“The Universe of Keith Haring” di Christina Clausen

(Italia/Francia, 2008)

Con questo bellissimo documentario diretto da Christina Clausen ripercorriamo l’intensa, ma troppo breve, vita del grande artista di strada Keith Haring.

Nato in una piccola cittadina della Pennsylvania nel maggio del 1958, vista la sua grande propensione al disegno e alle arti in generale, Keith si trasferisce appena ventenne a New York iscrivendosi alla Scuola delle Arti Figurative.

La Grande Mela in quegli anni sta diventando il centro del mondo per molti ambiti della cultura e della società, e così il giovane Haring entra in contatto con quelli che di lì a breve diverranno – come lui – artisti di fama mondiale.

Ma sono gli stessi anni in cui la comunità gay newyorchese è travolta dalla tragedia dell’AIDS, che stroncherà il giovane e ormai immortale Keith Haring il 16 febbraio 1990 a soli 31 anni, lo stesso che qualche anno prima era stato fra i primi personaggi famosi a parlare pubblicamente della sua malattia.

Ma oltre a ciò, questo documentario ci descrive al meglio il genio di Haring e la sua infinita voglia di donare a tutti la sua irripetibile arte – basta buttare un occhio sul sito della sua fondazione dedicato all’incontro fra l’arte e i bambini, che contiene anche percorsi dettagliati per gli insegnati delle scuole primarie – cosa che faceva storcere non poco il naso ai galleristi.

“The Normal Heart” di Ryan Murphy

(USA, 2014)

Questo intenso film per la televisione – scritto da Larry Kramer, diretto da Ryan Murphy e prodotto dalla HBO – ci riporta nella comunità gay di New York del 1981, nel momento in cui apparvero i primi casi del cosiddetto “cancro dei gay”.

La storia ci dice tragicamente che quella misteriosa malattia poco dopo sarebbe stata chiamata con un acronimo che avrebbe segnato tragicamente e moralmente la vita di tutti: AIDS.

Ma il film affronta anche la tragedia morale, oltre che quella fisica, della comunità omosessuale newyorchese che a partire da quell’anno, in pochissimo tempo, venne quasi dimezzata; dei vani e disperati tentativi di questa di coinvolgere le istituzioni per avere finanziamenti per assistere i malati – che non potevano far altro che diventare terminali – e per fare ricerca e prevenzione.

Ma siccome l’AIDS venne considerata per anni esclusivamente una “malattia dei froci” (termine osceno, indegno e tremendamente volgare ma che io, allora appena adolescente, ricordo di uso fin troppo comune) negli Stati Uniti nessuno si mosse, a partire dalla Casa Bianca, dove risiedeva Ronald Reagan.

Solo nel 1986, dopo che vennero riconosciuti numerosi casi anche fra gli eterosessuali, il Presidente Reagan la menzionò in un suo discorso annunciando fondi per la ricerca.

Da ricordare le interpretazioni di Mark Ruffalo – nel ruolo dell’attivista gay Ned Weeks -, Julia Roberts – in quello della dottoressa Brookner, che fu la prima ad accogliere nel suo reparto i sieropositivi – e quella di Jim Parsons.

Da vedere e da far vedere soprattutto a chi, povero stolto, ha ancora medievali problemi con se stesso e si nasconde dietro l’omofobia.

“Unico indizio la luna piena” di Daniel Attias

(USA, 1985)

A tutti gli effetti questo è uno dei tanti B-movie con cui passavano le sarete del sabato sera molti adolescenti degli anni Ottanta come me.

Ma a riguardarlo bene non è solo questo, perché a differenza di altri adattamenti da opere del Re, la sceneggiatura è stata scritta direttamente da Stephen King che – come lui stesso racconta nella prefazione di una recente riedizione dell’omonimo romanzo – ha avuto mano totalmente libera grazie all’acume del grande produttore Dino De Laurentiis.

