“Sherlock” di Mark Gatiss, Steven Moffat e Steve Thompson

(USA/UK, dal 2010)

A quasi 130 anni dalla sua nascita, il mito di Sherlock Holmes è sempre più vivo e affascinante.

Il personaggio creato da Sir Arthur Conan Doyle continua ad avere numerose riedizioni e adattamenti, soprattutto televisivi, e fra questi la serie prodotta dalla BBC “Sherlock”, che adatta ad oggi sia i due protagonisti, Holmes e Watson, che i loro casi intricati.

Se “Elementary”, che nasce nel 2012, introduce la rivoluzione copernicana di fare del Dottor Watson una donna, “Sherlock” invece mantiene il carattere dei personaggi e le loro debolezze fedeli a quelle create da Conan Doyle.

Bisogna anche sottolineare che le due serie hanno un formato del tutto diverso: quella inglese ha un carattere classico da sceneggiato o film per la tv, mentre quella americana dura cinquanta minuti e ha una cadenza settimanale.

Comunque, io che sono un appassionato di Sherlock Holmes, gongolo nel passare da una serie all’altra. Due bei prodotti simili ma poi non così tanto, davvero ben confezionati.

“La Cosa” di John Carpenter

(USA, 1982)

Quel gran genio della off-Hollywood di John Carpenter firma uno dei capolavori indiscussi del cinema horror di tutti i tempi.

Remake de “La cosa di un altro mondo”, diretto nel 1951 ufficialmente da Christian Nyby ma sotto la supervisione – come riportano le cronache del tempo – del grande Howard Hawks e tratto dal racconto di John W. Campbell Jr., film che come molti altri del suo tempo usa la metafora della fantascienza per ossessionare gli americani con il terrore “rosso”.

Ma Carpenter, anche se nel 1982 la Guerra Fredda non era affatto finita, la lascia da parte per concentrarsi sulla psicologia dei protagonisti, chiusi e costretti in un ambiente ostile, con la terrificante consapevolezza che il mostro può assumere le sembianze di ognuno di loro. Sequenze ed effetti speciali da brividi, e colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone.

Per la chicca: John Carpenter appare in una fotografia dentro la base norvegese, proprio alla Hitchcock…

“Leoni per agnelli” di Robert Redford

(USA, 2007)

Grande manifesto contro la guerra firmato da Robert Redford con una coppia stellare che duetta da brividi come Maryl Streep e Tom Cruise.

Rispettivamente nel ruolo di una giornalista famosa e indipendente che intervista un giovane e rampante senatore a favore dell’intervento bellico in Iraq.

E la domanda è: esiste ancora il grande giornalismo davvero libero e indipendente?

Con questo film le tre grandi stelle di Hollywood si schierarono palesemente contro l’amministrazione di George W. Bush che continuava a mandare soldati – sia uomini che donne ovviamente – al fronte.

Un enigmatico e nebuloso fronte non ben definito, che inghiotte vite come un pozzo senza fondo.

Qui sul titolo, che su due piedi può sembrare assurdo, non è “merito” dei nostri grandi distributori, ma è la traduzione netta di quello originale “Lions for Lambs”, che si riferisce ad una frase scritta, durante la Prima Guerra Mondiale, nel diario di un alto ufficiale tedesco in relazione alle truppe inglesi: ”Mai visti combattere tanti leoni comandati da tanti agnelli”.

Da far vedere a scuola.

“Highlander – L’ultimo immortale” di Russell Mulcahy

(UK, 1986)

Ci sono molti motivi per rivedere questo film – la cui reputazione con il passare degli anni è stata purtroppo “infangata” da imbarazzanti quanto inspiegabili sequel – ma su tutti brillano l’originalità della storia, la spettacolare regia di Russell Mulcahy – con cambio scene e sequenze ancora oggi scopiazzate – e la colonna sonora firmata dai Queen.

Che poi un francese (Christophe Lambert) faccia uno scozzese, e uno scozzese (Sean Connery) faccia uno spagnolo è un altro discorso…

Ma la strana coppia funziona, e pure bene, e il film rimane avvincente fino all’ultimo nonostante gli anni passati dalla sua realizzazione.

