“Requiem For A Dream” di Darren Aronofsky

(USA, 2000)

Tratto dal romanzo omonimo e cult, scritto nel 1978 da Hubert Selby Jr., “Requiem For A Dream” ci racconta l’ascesa agli inferi di quattro tossicodipendenti, Harry (un bravissimo Jared Leto), il suo amico Tyrone (Marlon Wayans), la sua ragazza Marion (una bellissima e fragile Jennifer Connelly) e sua madre Sara, interpretata da Ellen Burstyn, che per l’interpretazione ottiene la candidatura all’Oscar come migliore attrice protagonista.

Sei i primi tre vengono inesorabilmente divorati dall’eroina Sara, invece, ingenuamente cade nella morsa delle anfetamine con la colpevole e micidiale complicità di una televisione aggressiva e letale.

Darren Aronofsky (che poi vincerà il Leone d’Oro per il suo “The Wrestler”, e dirigerà film come “Il cigno nero” e “Noah”) attraverso l’uso claustrofobico dello split screen e dettagli splatter ci da un bel pugno nello stomaco, togliendoci ogni speranza.

Bello e tosto come pochi.

Per la chicca: l’autore del romanzo e della sceneggiatura Hubert Selby Jr, appare in un cameo, nei panni di un secondino razzista che sorveglia Tyrone ai lavori forzati, mentre il regista Aronofsky veste i panni di un componente del pubblico dello show televisivo che ossessiona Sara.

“Il seggio vacante” di J.K. Rowling

(Salani, 2012)

Splendido, duro e doloroso come l’adolescenza.

Con questo suo primo romanzo post Harry Potter, Joanne (Kathleen) Rowling conferma al mondo – e a quei pochi bacchettoni che ancora avevano dubbi – di essere una delle più grandi scrittrici degli ultimi decenni.

Questo suo viaggio nella bella e inquietante provincia inglese, e soprattutto nell’adolescenza, ci porta dentro case e villette in cui si respira l’inferno, da quelle trasandate e scrostate dei quartieri popolari, a quelle ordinate ed eleganti dei quartieri più ricchi.

J.K. Rowling non ci nasconde niente, né le feroci dinamiche dei rapporti fra compagni di scuola, né quelle tra genitori e figli.

Un grande ritratto di umanità che lascia il segno, così come i capolavori dei grandi autori del passato, paragonabile ad esempio a “La bottega dell’antiquario” dell’immenso Charles Dickens.

La BBC ha prodotto una miniserie tratta dal libro andata in onda la scorsa stagione e che speriamo di vedere presto anche da noi.

“Quando c’era Marnie” di Hiromasa Yonebayashi

(Giappone, 2014)

E’ passato fugacemente per le sale italiane “Quando c’era Marnie” di Hiromasa Yonebayashi (già regista di “Arietty – Il mondo segreto sotto il pavimento” e stretto collaboratore del maestro Miyazaki), prodotto dallo Studio Ghibli che ha già annunciato – sob! – la momentanea chiusura a causa del flop commerciale de “La storia della principessa splendente” e del ritiro dello stesso Miyazaki.

Tratto dall’omonimo libro della scrittrice britannica Joan Gale Robinson, edito nel 1967, e fra i 50 libri che più hanno influenzato l’opera di Hayao Miyazaki, “Quando c’era Marnie” ci racconta la difficile adolescenza della tredicenne Anna, rimasta orfana a tre anni e per questo adottata.

Sulla sua strada incontrerà, tra sogno e realtà, una coetanea con un fascino e una dolcezza particolari, a cui si sentirà profondamente legata…

Un’opera delicata e struggente che, come tutti i film dello studio Ghibli, merita senz’altro di essere vista.

“4 mosche di velluto grigio” di Dario Argento

(Italia/Francia, 1971)

Sul maestro Dario Argento è stato detto e scritto molto, e io che non amo affatto gli horror o gli splatter, soprattutto nelle sue prime cinque pellicole, lo considero comunque uno dei più grandi registi italiani (e non solo) di tutti i tempi.

Per questo meglio di tanti saggi e manuali per aspiranti sceneggiatori, è opportuno rivedere “4 mosche di velluto grigio” per capire come si scrive e realizza un film dal meccanismo perfetto.

Se “Profondo Rosso” – almeno per me – rappresenta l’apice del genio di Argento (oltre ad essere uno dei capolavori della cinematografia mondiale) “4 mosche di velluto grigio” è sempre un gran bel film.

