman dirige nel 1978 e che si intitola “Terrore dallo spazio profondo”, il grande Don Siegel appare in un piccolo cameo come tassista “collaborazionista” degli alieni.

Da vedere.

“Pioggia di ricordi” di Isao Takahata

(Giappone, 1991)

Questo splendido film del maestro Isao Takahata (autore fra gli altri del sublime “La storia della principessa splendente”) risale addirittura a venticinque anni fa, ma potrebbe essere uscito tranquillamente nelle sale solo la scorsa settimana.

1982, Taeko è una ragazza di 27 anni che lavora alacremente come impiegata in una grande azienda di Tokyo. Single, decide di trascorrere le due settimane di vacanze che le spettano in campagna, ospite della famiglia del fratello di suo cognato – il marito di una delle sue sorelle maggiori – dedita alla coltivazione del cartamo, fiore basico per la creazioni di cosmetici tradizionali.

Alla stazione viene a prenderla Toshio, un cugino del cognato, che aveva visto prima solo un paio di volte. Il duro lavoro nei campi e l’ambiente sereno della campagna portano Taeko a riflettere sulla sua vita frenetica nella città in cui è spesso schiacciata dal lavoro impiegatizio, ma soprattutto a ricordare momenti salienti, spesso felici e a volte tristi, della sua infanzia, confrontandosi anche con Toshio.

Alla fine della vacanza Taeko sarà costretta a fare i conti con la parte dei sogni che aveva da bambina e che non ha potuto o voluto realizzare. Alla stazione – in una bellissima ed emozionante scena finale – Taeko farà la sua scelta…

Per la sua trama insolita per i tempi, “Pioggia d ricordi”, prodotto dallo studio Ghibli, è considerato – giustamente – la pellicola spartiacque degli anime, aprendo un filone intimista e dedicato interamente alla donne che prima era impensabile per un film d’animazione.

Per palati fini e romantici.

“Sono nata il ventitré” di Teresa Mannino e Giovanna Donini

E’ inutile che ci giriamo intorno, la comicità teatrale o cabarettistica è, soprattutto nel nostro Paese, quasi sempre al maschile.

Abbiamo avuto grandi attrici comiche (Monica Vitti su tutte) questo non si discute, ma erano grandi attrici dirette da grandi registi che recitavano testi o sceneggiature di grandi scrittori, soprattutto uomini.

E la figura del comico nudo e crudo è stata sempre tutta al maschile. Fatta eccezione, nel recente passato, per la grande Anna Marchesini. Teresa Mannino oggi, con il suo “Sono nata il ventitré” – scritto insieme a Giovanna Donini ci dimostra che – finalmente! – nel nostro Paese il teatro comico e di cabaret è diventato anche al femminile.

Quasi due ore sul palcoscenico senza interruzioni, e senza mai cadere nel banale o nel volgare ammiccante (che non vuol dire non parlare di sesso).

Una bella (e divertente) notizia per la nostra cultura.