Con un cast semi sconosciuto – a parte Gary Busey – e un regista al suo esordio (Daniel Attias passerà con successo alla televisione dove dirigerà, e tutt’ora dirige, episodi di serie di tutto rispetto come “Miami Vice”, “Ally McBeal”, “Party of Five”, “Buffy l’Ammazzavampiri”, “I Soprano”, “Alias”, “Lost”, “Dr. House“, “The Walking Dead”, “True Blood”, “The Americans” e “Homeland”), “Unico indizio la luna piena” mantiene al meglio l’elemento principe e originale del romanzo di King: il rapporto conflittuale fra un’adolescente e il suo fratello minore disabile, rapporto che troverà la sua soluzione nello scontro fatale col lupo mannaro.

Nonostante gli effetti speciali ormai davvero poco speciali – teste mozze di evidente cartapesta, per non parlare dell’imbarazzante costumone peloso che indossa il lupo mannaro – e un’ambientazione del 1976 che è fin troppo quella contemporanea del 1985, questo film rimane comunque affascinante.

“Il caso «Venere privata»” di Yves Boisset

(Francia/Italia, 1970)

Sono un amante delle opere di Giorgio Scerbanenco esattamente come amo quelle di Stephen King.

Oltre a questo, i due grandi scrittori hanno in comune i pochi adattamenti cinematografici dei loro scritti degni di nota.

E se King può vantare almeno vari grandi film ispirati alle sue opere, Scerbanenco invece neanche quelli visto che (escludendo “I ragazzi del massacro” di Ferdinando Di Leo e “La morte risale a ieri sera” di Duccio Tessari) tutte le trasposizioni cinematografiche delle sue opere sono irrispettose del suo grande genio letterario.

A partire da questo film, tratto dallo splendido “Venere privata” del 1966, che se in alcuni momenti sfiora le atmosfere del romanzo, manca invece totalmente i protagonisti e soprattutto la trama cruda e sottile, riducendola a quella di un semplice poliziottesco con pruriti erotici.

Perché lo metto nel Mio Trash?

Perché si apre col nudo integrale di un’avvenente Raffaella Carrà, basta?

“Gloria” di Sebastián Lelio

(Cile/Spagna, 2013)

E’ un dato di fatto che gli ottimisti – purtroppo – alla fine prendono sempre un sacco di fregature, ma nonostante questo sono parte integrante di quella linfa vitale del mondo che permette a tutti gli altri di andare avanti.

Così affronta la sua vita da sessant’enne Gloria, una divorziata con due figli adulti, che frequenta le sale da ballo per single di Santiago del Cile.

Una sera incontra un uomo, suo coetaneo e appena separato, con il quale inizia una relazione molto intensa. Ma concedere la propria fiducia a uno sconosciuto non sempre finisce per essere la cosa giusta…

Il giovane Sebastián Lelio (classe 1974) firma un delicato affresco della vita di una sessantenne che alle soglie della pensione non si arrende agli stereotipi che la vorrebbero classificata nella parte “anziana” della società, soprattutto perché ama la vita e l’amore, quello vero.

Dite quello che volete, ma la scena finale, sulle note di “Gloria” – cantata da Umberto Tozzi in spagnolo – per me è un altro grande omaggio a “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini.

Gloria ha l’aspetto e le movenze di Paulina García, considerata la “Signora” del teatro cileno, che per questa sua straordinaria interpretazione ha vinto l’Orso d’Argento al Festival di Berlino.

Nel 2018 lo stesso Lelio dirige il remake americano dal titolo “Gloria Bell” con come protagonista Julianne Moore affiancata da John Turturro.

“Oltre il giardino” di Jerzy Kosinski

(Minimum Fax, 2014)

Per chi, come me, ama il film “Oltre il giardino” di Hal Ashby col grande Peter Sellers leggere il romanzo originale poteva essere molto deludente.