A partire dalla sequenza dei titoli di testa con il ritmo calzante della batteria in parallelo alla lotta di Roberto Tobias (Michael Brandon) con la zanzara che alla fine riesce a schiacciare con i piatti – lotta che ricorda quella del perfido Snaky (l’indimenticabile Jack Elman) nel mitico “C’era una volta il West” del grande Sergio Leone, e scritta qualche anno prima proprio dallo stesso Argento – per arrivare fino alla sequenza finale girata a 18.000 fotogrammi per secondo.

Guardandolo si capisce che grande cinefilo è Dario Argento, che sceglie di chiamare la via in cui abita Tobias (che nella realtà è nel quartiere romano dell’Eur) “F. Lang”, in omaggio al grande cineasta tedesco, maestro dell’espressionismo cinematografico tanto amato dal regista, che lo richiamerà ancora più chiaramente in “Suspiria” del 1977 inserendo, fra l’altro, nel cast Joan Bennett, attrice legata sentimentalmente per anni allo stesso Fritz Lang.

Davvero un gran film.

“Il segno del comando” di Daniele D’Anza

(Italia, 1971)

Qui parliamo di uno sceneggiato che ha fatto la storia della televisione italiana e del nostro costume.

Scritto da Giuseppe D’Agata, Flaminio Bollini, Dante Guardamagna e Lucio Mandarà “Il segno del comando” ci racconta l’inquietante soggiorno romano di Lancelot Edward Forster (uno scintillante Ugo Pagliai in piena forma) professore di Letteratura Inglese a Cambridge, invitato nella città eterna per parlare del suo principale oggetto di studi: Lord Byron.

Ad attirare Forster a Roma è anche una lettera con la fotografia di una piazza citata in alcuni versi di Byron, firmata dal pittore Marco Tagliaferri (e non dico altro!).

Ma quando Forster si reca in via Margutta 33, dove risiede il pittore, ad aprirgli la porta è un’avvenente ragazza, Lucia (una affascinantissima Carla Gravina) che lo invita a incontrate Tagliaferri la sera stessa in un’osteria.

Recatosi all’ambasciata inglese, Forster incontra George Powell (un Massimo Girotti che richiama gagliardamente James Bond), addetto culturale della rappresentanza britannica a Roma e organizzatore della conferenza su Byron.

Quello che accadrà dopo lungo le altre quattro puntante dello sceneggiato – per quelli che non lo hanno mai guardato – non lo rivelo perché “Il segno del comando” merita di essere visto e rivisto.

Con le sue atmosfere misteriose e originali per i tempi, i suoi dialoghi dilatati che si alternano a scene frenetiche e zoomate violente, l’indimenticabile sigla “Cento campane”, e con quella magia che solo le immagini girate in studio e soprattutto in bianco e nero sapevano dare, lo sceneggiato di D’Anza è un grande documento storico della nostra cultura recente, così lontano e così vicino.

“Il ponte di San Luis Rey” di Thorton Wilder

(Mondadori)

Anche se la prima pubblicazione di questo romanzo risale al 1927, ancora oggi mantiene integra la sua forza narrativa grazie a un profondo e affascinante ritratto dei suoi protagonisti.

Nel 1714 il Perù, sotto il dominio spagnolo, è sconvolto dal crollo tanto improvviso quanto inaspettato del ponte secolare di San Luis Rey che, nel collassare, ha portato con sé le cinque persone che lo stavano attraversando.

Ma chi erano queste cinque persone? Quale vicissitudini li hanno portati su quel ponte proprio nel momento del suo crollo?

Il religioso Fra Ginepro, che suo malgrado ha assistito alla tragedia, decide di ripercorrere le vite delle vittime per tentare di comprendere il disegno Divino, con una amara scoperta finale…

Splendido romanzo vincitore del Premio Pulitzer, che apre una riflessione profonda sul senso della vita e sul rapporto di questa con la spiritualità e la religione.

Incredibile come da noi sia stato dimenticato, tanto da non far uscire sui nostri schermi la sua riduzione cinematografica firmata da Mary McGuckian nel 2004, con un cast di tutto rispetto fra cui spiccano Robert De Niro, F. Murray Abraham, Kathy Bates, Gabriel Byrne, Harvey Keitel e Geraldine Chaplin.

La versione per il grande schermo del 1944, invece, è inguardabile visto che lo scritto di Wilder viene snaturato e deturpato per misere esigenze commerciali.