Merito, riconosciamoglielo, anche del cattivo incarnato da Clancy Brown, la cui spietatezza è paragonabile solo a quella del capitano Hadley, che lo stesso Brown interpreta qualche anno dopo ne “Le ali della libertà”.

…Immortale…

“Rent” di Chris Columbus

(USA, 2005)

Chris Columbus firma l’adattamento cinematografico del famoso musical scritto da Jonathan Larson, grande successo di pubblico e critica a Broadway dal 1996.

L’idea nacque agli inizi degli anni Novanta, e partiva da una sorta di rilettura de “La Bohème” di Giacomo Puccini, ambientata nella New York fine anni Ottanta.

Ma nella “grande mela” bohèmien del 1989 dominano due grandi flagelli: l’eroina e l’AIDS, argomenti allora tabù sui palcoscenici ma che invece Larson inserisce in “Rent” senza ipocrisie, assieme all’omosessualità e soprattutto all’omofobia.

Il suo musical in breve tempo diventa il manifesto di una generazione e di un’epoca, grazie anche alle musiche immortali, sempre firmate da Larson.

Ma lo stesso autore non potrà godere neanche di un applauso per la sua opera: la mattina del 25 gennaio 1996, poche ore dopo che si era conclusa l’ultima prova generale, e a poche dalla prima, Jonathan Larson muore per un aneurisma celebrale a soli 36 anni.

La vita a volte è inquietante: sorte simile – oltre incredibilmente al cognome… – a quella di Stieg Larsson scomparso pochi mesi prima che uscisse il suo “Uomini che odiano le donne”, uno dei maggiori successi editoriali planetari degli ultimi anni.

Anche se non amo troppo gli adattamenti cinematografici di musical (“Grease” è l’eccezione che conferma la regola), questo firmato da Columbus – e prodotto anche da Robert De Niro – è godibile fino all’ultimo fotogramma grazie a un cast davvero all’altezza, fra cui spicca la bellissima Rosario Dawson.

Strepitosa e splendida la canzone d’apertura “Seasons of Love”: da ascoltare la mattina come sveglia per iniziare bene la giornata.

“Carlito’s Way” di Brian De Palma

(USA, 1993)

Questo è uno dei film più struggenti e romantici di Brian De Palma, con un Al Pacino in stato di grazia, che ci regala uno dei personaggi immortali del cinema degli ultimi decenni.

1975: dopo cinque anni di carcere, Carlito Brigante esce per un vizio di forma ed evita così di scontare gli altri venticinque anni che gli spettavano.

Torna in quello che era il suo regno, la strada in cui lui era il re dello spaccio. Ma le cose sono cambiate e Carlito sa bene di essere cinque anni più vecchio, il che vuol dire un’eternità.

Non intende tornare nel giro, sa che gli sarebbe fatale, e così ha un solo obiettivo: rilevare un noleggio auto alle Bahamas e godersi al sole il resto della vita in pace. Ma, parafrasando John Lennon: la vita è quello che ti capita mentre fai altri progetti…

Nel cast anche un grandissimo Sean Penn e una brava Penelope Ann Miller, ma soprattutto una strepitosa ambientazione, con relativa stellare colonna sonora, nella New York dei luccicanti anni Settanta.

Indimenticabile.

“Che strano chiamarsi Federico” di Ettore Scola

(Italia, 2013)

Il grande Ettore Scola firma un imperdibile e intimo ritratto di quello che è stato uno dei più grandi autori cinematografici del Novecento, nonché suo amico, Federico Fellini.

I rispettivi nipoti dei due grandi registi impersonano i giovani cineasti che si conobbero nella redazione della rivista “Marc’Aurelio”, a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, fucina dei più grandi autori comici e satirici italiani dell’epoca come Ruggero Maccari, Marcello Marchesi, Stefano Vanzina, Vittorio Metz, Age e Furio Scarpelli, tanto per dirne alcuni.

