“La vera storia di Jack lo squartatore” di Albert e Allen Hughes

(USA, 2001)

E’ una delle pellicole più gotiche che amo (paragonabile, per esempio, al grande “Dracula” di Francis Ford Coppola), anche perché rivela quello che i documenti secretati per quasi un secolo, una volta pubblicati, hanno permesso di ricostruire sui terrificanti omicidi che sconvolsero Londra nel 1888, creando di fatto nell’immaginario comune l’idea del primo sanguinoso serial killer.

I fratelli Hughes (che poi firmeranno il post-catastrofico e sfizioso “Codice: Genesi” del 2010) ricreano in studio un’inquietante e fascinosa Londra oscura e cupa, teatro ideale per i delitti più truci.

Per fermare la strage di giovani prostitute viene chiamato l’ispettore Frederick Abberline (un gotico quanto fascinoso pure lui Johnny Depp) che in breve tempo intuisce il vero movente “politico” degli omicidi…

Con scene cruenti che lasciano poco all’immaginazione, e una splendida e rossa Heather Graham, “La vera storia di Jack lo squartatore” (ispirato al fumetto “From Hell” firmato da Alan Moore e Eddie Campbell) ci regala due ore di puri brividi farciti da una storia d’amore struggente.

Da vedere, anche da dietro le dita della mano che mettiamo per coprire gli occhi…

“Lo svitato” di Carlo Lizzani

(Italia, 1956)

La carriera cinematografica del Premio Nobel Dario Fo in realtà non è paragonabile a quella teatrale, ma questa commedia surreale e grottesca merita di essere vista.

Prima di tutto perché è uno dei primi e più limpidi documenti storici che ci racconta bene l’atmosfera fremente che si respirava nel nostro Paese mentre stava esplodendo il Boom, ritraendo poi una fantastica – in senso lato – Milano (ancora lontana da quella “da bere” arrogante e presuntuosa degli anni Ottanta) divisa fra cantieri di grattacieli in costruzione, borgate e scorci ottocenteschi.

E poi c’è Dario Fo, che già possiede tutti i suoi caratteri da giullare, e una splendida e fascinosa Franca Rame.

Anche se la storia forse non è così determinante, quello che conta sono alcune scene e gag strepitose, la critica feroce alla stampa scandalistica – che allora aveva il posto che occupa oggi la nostra TV – e lo spirito che anima i suoi protagonisti, sia quelli positivi che quelli negativi.

Purtroppo però, l’accoglienza della critica e del pubblico (ancora non del tutto pronti al genio innovatore e di rottura del suo protagonista) fu molto tiepida e la collaborazione fra Dario Fo e Carlo Lizzani non ebbe seguito.

Ma almeno “Lo svitato” ce lo possiamo rivedere ogni volta che vogliamo!

“La famiglia Bélier” di Eric Lartigau

(Francia/Belgio, 2014)

Cominciamo col dire che vedendo questo film delizioso mi sono commosso. Ognuno ha le sue corde personali è chiaro, ma è impossibile non emozionarsi per questa pellicola dedicata alla diversità.

La famiglia Bélier vive nella campagna francese gestendo una fattoria. Rodolphe e Gigi Bélier hanno due figli adolescenti: Paula (la bravissima Louane Emera) e Quentin.

La cosa non sarebbe poi così particolare se non fosse che tre quarti della famiglia è sordomuta. Infatti, l’unica a sentire e parlare dei Bélier è Paula che, oltre ad affrontare la sua dura adolescenza, deve occuparsi anche della parte materiale della fattoria, soprattutto quella “verbale” come trattare con fornitori e clienti.

Le cose prendono una piega inaspettata quando Paula, casualmente, scopre di avere un dono: una voce da cantante sublime…

Scritta dallo stesso Lartigau insieme a Victoria Bedos, Thomas Bidegain e Stanislas Carré de Malberg, questa commedia ci ricorda come la diversità, molto spesso, dipende da chi guarda.

Se tutto il cast merita un plauso, due li merita Louane Emera, reduce dall’edizione del 2010 del “The Voice” transalpino (allora i talent davvero servono a qualcosa…) che è indiscutibilmente molto brava.

Chiudo con un’ombra di tristezza, perché non posso fare a meno di pensare che anche noi italiani eravamo capaci di fare film del genere: a basso costo e alta emozione.

Sembra proprio però che da noi ormai la disabilità, al cinema, possa essere affrontata solo con toni drammatici e/o autolesionisti, perché alla fine fa pure un po’ …“figo”.

“La regola del gioco” di Jean Renoir

(Francia, 1939)

Se esistono molti film dell’epoca che ci descrivono la società europea – fra aristocrazia e proletariato – che si confronta dolorosamente con Seconda Guerra Mondiale e con il tragico immediato dopo guerra, non sono molti quelli che ce la raccontano alle soglie dell’abisso.

Ma da solo, “La regola del gioco” del maestro Jean Renoir girato nel 1939, potrebbe bastare.

Ispirato all’opera “I capricci di Marianna” di Alfred de Musset, questo affresco di umanità, che si ritrova in una aristocratica villa di campagna in una cupa estate francese, ci descrive fin troppo bene la decadenza morale e culturale del bel mondo che, complice viziato e passivo, permetterà senza battere ciglio l’avvento della catastrofe, che a pagare saranno alla fine sempre gli stessi: i ceti più poveri e deboli della società.

Come tutte le grandi opere premonitrici e anticipatrici dei tempi (mi riferisco per esempio a “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello o a “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo) “La regola del gioco” venne accolto alla sua uscita con rabbia e insulti.

