“Belfagor – Il fantasma del Louvre” di Claude Barma

(Francia, 1965)

Approdato sulla nostra televisione oltre un anno dopo la sua messa in onda in Francia, che raccolse un successo di spettatori senza precedenti, “Belfagor – Il fantasma del Louvre” segnò indelebilmente anche l’immaginario degli spettatori italiani.

Tratto dal romanzo scritto da Arthur Bernède nel 1925, e riadattato per la televisione da Claude Barma, “Belfagor” ci porta nel ventre esoterico e misterioso del Louvre dove una notte un guardiano è assalito da una figura misteriosa…

Ma la trama oggi non è la cosa più interessante, quello che ancora affascina dopo mezzo secolo sono le atmosfere e gli ambienti di una Parigi notturna che forse già allora non esisteva già più.

Da ricordare le interpretazioni della fascinosa Juliette Greco e del membro della Comédie-Française René Dary, nei panni dell’ispettore Ménardier. Nell’edizione che possiedo ci sono i dialoghi originali in francese che la censura della nostra televisione – considerandoli troppo …libertini – tagliò non doppiandoli, e che ce la dicono tutta sul nostro costume di allora.

Per la chicca: fra le voci italiane di fondo c’è quella bella e ben riconoscibile di Gigi Proietti.

“Vittime di guerra” di Brian De Palma

(USA, 1989)

Questo film ricostruisce uno dei più tragici episodi che hanno caratterizzato il conflitto statunitense in Vietnam.

Nel 1966 una pattuglia di soldati americani, nei pressi di un villaggio nella giungla, è vittima di un’imboscata dei Viet Cong.

Nello scontro a fuoco uno dei soldati perisce, e quando gli assalitori si ritirato il sergente Tony Meserve (uno Sean Pean in stato di grazia) decide di entrare nel villaggio e, per rappresaglia, appoggiato dal caporale Clark, rapisce una giovanissima ragazza che diventerà il loro oggetto di piacere sessuale per tutta la missione.

L’unico ad avere il coraggio di opporsi è il soldato Sven Eriksson (un bravo Michael J. Fox) che si rifiuta di toccare la ragazza tentando, inutilmente, di proteggerla.

Anche gli altri due soldati sembrano restii ad abusare della giovane, ma alla fine la ferocia di Meserve li convincerà ad assecondarlo. Dopo alcuni giorni di stupri quotidiani, la pattuglia si ritrova in un nuovo scontro a fuoco e Meserve ne approfitta per uccidere la ragazza, così che nessuno possa raccontare le vicenda.

Ma la coscienza di Eriksson gli impedisce di tacere e, contro anche il parere dei suoi superiori, denuncia ufficialmente l’accaduto. Questo gli costerà la carriera militare, il rispetto dei colleghi e buona parte della vita privata.

E allora chi sono le vittime del titolo? …Tutti.

De Palma ce lo dice benissimo: in guerra perdono tutti.

Perde la povera e innocente giovane vietnamita, così come perde l’onesto soldato Ericksson. Ma perdono anche gli altri due soldati che non hanno avuto la forza di opporsi, così come perdono Clark e Meserve (a cui poi verranno ridotte sensibilmente le pene dopo vari ricorsi) che sono stati costretti a scambiare per sempre la loro umanità con un odio sfrenato e insaziabile.

Purtroppo questa pellicola, così bella e allo stesso tempo così dura, naufragò al botteghino segnando uno dei flop più clamorosi della stagione.

In molti diedero la colpa al suo protagonista Michael J. Fox considerato inadatto al ruolo (allora era fresco reduce della trilogia di “Ritorno al futuro”). Ma io, personalmente, non condivido: quello che allora non piacque, probabilmente, fu il doversi confrontare con un argomento tanto doloroso.

Ma non basta guardare da un’altra parte per evitare i problemi visto che noi oggi, volenti o nolenti, con le vittime di guerra i conti ce li dobbiamo sempre fare.

Da vedere.

“Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman

(USA, 1975)

Il 19 novembre del 1975 si tiene a Los Angeles la prima di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman, uno dei soli tre film nella storia a vincere – ad oggi – i cinque Oscar principali: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore e miglior attrice non protagonista (gli altri due sono “Accadde una notte” di Frank Capra e “Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme).

Con una delle cattive più famose del cinema (paragonabile anche a Lord Darth Fenner, e lo dico da padawan sfegatato) l’infermiera Mildred Ratched, interpretata da una bravissima Louise Fletcher – che vincerà meritatamente l’Oscar, rimanendo poi troppo legata a questo ruolo nell’immaginario del pubblico, che stenterà poi ad apprezzarla in altri differenti pellicole – “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è il primo grande film di successo planetario ad affrontate apertamente il dramma delle malattie mentali e degli istituti in cui vengono ospitati i malati.