Il film ripercorrere la loro amicizia fatta anche di notti passate in automobile nel ventre di Roma oltre che dietro la macchina da presa.

Il tutto ricostruito nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, luogo nel quale Fellini giro’ quasi tutti i suoi film, costruendo set indimenticabili, e dove infine gli venne allestita la camera ardente.

Ma bando alla commozione, Fellini – e questo lo raccontano tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo – non era affatto un “bravo ragazzo”: per lui la bugia era arte.

E così Scola lo ricorda come un anziano Pinocchio sempre in fuga dai Carabinieri…

Da vedere.

“Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut

(Francia, 1970)

Per scrivere la sceneggiatura di questo struggente film, Truffaut e Jean Gruault si rifecero direttamente al vero diario del dottor Jean Itard, il medico che accolse in casa sua il ragazzo trovato in una foresta francese nel 1798.

Come molti altri film di François Truffaut, anche “Il ragazzo selvaggio” è un inno in difesa dei bambini, dei ragazzi e di tutti i più piccoli e deboli della società.

Lui, che passò molto tempo della sua giovinezza in riformatorio, con la sua cinematografia ha contribuito a creare quell’attenzione all’infanzia – e anche alla disabilità – che oggi sembra scontata ma che fino a poco tempo fa non lo era affatto.

Per questo, per esempio, ogni volta che vado all’Ikea ed entrando nel reparto bambini leggo la scritta “Per i più importanti del mondo” penso al maestro François Truffaut.

Aggiungo, infine, che nulla mi toglie dalla testa che David Lynch si sia ispirato a questa indimenticabile pellicola per girare dieci anni dopo il suo “The Elephant Man”, e non solo per il bianco e nero.

“Il miglio verde” di Frank Darabont

(USA, 1999)

Dopo lo splendido “Le ali della libertà”, Frank Darabont firma la regia del suo secondo adattamento di un’opera del Re Stephen King.

Questa volta si tratta di un romanzo a puntate, successivamente ricompattato per esigenze editoriali, fra i più duri contro la pena di morte scritti da King.

Come in “Rita Hayworth e la redenzione del carcere di Shawshank”, “Il miglio verde” è ambientato nell’America degli anni Cinquanta, periodo centrale nella narrativa del Re, e che lo stesso Darabont riesce a ricreare magistralmente sul grande schermo.

Ma la bellezza di questo film è dovuta anche a un cast straordinario fra cui spiccano ovviamente Tom Hanks – altro grande paladino a favore dell’abolizione della pena di morte negli USA -, Michael Clarke Duncan, David Morse e Sam Rockwell, davvero squilibrato e spietato.

Per la chicca: Darabont ha raccontato che Duncan (scomparso prematuramente nel 2012) era alto 1,94 centimetri, ma per renderlo “gigantesco” – come vuole il racconto – rispetto agli altri, l’attore dovette recitare la maggior parte delle scene su uno sgabello visto che Hanks è 1,84 e Morse 1,93.

“Una squillo per l’ispettore Klute” di Alan J. Pakula

(USA, 1971)

Troppo spesso questo noir è classificato semplicemente come un thriller, ma in realtà è molto di più.

Una straordinaria, bellissima e soprattutto incontenibilmente sensuale Jane Fonda – che per questo ruolo ha vinto non a caso l’Oscar – incarna Bree Daniel, una giovane squillo – che oggi molti chiamerebbero escort – implicata, suo malgrado, nella scomparsa di un ricco uomo d’affari suo cliente.

Per mantenere il riserbo la famiglia assolda l’ex ispettore di polizia Klute (un glaciale Donald Sutherland) che dovrà confrontarsi con un mondo apparentemente luccicante, ma in realtà spietato e crudele.

Grazie anche all’interpretazione di Jane Fonda, il film descrive dolorosamente e senza false ipocrisie la strada che porta una ragazza a prostituirsi – fatta soprattutto di abusi e violenze – e il mondo della prostituzione in generale dove chi si prostituisce viene sfruttato come mero capo di bestiame, in tutti i sensi.

Tosto.