Ma l’opera di Jerzy Kosinski pubblicata per la prima volta nel 1970 – che nella prima edizione italiana del 1974 venne intitolata “Presenze” – anche a distanza di oltre 40 anni conserva tutto il suo grande e graffiante potere narrativo.

Kosinski, nato in Polonia nel 1933 e naturalizzato negli USA nel 1957, oltre a ritrarre un impietoso, ironico quanto imbarazzante affresco del jet-set finanziario a stelle e strisce – che in quel momento storico era messo sotto scacco da quello sovietico – nel 1970 ha già l’intuizione profetica di come la televisione influenzi e influenzerà la società.

Chance Giardiniere, nell’arco di poche ore, diventa il più importante opinion leader del Paese affermando di non leggere i giornali ma di guardare le televisione perché si fa prima! (ovviamente nessuno sospetta che il motivo di tale scelta è legato al suo analfabetismo).

Quando poi viene invitato in TV ci si trova a suo completo agio, visto che davanti quella piccola scatola magica ci ha passato quasi tutta la vita. E proprio grazie al suo grande ascendente televisivo le menti del jet-set lo individueranno come un prossimo e vincente candidato alla Casa Bianca…

La storia ci racconta che nel 1981 alla Casa Bianca salì l’ex attore Ronald Reagan, grande e carismatico comunicatore ma sul quale, anche l’avvocato Gianni Agnelli, espresse pubblicamente forti dubbi sulle sue capacità presidenziali. E se poi pensiamo che qualche tempo dopo in Europa… ovviamente dico questo nel pieno rispetto di tutti, soprattutto di Chance Giardiniere.

“Venere in pelliccia” di Roman Polanski

(Francia/Polonia, 2013)

Una mente giovane è una mente giovane pure a 80 anni!

Il grande Roman Polanski, classe 1933, firma un’altra straordinaria pellicola.

Tratta dall’omonimo successo di Broadway di David Ives, “Venere in pelliccia” ci racconta la particolarissima audizione di una appariscente, rozza e distratta attrice (una brava quanto sensuale Emmanuelle Seigner in Polanski) per il ruolo di Vanda, la protagonista di una commedia tratta dal romanzo erotico dell’austriaco Leopold von Sacher-Masoch, dal cui cognome nacque il termine “masochismo”.

Autore dell’adattamento e regista è Thomas (un bravissimo Mathieu Amalric) che non ha la minima intenzione di perdere tempo con l’ultima venuta così goffa e volgare, ma quando questa inizia a recitare…

Non è mai stato facile portare il teatro al cinema e, infatti, solo i grandi maestri riescono a farlo, e Polanski lo fa pure come se fosse la cosa più semplice del mondo.

“Mr. Mercedes” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2014)

E’ inutile borbottare, il Re è sempre il Re!

E anche in quest’ultima sua opera, che forse non ti inchioda alla poltrona come altre, esce fuori il grande scrittore che è.

King ci racconta un’anomala caccia a un serial killer – che indossa una maschera da …clown – da parte di un poliziotto in pensione, Bill Hodges, sovrappeso e in totale solitudine. Il killer, una volta fatta franca, sfiderà apertamente Bill tentando di distruggerlo emotivamente.

Ma sulla strada dell’ex poliziotto capitano l’adolescente e volitivo Jerome Robinson e Holly Gibney, cugina di una delle vittime del killer che, nonostante le sue grandi e profonde insicurezze di donna sola e schiacciata dalla figura materna, decide di aiutarlo.

Ma come sempre, in tutti i grandi romanzi del Re, i mostri che fanno più paura, quelli implacabili e senza pietà, sono quelli presi dalla vita reale e non dalla fantasia.

E poi, far ammazzare barbaramente dei disoccupati che hanno appena passato la notte in fila per sperare di trovare un posto di lavoro, oltre ad essere un tragico segno dei tempi, è la firma di un grande narratore.

Da leggere …naturalmente.