Il primo film a parlare dello stesso argomento è in realtà “Gli esclusi” che John Cassavetes dirige nel 1963, ambientato in un ospedale per bambini con gravi disturbi del comportamento, pellicola però che ebbe gravi problemi di produzione e di fatto troppo all’avanguardia per i tempi.

Come per “Il Padrino” – in cui il ruolo di Michael Corleone era stato pensato per Warren Beatty che invece clamorosamente rifiutò costringendo la produzione a “ripiegare” (l’ho messo apposta fra virgolette!) su Al Pacino – per questo film la produzione aveva da subito pensato a James Caan che invece declinò l’offerta, lasciando libera la parte di Randle Patrick McMurphy che Jack Nicholson renderà immortale.

Inoltre, questo film consacrerà la figura di Michael Douglas come giovane e intelligente produttore cinematografico. E’ proprio a lui si deve la partecipazione alla pellicola del giovane e sconosciuto Danny DeVito, che per anni aveva condiviso appartamento e vita da scapolo con il giovane e allora scapestrato Michael.

Per la chicca, ci togliamo subito il problema del titolo in italiano.

Quello originale – di cui il nostro è la fin troppo la letterale traduzione – si rifà direttamente al titolo del romanzo da cui è ispirato. Infatti, l’azione del film si svolge nel 1963, anno successivo alla pubblicazione del romanzo di Ken Kesey, che lo aveva scritto basandosi sulle proprie esperienze come volontario nell’ospedale dei veterani di Melno Park, in California.

Ma, già durante la stesura della sceneggiatura, fra Kesey, Milos Forman, Bo Goldman e Lawrence Hauben – questi ultimi due autori finali dello script – nacquero profonde e incolmabili fratture, tanto da portare Kesey a non voler mai vedere il film finito.

Fra tali contrasti c’è probabilmente la totale cancellazione dal plot della filastrocca che cita appunto il nido del cuculo – che nello slang comune americano è uno dei molti modi per chiamare un manicomio – che invece nel libro ha una ben precisa ricorrenza.

Nonostante questo la produzione, vincolata dal contratto di cessione dei diritti e dal successo americano del romanzo di Kesey che era diventato un simbolo della nuova generazione (ma che da noi venne pubblicato solo nel 1976 grazie al successo del film) non toccò il titolo.

E le menti illuminate dei nostri distributori, per non saper né leggere e né scrivere (si fa per dire!) lo lasciarono così…

Metafora anche del conflitto generazionale che allora infuocava la società, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è sempre un esempio di grande cinema impegnato che ancora emoziona, con la sua scena finale che sfido chiunque a rivedere senza commuoversi.

“Millennium Actress” di Satoshi Kon

(Giappone, 2001)

Attenzione, non vi fate fregare da vostri pregiudizi sui film d’animazione, qui parliamo di un grandissimo film, del puro e raro “cinema nel cinema” di alta qualità.

“Millennium Actress” – e mi assumo serenamente tutta la responsabilità! – di Satoshi Kon è un film che sicuramente sarebbe piaciuto al grande Francois Truffaut e che non sfigura accanto al suo capolavoro “Effetto notte”.

Il responsabile di un’emittente televisiva giapponese decide di realizzare uno speciale su Chiyoko Fujiwara, famosissima attrice cinematografica della metà del Novecento, che adesso, settantenne, vive una vita riservata insieme alla sua governante.

Nel corso dell’intervista Chiyoko rievoca, catapultandoci dentro il suo intervistatore e persino il cameramen, i fatti salienti della sua carriera legati inesorabilmente a quelli della sua vita privata che è ruotata attorno all’amore della sua vita: un giovane pittore sovversivo che lei per una notte ha nascosto e del quale non ha mai saputo il nome. L’unica cosa che lui le ha lasciato è stata una piccola chiave, la cui corrispettiva serratura lei ha sempre cercato…

Dov’è la linea di demarcazione fra la vita e il set per una grande e famosa attrice cinematografica? …Satoshi Kon – scomparso troppo presto – ce lo racconta molto bene e con una eleganza e uno stile da grande autore.

Una lezione di cinema a tutti gli effetti.

Da vedere.

“I giganti uccidono” di Fielder Cook

(USA, 1956)

Ho scovato e visto questa vecchia pellicola perché la sceneggiatura è firmata dal grande Rod Serling e, come tutte le sue opere, merita di essere ricordata.