Lo stesso Renoir raccontò che alla prima uno spettatore, nelle sue vicinanze, diede fuoco ad un giornale per poi tentare di incendiare il cinema.

Da rivedere a intervalli regolari.

“Brachetti che sorpresa!” di Arturo Brachetti

Grazie al cielo esiste un intero universo teatrale (e non solo!) splendido e geniale che non passa in televisione!

Con questo nuovo spettacolo Arturo Brachetti, (ahimè) più famoso e glorificato all’estero che in Italia, si dimostra ancora una volta un gigante del teatro mondiale.

Oltre ad essere il più grande trasformista vivente (dite quello che vi pare, ma io sono stato tutta la sera INUTILMENTE a tentare di capire i suoi trucchi…) ci porta – per quasi due ore e senza interruzioni – nel suo mondo fantastico e magico, dove ci si perde in maniera sublime.

Ma il genio dell’artista torinese non si limita a questo e così, guardando avanti, porta sul palco quattro giovani artisti dotati di uno straordinario genio comico e magico quasi quanto il suo: Luca Bono, Francesco Scimeni, Kevin Michael Moore e il duo Luca&Tino.

Aspettatevi di tutto …anche di vedere il pubblico dal palco.

IMPERDIBILE!

25 anni dalla morte di Aldo Fabrizi

Il 2 aprile del 1990 scompariva Aldo Fabrizi a Roma, nella stessa città dove era nato nel 1905.

La grande vena artistica di Fabrizi esplose in giovanissima età, ma l’indigenza della sua famiglia lo costrinse ad adattarsi a fare tutti i lavori più umili per mantenere madre e sorelle.

Il primo riconoscimento del suo genio arriva nel 1928 con la pubblicazione di “Lucciche ar sole”, una raccolta di poesie in dialetto romano.

Qualche anno dopo arriva anche l’esordio sul palcoscenico come macchiettista, sul quale era salito per la prima volta per recitare le proprie opere. Le sue enormi capacità istrioniche e il grande senso del comico lo portano quasi subito ad avere successo.

Nel 1942 esordisce al cinema con “Avanti c’è posto” di Mario Bonnard con il quale collabora anche alla sceneggiatura, così come accadrà per quasi tutti i film in cui reciterà negli anni successivi.

Come quando nel 1945 interpreta don Pappagallo in “Roma Città Aperta” di Roberto Rossellini, al quale impone il suo giovane e semi sconosciuto battutista Federico Fellini, come coautore alla sceneggiatura.

Nel 1948 arriva un nuovo esordio: dietro la macchina da presa con “Emigrantes”, girato in occasione di una turné teatrale nel sud America.

Da attore simbolo del Neorealismo, col passare degli anni, Aldo Fabrizi comincia a diventare un emblema della grande commedia all’Italiana.

I titoli sono numerosi, ma fra i più amati e rappresentativi non si possono non ricordare “La famiglia Passaguai” (da lui stesso diretto nel 1951), “Guardie e ladri” (1951) di Mario Monicelli, “Hanno rubato un tram” (sempre da lui diretto nel 1954), “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) di Mauro Bolognini, e “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” (1960) di Mario Mattoli.

Nel 1974 partecipa a quello che, oltre a essere un capolavoro della cinematografia mondiale, è considerato il canto del cigno della grande Commedia all’Italiana: “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola.

Parallelamente alla carriera cinematografica, Fabrizi prosegue quella teatrale nella quale spicca il suo Mastro Titta nel pluripremiato “Rugantino” di Garinei e Giovannini del 1962.

Ma Fabrizi è anche fra i pionieri della sua generazione in televisione, dove partecipa a trasmissioni di sempre maggior successo fino ai suoi mitici sketch nel varietà del sabato sera “Speciale per noi” (1969) di Antonello Falqui.

A un quarto di secolo dalla sua scomparsa, Aldo Fabrizi merita di essere ricordato come uno dei grandi artisti italiani del Novecento, e non solo come straordinario attore comico.

I volumi da lui pubblicati, molti dei quali dedicati alla gastronomia, ci testimoniano la grande versatilità del suo genio. Chi lo ha frequentato personalmente (fu grande e intimo amico dell’immenso Totò) lo ha sempre ricordato come un uomo dal carattere duro ed estremamente esigente, a volte persino arrogante.

Proprio questa sua indole difficile, e soprattutto la sua dichiarata simpatia verso l’allora destra nostalgica italiana (partecipò in prima fila all’esequie di Giorgio Almirante) contribuirono a oscurare la sua arte negli anni successivi alla morte.

Lungi da me entrare nel merito di una discussione politica, visto che poi non l’ho mai pensata come Fabrizi, ma è un dato di fatto che una certa cultura “fighetta” e radical chic degli anni Novanta lo ha indiscutibilmente gettato nel dimenticatoio per le sue idee politiche.

Allora semmai dovremmo aprire un dibattito su come e se le idee politiche e i comportamenti personali di un artista (che come Fabrizi seppe anche farsi gioco degli aspetti più risibili di quel mondo a cui poi era politicamente legato come in “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” e “Gerarchi si muore”) debbano essere considerati rispetto alla sua arte: ma entreremmo in un ambito davvero difficile da circoscrivere che io, sinceramente, proprio non ho voglia di affrontare qui.

Quello che so è che ogni volta che c’è un film o uno sketch con Fabrizi (lo sciatore o lo scolaro su tutti), anche se lo conosco a memoria, lo rivedo sempre sghignazzando di gusto.