Già il titolo originale la dice lunga (“Patterns” che letteralmente sarebbe “Modelli” e/o “Motivi”), siamo a metà degli anni Cinquanta e le grandi società americane – che di lì a breve diventeranno le grandi multinazionali che conosciamo – sono in mano alla seconda generazione di “padroni”.

Sono i figli di coloro che le hanno fondate dal nulla. I nuovi padroni hanno studiato e viaggiato e gestiscono le aziende, il mercato e la sua finanza con un approccio nuovo che non è più quello dei padri che conoscevano il nome di battesimo di tutti i propri dipendenti, adesso i sottoposti sono solo dei numeri che servono al bilancio in sede di vendita o di fallimento.

Il giovane ingegnere Fred Staples (Van Heflin) responsabile di una piccola fabbrica di provincia viene chiamato nella sede centrale della Ramsey Ltd come nuovo dirigente.

A volerlo è stato direttamente il presidente della grande società Ramsey Jr in persona, dopo averlo visto al lavoro in una sua visita.

Ma Staples scoprirà presto che il presidente lo vuole sì per le sue capacità, ma anche per spingere l’anziano vice presidente William Briggs (un sempre bravo Ed Begley) alle dimissioni.

Briggs, infatti, è nella società fin dalla sua fondazione dove era il braccio destro del vecchio Ramsey, e adesso non si trova più in sintonia col figlio che giudica troppo spregiudicato e senza scrupoli, non mancando di farglielo presente in ogni consiglio d’amministrazione…

Da godere fino all’ultima scena, in cui si consuma lo scontro fra Staples e Ramsey jr, che ce la dice lunga sui principi dell’economia e dell’industria americana, e che si conclude alla Serling: in maniera del tutto imprevedibile.

“Paprika – Sognando un sogno” di Satoshi Kon

(Giappone, 2006)

In un futuro molto prossimo un’importante azienda tecnologica giapponese ha realizzato la DC-Mini, uno strumento medico che permette di entrare nei sogni di persone che hanno subito un grave trauma, accelerando il loro recupero con apposite terapie psichiatriche.

Atsuko Chiba è una dottoressa che lavora con la DC-Mini e da qualche tempo ha iniziato a usare la nuova tecnologia anche fuori i severi ambiti aziendali, per aiutare chi ne ha bisogno, dietro le sembianze del suo avatar Paprika.

Quando delle DC-Mini improvvisamente spariscono, alcune persone cominciano a dare segni di instabilità fino a diventare vere e proprie bambole impazzite. Paprika cercherà di capire chi c’è dietro e perché…

Uno dei migliori anime degli ultimi anni, con sequenze inquietanti come solo alcuni incubi possono esserlo.

In molti paragonano questo film a “Inception” (2010) di Christopher Nolan, ma a mio parere l’opera di Satoshi Kon – tratta dal romanzo di Yasutaka Tsutsui – è ancora più visionaria di quella del regista inglese.

Satoshi Kon – autore degli splendidi “Tokyo Godfathers” e “Millennuim Actrss” – è scomparso prematuramente il 24 agosto del 2010 dopo una breve ma implacabile malattia.

Per cogliere al meglio il suo elegante ma discreto genio basta leggere il suo ultimo post, pubblicato postumo sul suo sito: “Pieno di gratitudine per tutto ciò che di buono c’è nel mondo, poso la mia penna. Con permesso. Satoshi Kon”.

“I banditi del tempo” di Terry Gilliam

(UK, 1981)

Scritto dallo stesso Terry Gilliam insieme all’altro Monty Phyton Micheal Palin – che compare in un paio di camei assieme a Shelley Duvall – “I banditi del tempo” è uno dei film più riusciti del regista più visionario degli ultimi tempi.

Kevin, un solitario undicenne che vive con i suoi genitori succubi della televisione e della tecnologia, si trova suo malgrado coinvolto nelle peripezie che Fidgit, Strutter, Og, Wally, Vermin e Randall, sei nani che hanno rubato la mappa dell’universo all’Essere Supremo e, approfittando di alcuni buchi temporali, cercano ogni occasione per arricchirsi.

E’ inutile aggiungere altro alla trama che diventerà sempre più complicata a favore della parte visiva e onirica, che Gilliam ama più di tutto. Bisogna lasciarsi trasportare nel film e godersi fino all’ultimo fotogramma.

Prodotto da George Harrison, che collabora anche alla colonna sonora, “I banditi del tempo” vede un cast stellare con, tra gli altri, Sean Connery, Ian Holm, John Cleese, Jim Broadbent e Ralph Richardson nel ruolo dell’Essere Supremo.

Imperdibile, soprattutto per i suoi effetti speciali fatti nel 1981 quasi tutti “a mano”.